La domenica seguente, 8 novembre, fu festa grande. Don Bosco dovette sedere in poltrona in mezzo al prato, con i giovani che facevano cerchio intorno, e sentire i loro canti e i loro auguri.
Molti di quei ragazzi erano andati a trovarlo ai Becchi, e l'avevano forzato ad anticipare il ritorno, ponendogli la scherzosa alternativa: “O lei torna a Valdocco, o noi trapiantiamo l'oratorio qui”.
Don Cafasso si era opposto a un ritorno così anticipato rispetto ai consigli del medico. Gli aveva addirittura fatto dire una parola dall'Arcivescovo. “Mi fu consentito di tornare all'Oratorio - scrive don Bosco - con l'obbligo per due anni di non predicare”. Ma subito confessa: “Ho disubbidito”.
Le stanze illuminate piene di ragazzi
La prima preoccupazione di don Bosco fu quella di riprendere e di allargare le scuole serali: “Ho preso a pigione un'altra camera. Facevamo scuola in cucina, in camera mia, in sacrestia, in coro, nella chiesa. Fra gli allievi c'erano anche fior di monelli, che guastavano o mettevano sottosopra tutto. Alcuni mesi dopo riuscii ad affittare altre due camere”.
Testimoni del tempo ricordano: “Era uno spettacolo vedere alla sera le stanze illuminate, piene di ragazzi e giovani. In piedi dinnanzi ai cartelloni, con un libro in mano, nei banchi intenti a scrivere, seduti per terra a scarabocchiare sui quaderni le lettere grandi”.
Don Carpano, don Nasi, don Trivero, don Pacchiotti sono tornati ad aiutarlo. La faccenda della “fissazione” si è spenta durante la malattia e la lunga convalescenza. Se don Bosco ha un'idea fissa, si è dimostrato capace di sputare sangue per realizzarla.
Con la marchesa di Barolo è rimasta un poco di ruggine. È inevitabile, quando entrambi possono dire: “Visto che avevo ragione?”. La marchesa ha visto puntualmente avverarsi le sue previsioni: don Bosco è crollato e ha rischiato di morire, il lungo riposo ha dovuto prenderselo come convalescenza, e l'oratorio ha continuato a marciare sotto la guida di don Borel. Ma anche don Bosco sente di aver avuto ragione nel non abbandonare l'oratorio a nessun costo. A ogni modo, è impossibile che in questo stato di salute don Bosco possa riprendere il suo lavoro all'Ospedaletto. Così il loro mutuo impegno, scaduto tacitamente in agosto, non viene più rinnovato. Don Bosco si recherà solo saltuariamente a predicare tra le ragazze ammalate. La marchesa non gli fa più recapitare lo stipendio, ma attraverso don Borel e don Cafasso gli farà arrivare generose offerte “per i suoi monellacci”, fino all'anno della sua morte, 1864.
Ma queste sono piccole cose di fronte alle vicende gravi che sono ormai nell'aria. L'unica cosa veramente importante è che don Bosco abbia dato stabilità al suo oratorio e riacquistato la salute prima dello scoppio del grande temporale politico.
Papa Mastai-Ferretti prende il nome di “Pio IX”
Nei primi mesi di quel 1846, il celebre giornalista De Boni scriveva a Torino: “Sono annoiato di passeggiare per i quadrati di questa città quadrata, dove tutti parlano sommesso, tutti camminano pian pianino. Disprezzo il ghiaccio polare che si accumula qui a montagne, queste strade diritte come sono obliqui gli uomini, codesto prudente liberalismo che sente prediche nella domenica, e ogni venerdì recita il rosario del progresso cattolico del conte Balbo, che Dio lo benedica”.
Come profeta, De Boni manifesta poche doti. Torino è una polveriera ormai prossima a esplodere. Il conte Balbo rappresenta quel liberalismo moderato, che a distanza non di anni ma di mesi agirà come un terremoto in tutta l'Italia.
Nel giugno di quell'anno è eletto papa il cardinale Mastai Ferretti, vescovo “spregiudicato” di Imola. Prende il nome di “Pio IX”. È un uomo piissimo e semplice. Non è un politico, né è favorevole alle idee dei liberali. Ha invece un profondo senso di umanità: per questo mette in atto rapidamente alcune riforme attese da anni nello Stato Pontificio, che vengono scambiate per “riforme liberali”, con tutti gli equivoci conseguenti.
Pochi giorni dopo la sua elezione (17 luglio), nonostante il parere contrario di molti cardinali, concede una larga amnistia politica. Molti detenuti, colpevoli soltanto di aver partecipato a “moti liberali”, vengono rimessi in libertà.
Per “capire” i detenuti, si reca sovente in incognito nella prigione di Castel Sant'Angelo, parla con loro, gettando il panico tra i direttori del carcere. Per “sentire” le lamentele della gente, visita con lo stesso sistema gli ospedali.
Nei mesi seguenti mette un freno ai soprusi della polizia, e manifesta la ferma volontà che l'invadente diplomazia austriaca rispetti maggiormente l'indipendenza della Santa Sede.
Nella primavera del 1847 concede una certa libertà di stampa, istituisce una Consulta di Stato con partecipazione di laici designati dal basso (qualcosa che fa pensare vagamente a un Parlamento). Permette la formazione di una Guardia Civica (milizia popolare).
Nell'atmosfera di fervida attesa creata dal “Primato” di Gioberti, Pio IX sembra ai liberali il Pontefice “neoguelfo” tanto atteso. Si esalta Papa Mastai come colui che realizzerà l'unità e l'indipendenza italiana in un'atmosfera liberale. Divampano gli entusiasmi. Dovunque si rechi, Pio IX non può salvarsi da sfilate, omaggi, fiaccolate.
Non sono soltanto i liberali a “capire così” Pio IX. Anche persone socialisteggianti ed esponenti della “sinistra democratica” gridano al miracolo. Anche Metternich, il potente Cancelliere austriaco che è il carabiniere dell'assolutismo e del conservatorismo, esclama desolato: “Tutto mi sarei aspettato, ma non un papa liberale”.
Pio IX non è un papa liberale, eppure per quasi due anni verrà forzato dagli eventi e dalle circostanze a svolgere un ruolo che si presta all'equivoco.
Nell'estate del 1847, per garantirsi contro il “papa liberale”, Metternich fa occupare da un presidio austriaco la città pontificia di Ferrara. I liberali interpretano questa mossa come la definitiva rottura tra Santa Sede e Austria, la scintilla della imminente guerra di indipendenza. Carlo Alberto offre il suo esercito al Papa, dall’America Garibaldi mette a disposizione di Pio IX la sua legione di volontari, da Londra Mazzini gli scrive una lettera con parole infiammate.
Pio IX diventa così la bandiera della libertà nazionale. Non ha mai pensato di provocare una guerra, ma viene scavalcato dagli eventi. La guerra d'indipendenza, giustificata nel suo nome, è ormai nell'aria.
L'urto di don Bosco con i “preti patrioti”
Dopo Roma, Torino è il centro delle manifestazioni a favore di Pio IX e dei suoi gesti “liberali”.
L'arcivescovo Fransoni, che è un rigido conservatore, rimane perplesso per gli sviluppi della situazione. Ha forti sospetti sulla “strumentalizzazione” del nuovo Papa da parte dei liberali. Altri vescovi piemontesi invece (quelli di Fossano, Pinerolo, Biella), sono decisamente ed entusiasticamente schierati con il “nuovo corso liberale della Chiesa”. Nel 1848 quasi tutti i vescovi piemontesi e sardi scriveranno lettere pastorali patriottiche.
“Anche don Bosco - scrive Pietro Stella -, attorno al 1848 deve aver preso parte alle comuni speranze d'Italia nella forma neoguelfa, che appariva rispettosa per il Papa e per le antiche dinastie governanti”. Nella seconda edizione della Storia Ecclesiastica apparsa all'inizio del 1848, chiama il teorico del liberalismo neoguelfo “il grande Gioberti”.
“Ma non dovette essere un sentimento di lunga durata”, se questo apprezzamento scompare nell'edizione successiva. “Presto dovette venire l'urto con i preti patrioti, e si sarebbe scavato irrimediabilmente un solco tra lui, don Cocchi, don Trivero e don Ponte”.
Quest'urto si verificò probabilmente quando cominciò ad apparire che molti liberali volevano solo “servirsi” del Papa per i loro fini politici, e specialmente dopo l'allocuzione del 29 aprile 1848, con cui Pio IX chiarì definitivamente l'equivoco.
Sassaiole rabbiose
Intanto, accanto alla “storia grande”, nella bassa di Valdocco si svolge la storia umile di tutti i giorni: la fatica oscura per il bene dei ragazzi, la lotta silenziosa con i debiti.
Don Bosco, che è riuscito nel dicembre del 1846 a subaffittare da Pancrazio Soave tutte le stanze della casa Pinardi e il terreno circostante (710 lire all'anno), fa riparare il muretto tutto intorno al prato dei giochi, e costruire alle due estremità un portone e un cancello. Così la “ciurmaglia invereconda” che alla domenica invade l'albergo della Giardiniera e altre case all'intorno, non potrà più infiltrarsi nel cortile a importunare i ragazzi.
Una parte del prato (dove oggi è un negozietto di oggetti religiosi), don Bosco lo trasforma in orto. I ragazzi lo chiamano “l'orto di mamma Margherita”. Tra spese per affitti e per aiutare i giovani,
i soldi per la cucina sono sempre scarsi. E quella donna di campagna cerca di risparmiare coltivando lattughe e patate.
Nei prati intorno, alla domenica, si ritrovano bande di giovinastri. Giocano ai soldi, bevono vino comprato a bottiglioni alla Giardiniera, bestemmiano, insultano i ragazzi che entrano all'oratorio. Don Bosco li avvicina, con pazienza. È capace di sedersi tra loro per fare la partita a carte. Poco per volta riesce ad attirarne parecchi. Più di una volta, però, mentre spiega il catechismo all'aperto, i suoi ragazzi devono scappare in cappella investiti da rabbiose sassaiole.
Sapeva molto bene, don Bosco, che i cinquecento ragazzi che radunava nel suo oratorio erano poca cosa rispetto ai giovani che vagavano per la città, senza fede e sovente senza pane.
Borgo Vanchiglia, non molto lontano da Valdocco, era infestato dalla “cocche”, bande di teppisti che davano filo da torcere ai carabinieri, vivevano scippando borse e fagotti alla gente che tornava dal mercato, e spesso si scontravano tra loro in sassaiole paurose e tragiche, che potevano finire a colpi di coltello.
Passando da quelle parti, don Bosco si getta qualche volta in mezzo ai combattenti, cercando di disperderli “a scapaccioni e a pugni”. Si è ricevuto in faccia una zoccolata. “Non con le percosse”, gli è stato detto nel sogno, ma anche i sogni hanno le loro eccezioni.
Un prete ladro
Una delle tattiche che don Bosco usa per portare bravi ragazzi all'oratorio, è entrare in una bottega dove lavorano dei giovani, e affrontare il padrone:
- Mi farebbe un piacere?
- Se posso, reverendo.
- Sì che lo può. Alla domenica mi mandi questi ragazzi all'oratorio di Valdocco.
Potranno imparare un po' di catechismo e farsi buoni.
- Ne hanno proprio bisogno di farsi buoni. Qualcuno è poltrone, insolente.
- Ma no. Hanno una faccia da galantuomini, non vede? Allora intesi: domenica vi aspetto all'oratorio. Giocheremo insieme e ci divertiremo.
Con un altro tipo di giovani, la tattica era diversa. Mentre don Borel badava all'oratorio, lui girava per le piazze e le strade della periferia. Mazzi di giovani giocavano a soldi sui marciapiedi. Mentre le carte giravano, i soldi (a volte fino a quindici, venti lire) erano raccolti al centro, su un fazzoletto.
Don Bosco studiava bene la situazione, poi con una mossa rapida afferrava il fazzoletto e se la dava a gambe. I giovani, sbalorditi, balzavano in piedi e gli correvano dietro gridando:
- I soldi! Ci restituisca i soldi!
Avevano visto di tutto, quei poveri ragazzi, eccetto un prete ladro. Don Bosco continuava a correre verso l'oratorio, e intanto gridava:
- V li do se mi prendete. Su, correte!
Infilava il portone dell'oratorio, poi quello della cappella, e i giovani dietro. A quell'ora, sul pulpito, c'era don Carpano o don Borel che predicava tra una massa fitta di ragazzi. E cominciava la scena.
Don Bosco si fingeva un negoziante di passaggio, alzava il fazzoletto che aveva ancora in mano e gridava:
- Torroni! Torroni! Chi compra torroni? Il predicatore fingeva di perdere le staffe:
- Fuori di qui, mascalzone! Non siamo in piazza!
- Ma io devo vendere torroni, e qui ci sono tanti ragazzi. Nessuno fa un'offerta?
Il dialogo era in dialetto, i ragazzi ridevano a crepapelle, i nuovi arrivati a sentire quel battibecco rimanevano interdetti: ma dove erano capitati?
Intanto i due “dialoganti” continuavano a battute allegre, a frizzi vivaci, e portavano la disputa sul gioco dei denari, sulla bestemmia, sulla gioia di vivere nell'amicizia con il Signore. Finiva che anche quelli arrivati dietro don Bosco si mettevano a ridere, a interessarsi degli argomenti.
Alla fine si attaccava il canto delle litanie. Quelli, stringendo da vicino don Bosco:
- Allora, i soldi ce li dà?
- Ancora un momento, dopo la benedizione.
Quando uscivano in cortile, restituiva il denaro, aggiungeva la merenda, e si faceva
promettere che “a giocare sarebbero venuti qui, d'ora innanzi”. E molti ci stavano.
I canti e gli urli degli ubriachi
Stefano Castagno, un ragazzo di quel tempo, testimoniava: “Don Bosco era sempre il primo nei giochi, l'anima delle ricreazioni. Non so come facesse, ma si trovava in ogni angolo del cortile, in mezzo a ogni gruppo di giovani. Con la persona e con l'occhio ci seguiva tutti. Noi eravamo scarmigliati, talvolta sudici, importuni, capricciosi. Ed egli provava gusto a stare con i più miseri. Per i più piccoli aveva un affetto da mamma. Spesso si bisticciava, ci si pestava. E lui a dividerci. Alzava la mano come per percuoterci, ma non ci picchiava mai, ci tirava via a forza prendendoci per le braccia”.
Giuseppe Buzzetti ricordava: “Conobbi centinaia di ragazzi che venivano all'oratorio privi di istruzione e di sentimenti religiosi, e che cambiarono condotta in brevissimo tempo. Si affezionavano talmente al nostro oratorio che non se ne staccavano più, e si accostavano alla confessione e alla Comunione tutte le domeniche”.
Ciò che disturbava, specialmente d'estate, era la “Giardiniera”, cioè la bettola frequentatissima di casa Bellezza. Dalla cappellina, quando si dovevano tenere porte e finestre aperte, si sentivano i canti e gli urli degli ubriachi. A volte delle risse furibonde coprivano la voce del predicatore. Qualche volta don Bosco fu costretto a scendere dal pulpito. Deposta cotta e stola entrava nella taverna, minacciando di chiamare i carabinieri.
Si faceva sempre più urgente il problema dei collaboratori. Don Borel, don Carpano e gli altri preti, alla domenica erano spesso impegnati altrove. Dove trovare persone per l'assistenza, i catechismi, e specialmente per le scuole serali?
Don Bosco ricordò che nel sogno “parecchi agnelli si mutavano in pastori”. Cominciò a cercare i collaboratori tra i suoi stessi ragazzi, se li fabbricò. Scelse tra i più grandi i giovani migliori, fece loro una scuola a parte. “Quei maestrini - scrive don Lemoyne -, otto o dieci all'inizio, fecero un'ottima prova, non solo, ma alcuni di essi divennero poi sacerdoti eccellenti”.
Vennero a dargli una mano anche alcuni bravi laici della città: un orafo, due chincaglieri, un droghiere, un sensale, un falegname.
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