3.3 Il punto d'incontro

Imprimiamoci ancora una volta nella mente il decorso formale della vita di Gesù. La giovinezza potrebbe essere considerata come la lunga preparazione, una graduale iniziazione dell'adolescente alla sua missione per il mondo...

3.3 Il punto d'incontro

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Imprimiamoci ancora una volta nella mente il decorso formale della vita di Gesù. La giovinezza potrebbe essere considerata come la lunga preparazione, una graduale iniziazione dell’adolescente alla sua missione per il mondo; il battesimo come conferimento dello spirito e della missione; la dimora nel deserto con la tentazione diabolica come l’ultima prova e tempera esistenziale. Ora, preparato da lontano, egli inizia la sua vita attiva, chiamando per prima cosa al suo seguito singoli uomini. Non come spettatori, ma come compagni che devono partecipare alla terrificante unicità della sua esistenza. Anch’essi si sono esposti con lui, ed egli lo conferma quando, nell’ultima cena, dice loro: «Voi mi siete rimasti fedeli nelle mie prove» (Lc. 22,28). Essi hanno fatto liberamente; hanno sempre avuto la possibilità («anche voi volete andarvene?») di abbandonarlo.‚Ä® In questa unione di una piena fedeltà di discepoli sembra dimostrarsi a tutta prima soltanto una virtù umana: quella tra la persona dei seguaci e il Signore. Ma poiché Gesù è di più, fa di più ed esige di più che non un uomo, la fedeltà dei suoi discepoli è anche di più di un attaccamento umano: è fede. Tuttavia le due cose non si unirebbero mai, se Gesù non avesse compiuto il suo atto sovrano in una forma umana e quindi aperta ed accessibile per principio agli uomini: nella forma di un’assoluta obbedienza a Dio. Egli non fa la sua volontà, bensì quella del Padre. Lo protesta tra lacrime e sudore di sangue sul monte degli Ulivi, nascondendo la sua volontà umana – al di là dei limiti del suo volere e potere nella volontà del Padre. Questa obbedienza, che fa sconfinare la finitezza di ogni facoltà umana nella infinità di Dio, è la forma di servo, liberamente assunta, dell’amore eterno, trinitario tra Padre e Figlio nello Spirito santo. È la sovrana decisione di amore di non conservare gelosamente la propria forma divina (come dice Paolo), ma di trasferirla nella piccolezza della forma umana, nella anonimità di una singola vita poco appariscente, infine in una obbedienza a Dio fino alla morte, anzi fino alla più obbrobriosa morte in croce. Obbedienza per libero amore fino alle estreme conseguenze: questa è esattamente la forma di vita del Dio incarnato. Ed è questo atto centrale che fonda ora anche la possibilità per gli uomini ordinari di partecipare alla vita, all’azione ed alla passione dell’uomo-Dio.

La libera obbedienza d’amore è il punto in cui le cose incomparabili si toccano fino ad identificarsi. Da parte dell’uomo questa obbedienza d’amore porta il nome distintivo di fede. Questa fede, in quanto atto dell’uomo, è un tentativo iniziale di consegnarsi («credo, Signore, aiuta la mia incredulità»), che da parte del Signore viene raccolto benignamente nella sua propria obbedienza, nella forza del suo esempio e modello, anzi viene già suscitato nel primo tentativo, stimolato, sostenuto, portato a successo (gratia praeveniens et consequens). Allo stesso modo che nel campo puramente umano la fiducia, la dedizione, il sì definitivo di una ragazza, può essere provocato e portato fino all’ultimo compimento dalla forza d’amore di un giovane. Ora l’arrendersi umano, per quanto si creda illimitato, conserverà forse sempre in qualche punto dei limiti inconsci, ad esempio quando l’uomo a cui ci si è dati, si trasformi completamente in infedele, disamorato, malvagio, e un legame con lui non sia più oltre sopportabile. Invece la fede in Cristo ha la sua prova esattamente nella completa sconfinatezza della dedizione: poiché ogni infedeltà da parte di Cristo rimane esclusa, persino quando la sua fedeltà divenisse a noi invisibile nelle tenebre di un completo abbandono; poiché la fedeltà di Dio per essenza è senza fine e senza pentimento, anche l’atto di dedizione amorosa, obbediente, come risposta ed affidamento alla forza della grazia di Dio che lo permette e rende possibile, può essere incondizionato ed illimitato. È l’atto che nella sua pienezza si chiama fede – amore speranza: fede amorosa che tutto spera, od amore speranzoso che tutto crede, o speranza credente che ama tutto ciò che Dio vuole. È l’atto che pone il nucleo fondamentale dell’essere cristiano, per modo che insperatamente abbiamo trovato la risposta alla nostra domanda: «Chi è il cristiano?». Cristiano è l’uomo che ‘vive di fede’ (Rom. 1,17), che cioè ha regolato tutta la sua esistenza sull’unica possibilità apertagli da Gesù Cristo, il Figlio di Dio, obbediente per noi tutti fino alla croce: quella di partecipare al sì obbediente, che redime il mondo, detto a Dio.

Da parte di Cristo è l’atto di obbedienza per amore che fonda l’esistenza, poiché il Figlio di Dio non entra nell’esistenza ‘a modo di chi è gettato’, (geworfenerweise), ma ‘a modo di chi è inviato’ (gesendeterweise). Il fatto che egli in genere esista, ed esista in tal modo, dice già manifestazione dell’amore di Dio Padre per noi, che ‘dà’ il suo Figlio per noi. Nel Verbo c’è già l’idea di sacrificio ed in questo il consenso della vittima, dell’obbedienza. Nell’esistenza del Figlio obbediente risplende quindi chiarissimamente anche il mistero della Trinità divina. Tuttavia il Figlio non obbedisce a se stesso, bensì ad un altro, ma per un amore eterno, che è il fondamento della possibilità di una simile obbedienza e nello stesso tempo l’unità di colui che comanda e di colui che obbedisce. Infatti, se il Figlio fosse obbediente in ragione di una naturale subordinazione a Dio Padre, obbedendo, non farebbe che il suo dovere, e in ciò non apparirebbe l’amore di Dio assolutamente libero. Ma se egli obbedisce senza motivo, cioè per puro amore, allora in colui che è dato appare l’amore infondato di colui che dà per noi peccatori, un amore così infondato che Paola non esita a chiamarlo insensato. E se, dopo il compimento del segno di amore che Dio inscrive nella storia umana, se, dopo la vita, morte e risurrezione della vittima, il comune Spirito del Padre e del Figlio sarà inviato come testimone perpetuo dell’evento nella Chiesa e nel mondo, allora questo Spirito non potrà mai essere ed attestare altro se non appunto l’amore infondato-insensato, di qui perciò gli uomini non potranno mai disporre e servirsi per le loro prudenti macchinazioni.

Infatti, ciò che dell’essenza di questo amore appare nell’esistenza del Figlio è la rinuncia a disporre di sé. Soltanto questa rinuncia dà all’attuazione del suo mandato l’inaudita forza esplosiva. Egli ha rinunciato ad agni prudenza, ha lasciato l’intera provvidenza al Padre che manda e dirige, e ciò lo esonera da ogni dovere di calcalo, di dosaggio, di diplomazia; gli conferisce la slancio infinito che non ha bisogno di curarsi dei muri di contraddizione, di dolore, di fallimento e di morte, perché il Padre lo dirige e lo afferra all’estrema fine della notte. Mediante l’atto di obbedienza totale il Figlio è quindi giunto alla totale libertà; tutto l’infinito spazio di Dio, sia della morte, della notte eterna, sia della vita eterna, è aperto alla sua azione. Fin dal principio egli è al di là dell’ ‘affanno’ («per il domani, di quel che si mangerà e berrà, di che si indosserà» Mt. 6,25) e nella tranquillità di colui che può lasciare tutto una volta e per sempre alla provvidenza del Padre.

Come si vede, la dogma tic a nei suoi due pilastri fondamentali: Incarnazione e Trinità, è anche l’essenza della dottrina cristiana della vita: dogma ed esistenza stanno o cadono assieme. Infatti Gesù Cristo non è soltanto il Figlio eterno del Padre, che nella sua vita e passione ci mostra e ci porta la grazia del Padre, ma è anche vero uomo che, in quanto tale, dà inizio ‘in modo originario’ e ‘per primo’ all’esistenza cristiana. Egli crea il campo della fede e lo pone a nostra disposizione, ma in modo da compiere egli stesso, come modello, l’atto di fede. Di fatto, quantunque Dio possa brillare ed essere riconosciuto in mille modi frammentariamente nel campo delle sue creature, in questo campo c’è soltanto un unico modo che gli accorda la possibilità di una manifestazione essenziale (quantunque sempre velata di mistero): il sì illimitato della creatura spirituale che si dichiara pronta ad andare fin dove Dio ritiene necessario, a lasciar libero col suo inchinarsi tanto spazio quanto Dio vuole esigere.‚Ä® Che ciò avvenga è, secondo l’istruzione di Cristo, la nostra preghiera quotidiana. Noi preghiamo: «Sia santificato il tuo nome», e per lo più non comprendiamo bene che cosa le parole significhino. Il tuo nome, cioè ciò con cui sei conosciuto in modo distintivo nel mondo, ciò che rivela in noi la tua singolare realtà di unico vero, onnipotente, vivente Iddio, quegli atti che tu solo puoi fare e mediante i quali ti sei fatto presso di noi un ‘nome’: questo deve ‘essere santificato’, deve imporsi ad essere riconosciuto come santo, come divino. La tua realtà divina prenda il potere in noi, prevalga in noi contro ogni nostra resistenza, si procuri la preponderanza su tutti i nostri onerosi contrappesi.

Noi preghiamo: «Venga il tuo regno». Regno di Dio è egli stesso in quanto viene riconosciuto come unico Signore, come egli è, e non come preferiamo raffigurarcelo. Quando le nostre concezioni dominano il campo, si tratta sempre del nostro regno. Egli con la sua forza e non noi con la nostra, che presumiamo di usare per mandato di Dio al fine di far prevalere a nostro modo la sua potenza. Nulla può oscurare maggiormente la potenza di Dio, impedire maggiormente la venuta del suo regno, che lo spingere avanti la nostra potenza per scopi del regno venturo di Dio.

Noi preghiamo: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo cosi in terra». Come in cielo presso di te, cosi in terra presso di noi. Come la tua volontà riempie il cielo, il ‘luogo’ dove tu sei, dove il tuo nome si santifica ed il tuo regno è venuto, cosi possa la tua volontà riempire anche la terra, che siamo noi e che noi amministriamo, dove il tuo nome è ancora appena noto ed il tuo regno è ancora appena sensibile. La nostra terra ha le sue proprie leggi, che tu hai posto in essa e hai affidato a noi perché le sviluppassimo.

Concedi quindi che in queste leggi, che sono terrene e non celesti, creaturali e non divine, la tua volontà celeste si appalesi e prenda corpo, e ciò mediante la nostra collaborazione che in ultima analisi non deve avvenire nello spirito e nel senso della terra, bensì del cielo.

Così preghiamo e, se non vogliamo ciarlare peggio dei pagani, in queste parole riconosceremo con spassionatezza creaturale la chiara distinzione tra cielo e terra e con cristiana speranza afferreremo la chiara promessa che la volontà di Dio, se le facciamo posto, può imporsi non soltanto presso Dio in cielo, ma anche presso di noi sulla terra.

Hans Urs Von Balthasar

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