Non dimentichiamo che gli islamisti fanno soprattutto strage nei loro Paesi...
Hollande l’ha detto nel suo discorso di ieri. Non è uno scontro di civiltà. Perché l’estremismo jihadista non ha niente di civile. I Paesi musulmani lo ripetono ogni volta. «Le prime vittime del terrorismo islamista siamo noi». I numeri danno loro ragione. I morti islamici per mano di islamisti, soltanto nel 2015, sono oltre ventitremila. I morti in Europa in attacchi jihadisti sono 148 (Parigi, Copenaghen, Parigi). Più i 224 russi uccisi sul Sinai nell’attentato al volo da Sharm el Sheikh a San Pietroburgo e i turisti occidentali al museo del Bardo di Tunisi (21) e sulla spiaggia di Sousse (38). Centinaia di vittime innocenti che ci stracciano il cuore. Ma dall’altra parte ce ne sono decine di migliaia (24.517 nel 2014 nei Paesi a maggioranza islamica, secondo il Gtd) che passano e scompaiono rapidamente nel flusso di notizie sui media occidentali.
BEIRUT COME PARIGI
I cittadini dei Paesi islamici, quelli più colti, che parlano lingue europee e ci seguono, si sentono feriti. I social media hanno accentuato questo senso di differenza di trattamento. Da venerdì, su Twitter, il dibattito fra analisti e blogger del mondo musulmano gira attorno a questo. Da Beirut la reporter televisiva Jenan Moussa ha cominciato a postare le foto delle vittime, 44, degli attacchi kamikaze condotti dall’Isis il giorno prima di Parigi, con gli stessi gilet imbottiti di esplosivo e bulloni di Parigi. Studentesse, bambini, padri di famiglia. E si chiedeva perché non avessero lo stesso impatto di quelle che arrivavano dalla Francia.
Certo. Quando il nemico ti colpisce in casa è diverso. Libano, Siria, Iraq, Afghanistan, Pakistan sono percepiti in Europa come lontani e in guerra permanente. Ed è vero che il grande conflitto civile fra sciiti e sunniti, paragonato alla Guerra dei Trent’anni europea fra cattolici e protestanti, sta massacrando il Medio Oriente dal 1980 senza interruzioni. Ma è anche vero che il mondo della globalizzazione è piccolo. Il conflitto non è più in un mondo lontano. Se la Siria va in pezzi milioni di profughi arrivano sulle nostre coste. E gli altri effetti collaterali li abbiamo appena sperimentati.
I RAGAZZI DI PESHAWAR
Il blogger pachistano Raza Ahmad Rumi, ancora su Twitter, chiedeva di non dimenticare gli studenti massacrati dai taleban a Peshawar (dicembre 2014, 145 morti). Uguali ai ragazzi del Bataclan. Ha suscitato un dibattito furioso. «Perché gli europei sono così uniti fra loro quando un Paese viene colpito e noi musulmani siamo così divisi?» si chiedevano i pachistani. L’Europa, vista da uno degli epicentri della guerra civile islamica, sembra un blocco di granito. Mentre l’Isis continua ad alimenta il conflitto sunniti-sciiti.
Fra i sette Hazara (sciiti) decapitati dall’Isis in Afghanistan, lo scorso 30 settembre, c’era una bambina di nove anni. La sua immagine sul Web ha acceso l’indignazione, la protesta che ha quasi preso d’assalto il palazzo presidenziale di Kabul. Ma era soltanto nel campo degli sciiti. Sul Web «fan boys» dello Stato islamico si scontrano con sostenitori delle milizie sciite, o dei curdi (sunniti), a colpi di «cane», «ratto», «maiale» e disinformazione. La guerra civile va avanti. E coinvolge anche noi.
Giordano Stabile
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