La sua voce ci ricorda che siamo sgangherati, ma proprio in mezzo ai nostri errori recidivi sa uscire mezza nota che sa Cielo.
Morì nel bel mezzo dell’estate, come chi viene buttato fuori da una festa sul più bello. Aveva 27 anni ed era il 23 luglio 2011. L’ultima cosa che disse alla sua guardia del corpo, prima di essere trovata morta, fu: “Ehi, ma io so cantare!”. Era a pezzi, il corpo sfinito da una magrezza malata e dall’abuso di alcool e droghe, le scappò detto quel che preme a tutti noi: valgo qualcosa, anche se so rovinarmi la vita?
Vorrei non essermi buttata in questo gioco
che casino abbiamo fatto
ed ecco l’ultimo tassello
l’amore è un gioco in cui si perde.
(da Love is a losing game)
Riguardo spesso quel video, l’ultima esibizione pubblica di Amy Winehouse. Era a Belgrado, un concerto in cui si presentò sul palco completamente sfatta, ubriaca e chissà cos’altro. Non voleva starci, voleva scendere dal palco. Ma il business le impose di starci, gli organizzatori la costrinsero.
Più volte la si vede parlottare con la guardia del corpo, nessuna pietosa via di fuga. Sei Amy Winehouse, devi cantare.
E quando i musicisti attaccano il brano, lei intona le prime note con le braccia conserte, come uno interrogato dopo aver chiesto la giustificazione, come una esposta al pubblico ludibrio. Il resto è sfacelo. Lei che barcolla e ha gli occhi stralunati, la voce balbetta qualcosa, e soprattutto fischi, lunghi e forti e prolungati. Nessuna pietà, è tutto un dagli alla diva sfatta.
Guardo questo video con gratitutide più che con compassione. I testimoni migliori lo sono senza volerlo e saperlo. Possono essere pessimi esempi che finalmente fanno a pezzi la zuccherosa metafora sull’essere bravi e meritevoli.
L’idea di progresso applicata alla salvezza dell’anima è atroce. Non esiste nessuno che procede di bene in meglio, liberandosi via via delle zavorre e salendo un gradino alla volta la scala che conduce a una versione purificata e santa di noi. Siamo e restiamo sporchi, recidivi nel dare il peggio. Ed è proprio questa la vera speranza: che non ci sia tolto l’aggancio col Cielo in mezzo ai nostri pasticci.
Su quel palco, tra i fischi che mortificano, ad Amy è scappata una qualche mezza nota non solo intonata ma addirittura inarrivabile anche ai talenti più applauditi. Il corpo parlava di fine, e di un’autodistruzione perversa, ma qualcosa restava a sussurrare che anche il peggiore di noi è accordato con l’eterno del Cielo.
E quest’immagine è infinitamente più tragica e bella di tutte le chiacchiere su una meritocrazia guadagnata a suon di condotte irreprensibili. Amy era l’opposto di una santa, proprio come noi. Il suo talento implorava, forse a sua insaputa, quello che tutti chiediamo: alzare gli occhi a Qualcuno che ci tolga dal marcio.
Ho tradito me stessa
come sai che avrei fatto
ti ho detto che ero io il problema
perché sai bene che non sono buona.
(da You Know I’m no good)
Tatutata, un alveare nero in testa e quella grossa linea di eyeliner (che sta bene solo a lei). Era diventata un’icona, più che una persona. Forse lo aveva capito, il suo corpo continuava a dimagrire e ho sempre avuto l’impressione che quelle braccia smilze e il bacino quasi inesistente volessero gridare che la macchina del successo la stava prosciugando.
All’inizio si era ribellata al sistema. Quando uscì il suo primo disco Frank, Amy Winehouse andò in giro a promuoverlo dicendo di non comprarlo (la casa discografica aveva fatto uscire un prodotto calibrato sulle vendite, ma che tradiva il progetto e la volontà della cantante).
Progressivamente il Mostro della Fama – direbbe Lady Gaga – ha fagocitato la ragazzina di Camden dalla voce jazz pazzesca, per dar in pasto al mondo l’ennesima celebrità da milioni di dischi venduti. Certo, anche l’amore tossico con Blake Fielder-Civil ha contribuito a precipitarla nel buio, eppure proprio quel legame così forte e così sbagliato parla di una donna che ha inciampato nell’amore. Voleva essere amata, ha provato ad amare.
Il pubblico applaude i nostri talenti (enormi o appena accennati), ma c’è qualcuno che ci dà la mano quando siamo solo e soltanto noi stessi?
Proprio nei giorni della sua morte Amy Winehouse stava ultimando le pratiche per l’adozione di una bimba proveniente dai Caraibi. Desiderava essere madre. E’ un copione che non abbiamo quello di Amy in versione mamma, quello che – personalmente – avrei voluto fosse l’addio con insulti pesanti allo showbiz e l’inizio di una vita in cui si canta per una figlia (e solo dopo anche per il resto del mondo).
Forse capiterà così anche a noi, saremo presi sulla soglia di una buona azione. La morte ci coglierà di sorpresa, ci presenteremo al Padre così come siamo, zoppicanti peccatori con certi buoni propositi in tasca.
Si, Amy. L’amore è un gioco in cui si perde. Si perde la faccia, di sicuro quella pubblica. La tua faccia era diventata una maschera già negli ultimi anni di vita. E alcuni oggi continuano a tatuarsi il tuo profilo così riconoscibile per venerarti da morta. Amiamo tanto gli idoli dannati, dimenticando che non c’è nulla di umano nell’autodistruzione. Ed è anche una sonora scemenza dire che le voci come la tua cantano canzoni indimenticabili solo quando soffrono. Questa facciata di stucchevole malinconia la si può proprio perdere.
E anche l’amore vero è bene perderlo. Non sentirsene padroni.
Nell’ambiente musicale era noto il “soft touch” di Amy Winehouse:
Nel corso della sua vita Amy Winehouse ha donato dei soldi a molti enti di beneficenza, in particolare quelli riguardanti i bambini. Anche se questo lato della sua personalità non è mai stato ben noto al grande pubblico, sia nella comunità artistica che nella comunità degli enti benefici, era conosciuta per la sua generosità ed è stata anche conosciuta come un soft touch. “Chiedi a Amy e lei lo farà” era una frase comune tra la comunità di beneficenzanei riguardi della Winehouse. Da Di Lei
La sofferenza, e anche i nostri lati meno presentabili, non servono per fare belle canzoni (esibizioni autocelebrative delle nostre ferite). Servono, se va bene, a darci un tocco leggero in mezzo alla tempesta. Coi peccati e gli scivoloni ci si va pesante, il bene sarà sempre una parte leggera e piccola di noi. E va benissimo così. Perché – più che darlo – dobbiamo chiederlo a Chi ne ha piene le mani per noi.
tratto da aleteia.org
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