La separazione delle Chiese è il più grave scandalo pubblico della cristianità. Nulla lo può scusare, neppure nelle sue cause o nelle sue conseguenze, che sono la perdita di credibilità nella missione cristiana interna ed esterna.
del 01 gennaio 2002
La separazione delle Chiese è il più grave scandalo pubblico della cristianità. Nulla lo può scusare, neppure nelle sue cause o nelle sue conseguenze, che sono la perdita di credibilità nella missione cristiana interna ed esterna. Tutto ciò che aiuta a ripararla è a priori nella direzione della volontà salvifica di Dio. Se in genere ha potuto acquistare forza il pensiero che in tale questione si debba fare qualcosa; che, nonostante tutto, antichissimi congelamenti senza speranza si debbono fondere: ciò non si può comprendere se non per via di un miracolo della grazia dello Spirito divino, che pur nella sua libertà ha ascoltato anche le preghiere ed i dolori dei cristiani dell’una e dell’altra parte.
Noi facciamo tutto ciò che è in nostro potere, non ascrivendo nulla a noi stessi, ma tutto all’onnipotente Spirito creatore. Ed avendo incominciato così a sperare, diamo anche per il futuro il primato alla speranza, contro tutti i contraccolpi, contro tutte le impossibilità ancora così manifeste. Soltanto lo Spirito di Cristo può abbattere questi muri divisori, e non noi con la nostra miglior volontà, con tutta la nostra prudente diplomazia teologica. Sarà buona cosa se, proprio qui, noi badiamo con accresciuta diffidenza alle occulte ambiguità delle nostre imprese e le sottoponiamo continuamente al giudizio della parola di Dio. Tuttavia l’esigenza non è facilmente realizzabile: tentare personalmente tutto ciò che è in nostro potere e favorisce lo spirito di unità di Cristo, senza far nulla che prevenga in modo puramente umano questo spirito con costrizione ‘tecnica’, ‘magica’.
Sarebbe così ovvio dire: accentuiamo ciò che unisce e lasciamo in disparte ciò che separa. Ciò potrebbe essere più facile per i protestanti, dove ciò che separa non consiste tanto in un meno, quanto piuttosto in un più, che viene imputato a noi cattolici come illegittima eccedenza sul semplice messaggio del vangelo. Per i protestanti la difficoltà sta nel comprendere che questo più, cattolico, può essere reso perspicuo dal vangelo. Il dovere quindi dei cattolici sarebbe di produrre questa possibile perspicuità e poi l’effettiva visione. Ma in che modo? Si può dire a buon diritto che tutte le cose ecclesiastiche, anche le proposizioni dogmatiche, sono relative, si riferiscono cioè al punto assoluto della rivelazione di Dio in Cristo. Il corpo è relativo al capo; l’eucaristia è relativa alla cena ed alla croce; la madre è relativa al figlio; il purgatorio è relativo al giudizio di Cristo; l’ufficio ecclesiastico è soprattutto relativo al sacerdozio di Cristo, e per i capi ufficio, non meno che per gli altri, è vero che: «Uno solo è il vostro maestro, ma voi siete tutti fratelli». Ed ogni dogma è relativo alla verità rivelata, che esso, circoscrivendo, sintetizzando, vuole presentare in modo valido, ma non esauriente. La miglior dimostrazione di questa giusta relatività, dinanzi ai fratelli di fede separati, sarà quella esistenziale, a quel modo che Giovanni XXIII ha dato a tutto il mondo l’esempio impressionante della relatività anche del supremo ufficio ecclesiastico. Oppure come ogni concilio mette in evidenza la giusta relatività di un dogma in quanto, senza comprometterlo, lo pone in nuovi contesti, scopre aspetti completivi, ne smorza quindi l’apparente assolutezza e la rimette nella corrente dialettica del modo umano di pensare e di parlare della parola di Dio. Così ora, con non minore efficacia, la mariologia viene inserita nell’ampia cornice di tutta l’ecclesiologia.
Ma proprio quest’ultimo esempio pone chiaramente dinanzi all’alternativa. Che cosa significa qui relativizzazione? Con quale spirito, con quale intenzione, con quale recondito disegno essa viene compiuta? Si tratta forse di attenuare o addirittura di far sparire, senza darlo a vedere, i dogmi mariani, accendendo altre luci più importanti, così come le stelle impallidiscono e scompaiono al sorgere del sole? Si deve quindi dichiarare che ci si è propriamente ingannati, che non soltanto si son verificate imprudenze ed esagerazioni pratiche di una devozione unilaterale, non illuminata (che nessun uomo ragionevole contesta), ma che anche in teoria ci si è avventurati troppo oltre i rami? Ciò costituirebbe il suddetto metodo della sottrazione o livellamento. Ed è esso che, quando viene presupposto, inquieta gli animi dall’una e dall’altra parte. Dall’una, perché lo stesso cattolico non vede bene come la Chiesa possa lasciar cadere cose che ha accanitamente difeso per secoli, per millenni. Dall’altra, perché ciò dà troppo l’impressione di un gioco diplomatico poco serio, di cui si crede capace un Vaticano politicante; la condiscendenza non sarebbe puramente esteriore e quindi una trappola che poi subito si chiude, quando ci si è avventurati all’interno?
No, questa seconda via non è da seguire in campo ecumenico. Si deve seguire fino in fondo la prima strada, molto più impegnativa e spiritualmente più faticosa. Ma ciò esige da parte dei cattolici un duplice intenso lavoro teologico. Anzitutto la genuina accettazione di tutti quegli aspetti della teologia, predicazione e forme devozionali, che presso i fratelli separati possono aver valore di espressione genuina (anche se diversa) della rivelazione cristiana comunemente riconosciuta. Per la dottrina della giustificazione, che un tempo separava così nettamente, la necessaria riflessione ha già fatto un buon progresso; dovrebbe però essere portata a termine. Poi – e lo stesso dovrebbe fare l’altra parte – esige sulle proprie posizioni una riflessione così penetrante che, calandosi nelle proprie profondità, si possano incontrare le posizioni altrui; ma a tal fine è necessario uno sforzo spirituale che certamente non è compito di ognuno, e tanto meno può esserlo del laico, ma i cui progressi e risultati dovrebbero essere a grandi linee attuabili dai volenterosi, in modo che ognuno comprenda la convergenza senza potersi lagnare di astuti compromessi o di stratagemmi diplomatici.
Ma una simile impresa quanto suppone che entrambi gli interlocutori abbiano Dio davanti a sé e non dietro le spalle! Camminare piuttosto verso lui, come colui che è sempre più grande e misterioso, che, secondo la frase di Agostino, «è infinito, in modo da essere, anche se trovato, oggetto sempre di nuova ricerca (ut inventus quaeratur immensus est)». Forse oggi i cattolici, sufficientemente scossi nel loro sentimento di vita e nel loro pensiero religioso, incominciano a poco a poco a comprendere in modo nuovo il senso di questa frase. Forse dalla realtà del dialogo ecumenico imparano che la rivelazione di Dio non si può mai mettere in bottiglia e conservare in cantina; che le risposte, che essi traggono da queste riserve, non convengono affatto alle domande odierne ben precise; che, nonostante una tradizione ecclesiastica ed un magistero infallibile, la storia del mondo va inesorabilmente avanti, le ore del destino possono essere affrontate soltanto con una piena decisione personale; e che – compito difficile! – l’intera tradizione dev’essere continuamente fusa nel momento storico, in ordine al quale dev’essere concepita e formata in modo nuovo. Allora veramente siamo anche sicuri dell’aiuto dello Spirito santo, allora esso ci diviene sensibile, allora ci appare il senso di ciò che significa veramente tradizione e che non acquista mai forma senza martirio, senza il rischio di vita e di morte per una testimonianza totale.[1] Che cosa sia il cristiano, in tali dialoghi dovrebbe stare con forza dinanzi a noi, e non dietro di noi come qualcosa di già acquisito, su cui non ci sia più da pensare. Ma proprio in questi dialoghi, come si dimostrerà in seguito, la cosa è ancora controversa, perché per il cattolico è appunto qui l’importante: non arrendersi, riducendo ed abbandonando il suo più, e non riposare finché non l’abbia riportato, riflettendo, al nucleo del vangelo.
[1] Cf. H. U. von Balthasar, Cordula ovverosia il caso serio, Queriniana, Brescia 1968.
Hans Urs Von Balthasar
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