La politica del Padre Nostro.
Nel 1848 don Bosco ha avuto il suo primo urto drammatico con la politica, e ha scelto una linea che lascerà in eredità ai suoi primi Salesiani.
La riassumerà molti anni dopo dicendo a mons. Bonomelli, vescovo di Cremona: “Io mi accorsi che se volevo fare un po' di bene, dovevo mettere da parte ogni politica. Me ne sono sempre guardato, e così ho potuto fare qualche cosa, e non ho trovato ostacoli, anzi ho avuto aiuti anche là dove meno me l'aspettavo”.
Dopo aver riflettuto a lungo sull'atteggiamento di don Bosco non solo durante le vicende del 1848, ma in tanti altri momenti gravidi di politica e di grossa politica, ci pare di poterlo schematizzare così.
Primo. Don Bosco è convinto della “relatività” della politica delle parti, dei partiti. La considera una componente assai variabile della vita (Perrone diventa Primo Ministro di quel re che voleva mandarlo al capestro; La Tour fedelissimo di Carlo Alberto viene congedato dallo stesso perché “non più fidato”). Afferma con risolutezza: “Nessun partito mi avrà mai”. Di conseguenza, si attesta su capisaldi ben più solidi che la destra e la sinistra: le anime da salvare, i giovani poveri da nutrire e educare. È ciò che lui chiama “la politica del Padre Nostro”.
Secondo. Qualche studioso ha fatto osservare che don Bosco, pur professandosi fuori della politica, di politica ne fa parecchia e quasi sempre dalla parte dei conservatori, degli austriacanti. A noi questa osservazione pare in buona parte vera, se alla parola “austriacante” non si dà un senso deteriore, ma si vuole soltanto affermare che don Bosco guardò molte volte con simpatia l'Austria. Era stato formato nel seminario (come già abbiamo fatto notare) al conservatorismo e a guardare l'Austria come protettrice del Papa. E questo non su libri di politica, ma su encicliche e discorsi del Papa.
Era quindi naturale che avesse questo atteggiamento. Probabilmente non lo considerava nemmeno un atteggiamento politico, ma una questione di fede, o almeno di fedeltà al Papa. Esattamente come intorno al 1948 molti cattolici guardarono con simpatia gli Stati Uniti: non perché condividessero la loro politica o il loro razzismo contro i negri, ma perché vedevano negli USA l'unica difesa della “civiltà cristiana” contro l'Unione Sovietica di Stalin.
Don Bosco conosceva inoltre molti liberali e democratici torinesi, non mitizzati come li presentano oggi i libri di storia, ma com'erano nella realtà della cronaca quotidiana, furbi, intriganti, di dubbia rettitudine (si pensi a un figuro come Brofferio).
Terzo. A volte, nonostante la volontà di fare “la politica del Padre Nostro”, è inevitabile che una persona come don Bosco debba pronunciarsi, schierarsi. In questi casi don Bosco si schiera con il Papa. Adotta cioè l'opinione del Papa.
Nella cronaca di don Bonetti (7 luglio 1862) si leggono queste sue parole: “Quest'oggi mi sono trovato in una casa dove ero circondato da una schiera di democratici. Dopo aver parlato di diverse cose indifferenti, il discorso cadde sulle cose politiche del giorno. Quei liberaloni volevano sapere che cosa pensasse don Bosco dell’andata dei Piemontesi a Roma (siamo a 8 anni da Porta Pia). Risposi recisamente: io sono col Papa, sono cattolico, obbedisco al Papa ciecamente. Se il Papa dicesse ai Piemontesi " Venite a Roma ", allora io pure direi " Andate ". Se il Papa dice che l'andata dei Piemontesi a Roma è un furto, allora io dico lo stesso. Se vogliamo essere cattolici, dobbiamo pensare, credere, come pensa e crede il Papa”.
Prima ancora di ragionarci su, prima ancora di far intervenire la sua mentalità, don Bosco è con il Papa. Nel 1847-48 don Bosco simpatizza per un certo tempo con i neoguelfi: non perché persuaso che questo sia il meglio, ma perché gli pare che questo sia l'atteggiamento del Papa. Dopo l'allocuzione del 29 aprile 1848 torna a essere conservatore, non perché quella è la sua mentalità, ma perché questo è il pensiero del Papa. Se il Papa cambia, cambia anche lui, senza pensarci due volte. “Se il Papa dicesse ai Piemontesi " Venite a Roma ", allora io pure”.
Don Bosco e la questione sociale.
Nel 1848, Karl Marx ha pubblicato il Manifesto dei Comunisti. È l'inizio di una rivoluzione meno clamorosa delle insurrezioni quarantottesche, che andrà però molto più lontano e in profondità. Quella comunista è una presa di posizione radicale e violenta nella “questione sociale” che agita ormai da decenni le nazioni del nord-Europa. È una denuncia drastica delle classi sfruttatrici, e l'appello alla rivoluzione violenta per “rovesciare il sistema” fondato sull'ingiustizia.
Quale fu l'atteggiamento di don Bosco nei confronti della “questione sociale”? Pietro Stella afferma: “Non pare che egli si ponga il problema delle classi in trasformazione. Non pare che avverta la vasta portata del fenomeno pauperista in ordine a rivolgimenti sociali”.
Se con questo si vuole affermare che don Bosco non ebbe una visione “scientifica” della situazione economico-sociale, né la espresse nei termini tecnici (capitale, forza-lavoro), d'accordo. Non siamo invece d'accordo se si vuole vedere in don Bosco un uomo che non capì il suo tempo, che si lasciò guidare soltanto dai “buoni sentimenti”.
Don Lemoyne, che ebbe per molti anni le sue confidenze, afferma: “Egli fu tra quelli che avevano capito fin dall'inizio, e lo disse mille volte, che il movimento rivoluzionario non era un turbine passeggero, perché non tutte le promesse fatte al popolo erano disoneste, e molte rispondevano alle aspirazioni universali, vive dei proletari. Desideravano d'ottenere eguaglianza comune a tutti, senza distinzioni di classi, maggior giustizia e miglioramento delle proprie sorti. Per altra parte egli vedeva come le ricchezze incominciassero a divenire monopolio di capitalisti senza viscere di pietà, e i padroni, all'operaio isolato e senza difesa, imponessero patti ingiusti sia riguardo al salario sia rispetto alla durata del lavoro”.
Don Bosco si trovò sullo spartiacque di due età del mondo, e quindi anche della Chiesa.
Nei secoli che precedettero immediatamente la rivoluzione industriale, gli artigiani erano riuniti in “corporazioni”: società rigide, di sapore medievale, ma che esercitavano una certa difesa verso i lavoratori. I poveri erano molti. Mai però il loro numero fu paragonabile alle masse imponenti e miserabili dei proletari, abbandonate a se stesse, create dalle fabbriche nel primo secolo della rivoluzione industriale. Il modello di intervento della Chiesa a favore della povera gente, in quei secoli, era la “beneficenza organizzata” di san Vincenzo de' Paoli (1581-1660).
Nella nuova età industriale le “corporazioni” sono finite tra i ferri vecchi (anche per il trionfo dei principi del liberalismo), e le masse dei lavoratori proletari hanno l'unica libertà di farsi opprimere da padroni potentissimi. Il liberalismo impedisce diligentemente che si formino nuove strutture che, sulla linea delle antiche corporazioni, difendano i diritti degli operai.
Nell'impossibilità di trovare belli e fatti piani e programmi di azione - dicevamo nelle pagine precedenti -, nelle incertezze che sempre esistono all'inizio di un nuovo periodo storico, molti uomini della Chiesa impegnarono tutte le loro energie nel fare “subito” qualcosa per la gente miserabile, rispolverando i metodi di beneficenza di san Vincenzo (le “conferenze” fondate a Parigi da Ozanam in aiuto dei proletari prendono proprio questo nome).
Si capì presto, tuttavia, che la beneficenza non poteva bastare. Anche nella forma nuova e socialmente avanzata di scuole professionali, di laboratori didattici, rimaneva insufficiente. Occorreva battersi per la giustizia sociale, per istituzioni e leggi che garantissero i diritti dei lavoratori. Il cammino fu lungo, per incomprensioni negli ambienti della gerarchia e per le fortissime resistenze degli Stati liberali.
Don Bosco (erano i primissimi anni della rivoluzione industriale italiana) si gettò nella situazione nuova certamente portato dall'urgenza di ciò che vedeva e dalla sua grande disponibilità a lavorare per i ragazzi poveri. La strategia del subito, dell'intervento immediato (perché, ripetiamo, i poveri non possono permettersi il lusso di aspettare le riforme e i piani organici), diventa il marchio di don Bosco e dei suoi primi Salesiani. Catechismo, pane, istruzione professionale, mestiere protetto da un buon contratto, diventano il programma “urgente” che i figli di don Bosco realizzano per i giovani proletari.
Ma questa scelta - ci pare - non fu soltanto istintiva. Con il passare degli anni, la situazione si chiarì sempre maggiormente, e don Bosco prese sempre più coscienza del tempo che era chiamato a vivere e della sua missione: della grandezza e dei limiti di essa.
Che significa “mettere da parte ogni politica”?
Torniamo un attimo all'affermazione fatta (molti anni dopo il 1848) da don Bosco a monsignor Bonomelli: “Mi accorsi che se volevo fare un po' di bene, dovevo mettere da parte ogni politica”.
Che senso ha in quel momento la parola “politica” per don Bosco? Solo “schieramento di partiti”? A noi pare di no.
La parola “politica”, in quel tempo coinvolge anche l'atteggiamento verso la “questione sociale”: essere a favore o contro il libero mercato, l'intervento dello Stato nelle questioni del lavoro, lo sciopero, le società operaie socialiste, le cooperative ispirate da Owen, i sindacati, la legislazione sociale richiesta in Germania dal vescovo Ketteler.
“Lasciar da parte ogni politica” significa anche non lasciarsi tirare dentro il dibattito sociale (che in quel momento è già parte notevole del programma dei partiti politici). Quando viene chiesto a don Bosco che ne pensa di Mazzini, non può ignorare che questo scomodo repubblicano è il capo delle “società operaie dei lavoratori italiani” e fa parte della prima Internazionale fondata (1864) da Karl Marx. “Politica” è quella di Solaro della Margarita e di Cavour, ma è anche quella dei rivoluzionari socialisti, del socialista mazziniano Pisacane che sbarca nel Sud (1857) per “sollevare le plebi oppresse”. L'atteggiamento concreto di don Bosco è “non lasciarsi trascinare in questi dibattiti”. Questo atteggiamento lo impone anche ai suoi Salesiani.
A noi non pare quindi che don Bosco “non si ponga il problema delle classi in trasformazione”. Non se l'è posto subito né “scientificamente”, ma le parole dette al Bonomelli e ripetute mille volte ai suoi Salesiani, attestano che il problema concreto l'ha sentito e l'ha risolto. In una certa sua maniera, discutibile fin che si vuole, ma lo ha sentito e risolto. Immergersi nel dibattito sociale significava schierarsi “per” qualcuno, e quindi “contro” qualcun altro. Farsi conoscere come “prete sociale” significava tagliarsi immediatamente fuori da ogni aiuto dei borghesi e dei benestanti. Egli invece aveva bisogno di aiuti, subito, da ogni parte, perché i giovani poveri non li voleva rimandare in mezzo alla strada.
Con questi aiuti egli fa del bene, tanto, concreto, ai poveri.
Uno schema semplice, elementare.
Adotta uno schema semplice, elementare, per far ragionare i ricchi e i benestanti che lo devono aiutare: “I poveri corrono rischio di essere travolti dalla rivoluzione, perché la miseria è intollerabile. Questa situazione è indegna di un popolo cristiano. I ricchi devono mettere le loro sostanze a disposizione dei poveri. Se non lo fanno, non sono cristiani. I poveri, spinti dalla miseria, pretenderanno di dividere la ricchezza " puntando il coltello alla gola ". Scateneranno cioè la " rivoluzione " che porterà disordine e violenza come il " terrore " giacobino. Tutto questo sarà stato provocato dalla insensibilità dei ricchi che non hanno voluto aiutarli ad uscire dalla miseria”. Rifacendoci alla parabola evangelica, don Bosco è il “buon samaritano” che, incontrando il ferito dai banditi, lo tira su dal fosso, lo porta all'ospedale, lo fa curare a sue spese. Non è il politico che corre a organizzare un piano legislativo per la repressione del banditismo.
Egli capisce con il passare degli anni che il “subito” non basta che l'azione della beneficenza ha dei limiti precisi. Ma egli sa di non essere solo nella Chiesa, e dichiara più volte ai suoi Salesiani “Certo nel mondo vi devono essere anche di quelli che s'interessano delle cose politiche, per dare consigli, per segnalare pericoli o per altro; ma questo compito non è per noi poveretti”; “Nella Chiesa non mancano coloro che sanno trattare valentemente queste ardue e pericolose questioni, e in un esercito vi sono quelli destinati a combattere, e quelli destinati ai bagagli e agli altri uffici ugualmente necessari per cooperare alla vittoria”.
La scelta dell'intervento urgente, del non lasciarsi trascinare nel dibattito sociale per poter essere aiutato da ogni parte, può certo essere discussa. Non possono invece essere discussi i risultati di questa scelta: un vero miracolo di bene per i giovani poveri, riconosciuto anche da chi aveva idee diverse, anche da chi (uscito dalle sue case “di beneficenza”) si batterà per i poveri con schemi diversi.
(Due soli esempi. Sandro Pertini, ex allievo delle scuole salesiane di Varazze, socialista non-credente, che diventerà Presidente della Repubblica Italiana, scriveva al suo insegnante don Borella: “Oggi comprendo che l'amore senza limiti che io sento per tutti gli oppressi, i miseri, ha cominciato a sorgere in me vivendo accanto a voi. La mirabile vita del vostro Santo mi ha iniziato a questo amore”. Lo storico Giacomo Martina afferma che i Salesiani della prima generazione, quando arrivavano in certe cittadine romagnole abitate da rossi e mangiapreti, sembravano destinati a un fallimento sicuro. E invece attaccavano con l'oratorio e la banda musicale, e dopo poco tempo erano amici di tutti. “Sono preti diversi”, dicevano).
E se la sua scelta fosse stata diversa?
Una cosa pare certa: se la scelta di don Bosco fosse stata quella di buttarsi nel dibattito sociale, di scuole e laboratori ne avrebbe potuto aprire pochi. E forse oggi la sua scelta sarebbe più discutibile ancora. Lo affermò lui stesso il 24 giugno 1883: “A che prò entrare in politica? Con tutti i nostri sforzi che cosa potremo noi ottenere? Nient'altro che di renderci forse impossibile di proseguire la nostra opera di carità”.
Schematizzando al massimo la situazione, potremmo dire che “in teoria” davanti a don Bosco venne delineandosi un dilemma:
- o battersi contro gli effetti delle ingiustizie sociali (aiutare i ragazzi poveri, domandando e accettando l'aiuto di chiunque per fondare scuole e laboratori);
- o battersi contro la causa delle ingiustizie sociali (inventare forme di denuncia pubblica, di associazioni per giovani lavoratori, rifiutare la collaborazione e la beneficenza delle persone coinvolte in un sistema politico-economico basato sullo sfruttamento), con la prospettiva evidente di inaridire le fonti della beneficenza e di abbandonare al proprio destino i ragazzi poveri.
Nel primo caso salvava i giovani dai pericoli immediati, ma rischiava di essere “strumentalizzato” dal sistema, di allevare cioè dei lavoratori obbedienti e docili che non avrebbero disturbato i potenti.
Nel secondo caso sollecitava il “sistema” a cambiare, ma rischiava di non poter andare incontro alle necessità immediate, impellenti dei poveri.
La scelta (non solo per don Bosco, ma per molti uomini della Chiesa in quel tempo) era drammatica: comunque ci si schierasse, non si faceva “tutto” quello che si doveva fare.
Don Bosco imboccò, sotto l'urgenza del momento, la prima strada. Quando ne avvertì i limiti, si sentì garantito dall'azione totale della Chiesa: “Lasciamo ad altri ordini religiosi più ferrati di noi le denunce e l'azione politica. Noi andiamo dritti ai poveri”.
Concludendo ci pare di poter affermare che se nella Chiesa ci sono molti carismi, molti doni cioè dati agli individui per il bene della comunità, don Bosco ebbe quello dell'intervento urgente a favore dei ragazzi poveri. Diverso, ma non contrapposto, a quelli più squisitamente sociali di mons. Ketteler (1811-77), di Toniolo (1845-1918), di don Sturzo (1871-1959). Per questo, il prete piemontese può stare benissimo accanto a loro. Quattro carismi diversi nell'ambito della Chiesa, vissuti con onestà e limpidezza, e proprio per questo ricchi di frutti autentici per il popolo di Dio.
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