26 gennaio 1854. A Torino fa un freddo polare. Ma nella cameretta di don Bosco c'è un tepore proprio come va. Don Bosco parla, e quattro giovanotti galoppano con la fantasia fiduciosa dietro le sue parole:
- Voi vedete che don Bosco fa quello che può, ma è da solo. Se voi mi darete una mano, invece, insieme faremo miracoli di bene. Migliaia di fanciulli poveri ci aspettano. Vi prometto che la Madonna ci manderà oratori vasti e spaziosi, chiese, case, scuole, laboratori, e tanti preti pronti a darci una mano. E questo in Italia, in Europa e anche in America. Io tra voi già vedo una mitria vescovile.
I quattro giovanotti si guardano in faccia sbalorditi. Sembra di sognare. Eppure don Bosco non scherza, è serio e sembra leggere nel futuro:
- La Madonna vuole che noi iniziamo una società. Ho pensato a lungo che nome darle. Ho deciso che ci chiameremo Salesiani.
Tra quei quattro giovanotti ci sono le pietre fondamentali della Congregazione Salesiana. Sul suo taccuino, quella sera, Michele Rua annota diligentemente: “Ci siamo radunati nella stanza di don Bosco, Rocchietti, Artiglia, Cagliero e Rua. Ci è stato proposto di fare, con l'aiuto del Signore e di san Francesco di Sales, una prova di esercizio pratico di carità verso il prossimo. In seguito faremo una promessa, e poi, se sarà possibile, faremo un voto al Signore. A coloro che fanno questa prova e che la faranno in seguito è stato dato il nome di Salesiani”.
Il pergolato e le rose.
Le “previsioni future” che don Bosco comunica ai suoi giovanotti quella sera, sono le stesse che alcuni anni prima lo hanno fatto credere pazzo e rischiare il manicomio.
Ma don Bosco le ripete con sicurezza testarda, perché (come ha detto a don Borei) “le vede in sogno”. Nel 1847 ha fatto un “sogno fondamentale”, che gli serve da programma - sono parole sue - nell'ordinare le cose da fare. Lo racconterà soltanto nel 1864, nella sua anticamera, ai primi Salesiani tra cui don Rua, don Cagliero, don Durando, don Barberis:
“Un giorno dell'anno 1847, avendo io molto meditato sul modo di far del bene alla gioventù, mi comparve la Regina del cielo (espressione molto rara in don Bosco. In genere dice: ho sognato una signora bellissima) e mi condusse in un giardino incantevole. Vi era un bellissimo porticato, con piante rampicanti cariche di foglie e di fiori. Questo portico metteva in un pergolato incantevole, fiancheggiato e coperto da meravigliosi rosai in piena fioritura. Anche il terreno era tutto coperto di rose. La Beata Vergine mi disse:
- Togliti le scarpe, e va avanti sotto quel pergolato: è quella la strada che devi percorrere.
Fui contento di avere deposto le scarpe: mi sarebbe rincresciuto calpestare quelle rose. Cominciai a camminare, ma subito sentii che quelle rose nascondevano spine acutissime. Fui costretto a fermarmi.
- Qui ci vogliono le scarpe -, dissi alla mia guida.
- Certamente - mi rispose -: ci vogliono buone scarpe.
Mi calzai e mi rimisi sulla via con un certo numero di compagni che erano comparsi in quel momento, chiedendo di camminare con me.
Molti rami scendevano dall'alto come festoni. Io non vedevo che rose ai lati, rose di sopra, rose innanzi ai miei passi. Ma le mie gambe si impigliavano nei rami stesi per terra e ne rimanevano ferite; rimuovevo un ramo trasversale e mi pungevo, sanguinavo nelle mani e in tutta la persona. Le rose nascondevano tutte una grandissima quantità di spine.
Tutti coloro che mi vedevano camminare dicevano: " Don Bosco cammina sempre sulle rose! Tutto gli va bene! ". Non vedevano che le spine laceravano le mie povere membra.
Molti chierici, preti e laici da me invitati si erano messi a se guirmi festanti, attirati dalla bellezza di quei fiori; ma si accorsero che si doveva camminare sulle spine, e incominciarono a gridare: " Siamo stati ingannati! ". Non pochi tornarono indietro. Rimasi praticamente solo. Allora cominciai a piangere: " Possibile, dicevo, che debba percorrere tutta questa strada da solo? “
Ma presto fui consolato. Vidi avanzarsi verso di me uno stuolo di preti, chierici, secolari, i quali mi dissero: " Siamo tutti suoi. Siamo pronti a seguirla ". Precedendoli mi rimisi in via. Solo alcuni si perdettero di coraggio e si arrestarono. Una gran parte di essi giunse con me alla meta.
Percorso tutto il pergolato, mi trovai in un bellissimo giardino. I miei pochi seguaci erano dimagriti, scarmigliati, sanguinanti. Allora si levò una brezza leggera, e a quel soffio tutti guarirono. Soffiò un altro vento, e come per incanto mi trovai circondato da un numero immenso di giovani e di chierici, di laici coadiutori e anche di preti, che si misero a lavorare con me guidando quella gioventù. Parecchi li conobbi di fisionomia, molti non li conoscevo ancora.
Allora la santa Vergine, che era stata la mia guida, mi interrogò:
- Sai cosa significa ciò che tu vedi ora, e ciò che hai visto prima?
- No.
- Sappi che la via da te percorsa tra le rose e le spine significa la cura che tu dovrai prenderti della gioventù. Dovrai camminare con le scarpe della mortificazione. Le spine significano gli ostacoli, i patimenti, i dispiaceri che vi toccheranno. Ma non vi perdete di coraggio. Con la carità e con la mortificazione, tutto supererete, e giungerete alle rose senza spine.
Appena la Madre di Dio ebbe finito di parlare, rinvenni e mi trovai nella mia stanza.
Vi ho raccontato questo - concluse - perché ognuno di noi abbia la sicurezza che è la Madonna che vuole la nostra Congregazione, e perché ci animiamo sempre più a lavorare per la maggior gloria di Dio”.
Guidato da questa sicurezza tranquilla, don Bosco ogni giorno “gettava le reti” tra i suoi ragazzi per allargare il numero dei suoi futuri Salesiani. Diceva come per caso: “Vuoi bene a don Bosco? Ti piacerebbe restare con me?”. Oppure: “Non mi daresti una mano a lavorare per i giovani? Vedi, se avessi cento preti e cento chierici, avrei del lavoro da dare a tutti. Potremmo andare in tutto il mondo”.
Questi discorsi erano familiari tra i ragazzi. Si parlava tranquillamente dei “futuri oratori”, dei sogni di don Bosco, dello “stare o non stare” con lui. Una sera del 1851, da una finestra del primo piano, don Bosco gettò tra i ragazzi una manciata di confetti. Si accese una grande allegria, e un ragazzo vedendolo sorridere alla finestra gli gridò: “Oh don Bosco, se potesse vedere tutte le parti del mondo, e in ciascuna di esse tanti oratori!”. Don Bosco fissò nell'aria il suo sguardo sereno, e rispose: “Chissà che non debba venire il giorno in cui i figli dell'oratorio non siano sparsi davvero per tutto il mondo”.
“Che stipendio mi darai?”
Ad Avigliana c'era un sacerdote di tre anni più anziano di don Bosco. Si chiamava don Vittorio Alasonatti. Don Bosco l'aveva incontrato molte volte agli Esercizi Spirituali di S. Ignazio. Erano diventati amici. Don Alasonatti faceva ad Avigliana il maestro elementare, e se la cavava bene con i ragazzini. Aveva un pizzico di severità, esigeva un certo contegno grave, ma gli volevano bene.
Don Bosco più volte l'aveva stuzzicato scherzando:
- Quanti ragazzi hai? Trenta? E non ti vergogni? Io ne ho seicento. Come fai a lavorare solo per trenta ragazzetti? Dai, vieni a Torino a darmi una mano.
- E che stipendio mi daresti?
- Pane, lavoro e Paradiso. Di lire non ne ammucchierai molte, ma di sonno ne potrai mettere da parte quanto ne vorrai.
Scherza e scherza, don Alasonatti cominciò a pensarci sul serio. Don Bosco lo capì, e nei primi mesi del 1854 gli scrisse una lettera in cui gli diceva soltanto: “Vieni ad aiutarmi a dire il breviario”.
Il 14 di agosto, sbrigate tutte le sue faccende, don Alasonatti arrivò all'oratorio con una valigetta in mano e il breviario sotto il braccio. Abbracciò don Bosco e gli disse:
- Eccomi qui. Dove devo mettermi a recitare il breviario? Don Bosco lo condusse nella stanza destinata a custodire i registri della contabilità.
- Ecco. Questo sarà il tuo regno. Hai insegnato tanta aritmetica, che con le somme e le sottrazioni te la caverai certamente.
Don Alasonatti si fece serio:
- D'ora in poi, tu comanda e io ti ubbidirò. E non risparmiarmi, perché il Paradiso voglio guadagnarmelo.
Da quel giorno don Alasonatti divenne l'ombra mite e un po' severa di don Bosco. Lo sollevò da tutti i lavori che potè: l'amministrazione generale della casa, l'assistenza, la tenuta dei libri di entrata e uscita, i registri, la corrispondenza più arida e spinosa.
Quand'era stanco, quando la salute cominciò a declinare, leggeva nel breviario un cartoncino che aveva messo a modo di segnacolo: “Vittorio, per che cosa sei venuto?”. Accanto aveva scritto una frase che don Bosco ripeteva spesso ai suoi quando li vedeva affaticati: “Ci riposeremo in Paradiso”.
Il giorno dopo il suo arrivo, don Alasonatti dovette cominciare la sua missione a Valdocco in una maniera piuttosto insolita: fu chiamato ad assistere un coleroso. A Torino era scoppiato violentissimo il colèra.
La morte per le strade di Borgo Dora.
La notizia paurosa giunse a Torino nel luglio. Il colèra aveva investito la Liguria, facendo tremila vittime a Genova. I primi casi in Torino si verificarono il 30 e il 31 luglio. Il re, la regina e la casa reale partirono in carrozze chiuse. Si rifugiarono nel castello di Caselette, all'imboccatura delle valli di Lanzo e di Susa.
L'epicentro della pestilenza fu Borgo Dora, a pochi passi da Valdocco. Lì, in case povere e in baracche, si ammassavano gli immigrati, la gente malnutrita e senza possibilità di igiene. In un mese i colpiti furono 800, 500 i morti.
Il sindaco Notta rivolse un appello alla città: occorreva gente coraggiosa che si recasse ad assistere i malati, a trasportarli nei lazzaretti, perché il contagio non si diffondesse a macchia d'olio.
Il 5 agosto, festa della Madonna della Neve, don Bosco parlò ai ragazzi. Cominciò con una promessa:
- Se voi vi mettete tutti in grazia di Dio e non commetterete alcun peccato mortale, io vi assicuro che nessuno sarà colpito dal colèra.
Poi rivolse un invito:
- Sapete che il sindaco ha lanciato un appello. Occorrono infermieri e assistenti per curare i colerosi. Molti di voi sono troppo piccoli. Ma se qualcuno dei più grandi si sente di venire con me negli ospedali e nelle case private, faremo insieme un'opera buona e gradita al Signore.
Quella sera stessa, quattordici si misero in lista. Pochi giorni dopo, altri trenta riuscirono a strappare il permesso di unirsi ai primi, anche se erano molto giovani.
Furono giorni di lavoro duro e per niente piacevole. I medici consigliavano di curare i colpiti con massaggi e frizioni alle gambe, per provocare un'abbondante sudorazione. I ragazzi erano divisi in tre gruppi: i più alti in servizio a tempo pieno nei lazzaretti e nelle case dei colpiti, un secondo gruppo girava per le strade a esplorare se vi fossero nuovi malati, un terzo (i più piccoli) rimanevano all'oratorio, pronti ad intervenire a ogni chiamata.
Don Bosco esigeva ogni precauzione. Ciascuno portava con sé una bottiglietta di aceto, e dopo aver toccato i malati doveva lavarsi le mani.
“Avveniva sovente - racconta don Lemoyne - che gli infermi mancavano di lenzuola, coperte, biancheria. I ragazzi venivano a dirlo a mamma Margherita. Essa andava alla guardaroba e dava quel poco che avevano. In pochi giorni non ci fu più niente. Un giovane infermiere le venne un giorno a raccontare che un malato si dimenava in un giaciglio misero senza lenzuolo. " Non avete niente da coprirlo? “ La donna ci pensò su, poi andò a togliere la tovaglia bianca dall'altare e la diede al ragazzo: "Portala al tuo malato. Non credo che il Signore si lamenterà".
I giganti dal volto triste.
Giovanni Cagliero, 16 anni, una sera sul finire di agosto, tornando a casa dal lazzaretto si sentì male. Probabilmente, nel caldo asfissiante di quei giorni, aveva mangiato della frutta guasta. Il medico, chiamato subito da don Bosco, fece una diagnosi molto brutta: “È tifo”.
La febbre lo tormentò per tutto il mese di settembre. Negli ultimi giorni, ridotto a pelle e ossa, Cagliero si sentiva mancare. Due medici, chiamati per un consulto, dichiararono che il caso era disperato. Consigliarono di amministrargli gli ultimi sacramenti.
Don Bosco rimase profondamente turbato. Voleva un bene dell’anima a quel ragazzo. Non ebbe la forza di dargli la tristissima notizia. Pregò Giuseppe Buzzetti di farlo lui, con estrema delicatezza. Intanto scese in chiesa a prendere il Viatico.
Giuseppe Buzzetti aveva appena parlato con Giovanni, quand' ecco rientrare don Bosco con la teca del Santissimo. Ma non venne avanti: si fermò per alcuni secondi fissando nel vuoto, come se vedesse qualcosa che gli altri non potevano vedere. Poi avanzò verso il letto del malato, ma qualcosa era profondamente cambiato in lui. La tristezza, il turbamento di poco prima erano scomparsi. Era allegro, sorrideva. Giovanni mormorò:
- È la mia ultima confessione? Devo proprio morire? Don Bosco rispose con voce sicura:
- Non è ancor tempo di andare in Paradiso. Vi sono ancora molte cose da fare: guarirai, vestirai l'abito chiericale... diventerai sacerdote... e poi... e poi con il tuo breviario sotto il braccio ne avrai a fare dei giri... e il breviario hai da farlo portare a tanti altri... e andrai lontano, lontano.
Dette queste parole, don Bosco riportò il Viatico in chiesa.
Pochi giorni dopo, la febbre calò di colpo, e Giovanni potè recarsi a Castelnuovo per una lunga convalescenza.
Per qualche tempo, Buzzetti e Cagliero si domandarono che cosa avesse “visto” don Bosco entrando nella stanza. La risposta la diede don Bosco stesso, più tardi:
“Mettevo il piede sulla soglia, quando all'improvviso vidi una gran luce. Una colomba bianchissima, che portava un ramo d'ulivo, scendeva sul letto dell'ammalato. Si arrestò a pochi centimetri dalla faccia pallida di Cagliero, e gli lasciò cadere sulla fronte il ramo. Subito dopo mi parve che le pareti della stanza si aprissero e sconfinassero in orizzonti lontani e misteriosi. Intorno al letto apparve una moltitudine di strane figure primitive. Sembravano selvaggi di statura gigantesca. Alcuni avevano la pelle scura, tatuata da misteriosi fregi rossastri. Due di quei giganti dal volto fiero e triste si curvarono sopra l'infermo, e trepidanti si misero a bisbigliare:
- Se lui muore, chi verrà in nostro soccorso?
La visione durò pochi istanti, ma io provai la certezza assoluta che Cagliero sarebbe guarito”.
Otto minuti per una pagina.
Con le prime piogge d'autunno, i colpiti dal colèra diminuirono sensibilmente. Anche se qualche caso si verificò ancora alle soglie dell'inverno, il 21 novembre si dichiarò finita l'“emergenza”. Dal 1° agosto al 21 novembre i casi registrati in città furono 2.500, con 1.400 morti.
I ragazzi di don Bosco, di cui nessuno era stato colpito, poterono tornare tranquilli allo studio. Parecchi si recarono in famiglia per una breve vacanza.
Don Bosco, come tutti gli anni, salì ai Becchi per la festa della Madonna del Rosario. Mentre si trovava lassù, ricevette la visita di un suo antico compagno di seminario, don Cugliero, insegnante elementare a Mondonio:
- Senti - gli disse dopo i convenevoli -, mi hanno detto che insieme ai piccoli barabba, nel tuo oratorio accetti anche ragazzi in gamba che diano speranza di diventare sacerdoti. A Mondonio ho un ragazzo che fa per te. Si chiama Domenico Savio. Non ha molta salute, ma quanto a bontà sono pronto a scommettere che non hai mai conosciuto un ragazzo così. Un vero san Luigi.
- Esagerato! - sorrise don Bosco -. Ad ogni modo per me va bene. Io rimango qui alcuni giorni. Fammelo incontrare insieme con suo padre. Parleremo e vedremo un po' di che stoffa è.
2 ottobre 1854. Nel cortiletto davanti alla casa di Giuseppe avvenne l'incontro. Don Bosco ne fu così impressionato che lo narrò nei minimi particolari, come se l'avesse registrato. La lingua è quella del 1800, ma la scena è vivace, sembra di vederla:
“Era il primo lunedì d'ottobre di buon mattino, allorché vedo un fanciullo accompagnato da suo padre che si avvicina per parlarmi. Il volto suo ilare, l'aria ridente ma rispettosa, trassero verso di lui i miei sguardi.
- Chi sei - gli dissi -, donde vieni?
- Io sono - rispose - Savio Domenico, di cui le ha parlato don Cugliero, e veniamo da Mondonio.
Allora lo chiamai da parte, e messici a ragionare dello studio fatto, del tenor di vita fino allora praticato, siamo tosto entrati in piena confidenza, egli con me, io con lui.
Conobbi in quel giovane un animo tutto secondo lo spirito del Signore, e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la grazia divina aveva operato in così tenera età.
Dopo un ragionamento alquanto prolungato, prima che io chiamassi il padre, mi disse queste precise parole:
- Ebbene, che glie ne pare? Mi condurrà a Torino per studiare?
- Eh, mi pare che ci sia buona stoffa.
- E a che può servire questa stoffa?
- A fare un bell'abito da regalare al Signore.
- Dunque io sono la stoffa, ella ne sia il sarto; dunque mi prenda con lei e farà un bell'abito per il Signore.
- Ma quando tu abbia terminato lo studio del latino, che cosa vuoi fare?
- Se il Signore mi concederà tanta grazia, desidero ardentemente di diventare sacerdote.
- Bene: ora voglio provare se hai bastante capacità per lo studio. Prendi questo libretto (era un fascicolo delle Letture Cattoliche), quest'oggi studia questa pagina, domani tornerai a recitarmela.
Ciò detto lo lasciai in libertà di andarsi a trastullare, indi mi posi a parlare con il padre. Passarono non più di otto minuti, quando ridendo si avanza Domenico e mi dice:
- Se vuole recito adesso la pagina.
Presi il libro, e con mia sorpresa conobbi che non solo aveva letteralmente studiato la pagina assegnata, ma che comprendeva benissimo il senso delle cose in essa contenute.
- Bravo, gli dissi, tu hai anticipato lo studio della lezione e io anticipo la risposta. Sì, ti condurrò a Torino, e fin d'ora sei annoverato tra i miei cari figlioli; comincia anche tu fin d'ora a pregare Iddio, affinché aiuti me e te a fare la sua santa volontà.
Non sapendo egli come esprimere meglio la sua contentezza e la sua gratitudine, mi prese la mano, la strinse, la baciò più volte, e infine mi disse:
- Spero di regolarmi in modo che non abbia mai a lamentarsi della mia condotta”.
Ripensando alle parole di don Cugliero, don Bosco dovette concludere che non aveva esagerato. Se san Luigi fosse nato tra le colline del Monferrato e fosse stato figlio di contadini, non avrebbe potuto essere diverso da quel ragazzo sorridente, che voleva diventare “un bell'abito da regalare al Signore”.
Un cartello misterioso.
Durante quei giorni, mentre era in convalescenza a Castelnuovo, Giovanni Cagliero commise un'imprudenza: mangiò abbondantemente dell'uva (era il tempo della vendemmia), e la febbre gli tornò violenta. Don Bosco lo seppe e andò a trovarlo.
Incontrò la madre disperata:
- Il mio Giovanni è bell'andato! Vaneggia, parla di vestire l'abito da prete mentre la febbre sta portandoselo via.
- No, mia buona Teresa, vostro figlio non vaneggia. Preparategli pure la veste da chierico, che in novembre all'oratorio gliela farò indossare. La febbre non ve lo porterà via: ha da fare ancora tante cose in questo mondo.
Fu realmente così. Il 22 novembre, festa di santa Cecilia, Giovanni Cagliero perfettamente ristabilito indossava l'abito dei chierici. Il Rettore del seminario metropolitano, canonico Vogliotti, concedeva al chierico Cagliero di frequentare le scuole del seminario continuando ad abitare presso don Bosco.
Il 29 ottobre, intanto, all'oratorio era entrato Domenico Savio. Era salito con il papà nell'ufficio di don Bosco, e aveva subito notato un grosso cartello alla parete con delle parole misteriose: Da mihi animas, coetera tolle.
Quando suo padre ripartì, superata la prima esitazione, domandò a don Bosco che cosa significassero quelle parole appese al muro. Don Bosco l'aiutò a tradurre: “O Signore, dammi le anime e prenditi tutto il resto”. Era il motto che don Bosco si era scelto per il suo apostolato. Quand'ebbe compreso, Domenico - è don Bosco che lo racconta - si fece per un istante pensieroso, poi disse: “Ho capito: qui non c'è commercio di denaro, ma di anime. Spero che l'anima mia farà parte di questo commercio”.
Cominciò così per Domenico la vita di tutti i giorni. Indossò forse anche lui un cappotto militare, e ogni mattina si recò con la squadretta guidata da Rua alla scuola del Bonzanino. La sua giornata era quella un po' grigia di un piccolo studente: compiti, lezioni, scuola, libri, compagni. Don Bosco, che lo seguiva giorno per giorno, scrisse di lui: “Dal giorno della sua entrata egli ebbe nell'adempimento dei suoi doveri un'esattezza che difficilmente si può superare”.
Palloncini colorati sulle rive del Po.
Alla fine di novembre, l'oratorio entrò in un “clima” speciale. Iniziava la novena dell'Immacolata, ed era l'anno 1854. Pio IX, da Roma, aveva annunciato che il giorno 8 dicembre avrebbe solennemente definito il dogma della Immacolata Concezione di Maria. In tutto il mondo cattolico l'amore alla Madonna si ridestava, si preparavano grandiosi festeggiamenti.
Don Bosco, che si sentiva “guidato per mano” da Maria SS., ne parlava tutte le sere ai suoi giovani, e la novena era vissuta con grande fervore. Conversando in cortile o nel suo ufficio, domandava ai ragazzi che cosa volevano “regalare alla Madonna” per la sua festa. Domenico Savio gli aveva risposto: “Voglio fare una guerra spietata al peccato mortale, e voglio pregare tanto il Signore e la Madonna di farmi piuttosto morire che lasciarmi cadere in peccato”.
Era la ripetizione di un proposito fatto alla prima Comunione: “La morte ma non peccati”. Non era una frase originale inventati da lui, ma le ultime parole dell'Atto di contrizione che a quei tempi si recitava dopo la confessione. Molti ragazzini le fissavano come impegno del loro primo incontro con Gesù-Eucaristia. Fa una certi curiosità trovarle persino tra i “propositi” suggeriti dalla regini al principe ereditario Umberto di Savoia (poi re Umberto I), quasi coetaneo di Domenico Savio (nato nel 1842, Umberto nel 1844). Ciò che provoca un'intensa commozione è che migliaia di altri dimenticarono quell'impegno tra i giocattoli dell'infanzia, Domenico invece vi fu eroicamente fedele fino alla morte.
8 dicembre. Pio IX, davanti a una folla imponente di Cardinali e Vescovi, proclama come dogma di fede che Maria, fin dal primo istante della sua esistenza, non è mai stata macchiata dal “peccato originale”.
Domenico Savio, in una pausa della giornata festosa dell'oratorio, entra nella chiesa di S. Francesco, s'inginocchia davanti all'altare della Madonna, tira fuori di tasca un foglietto su cui ha scritto alcune righe. È la sua consacrazione alla Madre di Dio, una breve preghiera che diventerà famosa in tutto il mondo salesiano:
“Maria, vi dono il mio cuore. Fate che sia sempre vostro. Gestì e Maria, siate voi sempre gli amici miei. Ma per pietà, fatemi morire piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere anche un solo peccato”.
Quella sera, tutta Torino risplendette in una fantastica illuminazione. Migliaia di palloncini colorati brillavano alle finestre, sui terrazzi, sulle rive del Po. La gente scese per le strade, e una grandiosa processione s'incamminò verso il santuario della Madonna “Consolata”. Anche i giovani di Valdocco, attorno a don Bosco, passarono cantando per le strade della città.
Il piccolo orfano di S. Domenico.
Quel 1854, un anno intenso per la vita di don Bosco, si chiuse con un particolare mesto. Presso la chiesa di S. Domenico il municipio aveva dovuto aprire d'urgenza un orfanotrofio provvisorio, per ospitarvi un centinaio di ragazzetti a cui il colera aveva portato via papà e mamma. All'arrivo dei primi freddi, il sindaco Notta si rivolse agli istituti cattolici perché ne prelevassero alcuni. Don Bosco ne accettò venti. Uno di quei piccoli si chiamava Pietro Enria, e ricordava così quei momenti:
“Un giorno arrivò don Bosco. Io non l'avevo mai visto. Mi domandò nome e cognome e poi mi disse:
- Vuoi venire con me? Saremo sempre buoni amici -. Risposi: - Sì, signore.
- E questo che hai vicino è tuo fratello?
- Sì, signore.
- Digli che venga anche lui.
Pochi giorni dopo fummo condotti all'oratorio con parecchi altri. Mia madre era morta di colèra, mio padre era in quel momento ammalato della stessa malattia. Ricordo che la madre di don Bosco lo sgridò:
- Tu accetti sempre nuovi fanciulli, ma come si fa a mantenerli e vestirli?
Infatti a me, appena entrato, toccò dormire per parecchie notti sopra un mucchio di foglie, con addosso null'altro che una piccola coperta. Don Bosco e sua madre ci aggiustavano alla sera i pantaloni e la giubba lacera, perché ne avevamo una sola”.
Per gli orfani, don Bosco allestì un reparto distinto nel nuovo edificio. Per più di un anno fece loro scuola, prima da solo poi con l'aiuto dei chierici e di amici. Gli altri dell'oratorio li chiamavano “la classa bassignana”, perché gli orfani erano piccoletti.
Pietro Enria rimase con don Bosco tutta la vita. Fu lui ad assisterlo come un figlio nell'ultima malattia, e a chiudergli gli occhi.
Il colèra, tra i tanti mali seminati in città, aveva portato all'oratorio un bene, almeno di riflesso: l'assistenza prestata generosamente dai giovani ai colerosi lo fece conoscere e stimare dai cittadini. Una pubblica lode del sindaco lo accreditò presso le autorità. Il fatto quasi incredibile poi che nessuno di quei ragazzi (quasi immersi nel contagio) fu colpito dalla pestilenza, persuase molti a considerare con più serietà le parole “pazze” di don Bosco.
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