Negli anni che seguono il 1850, don Bosco è impegnatissimo a far nascere la sua “Congregazione Salesiana”. Ma sarebbe un errore veramente grave pensare che i pensieri, i viaggi, gli incontri per fondare la Società lo staccassero dai ragazzi. Don Bosco non fu mai “capo di una azienda”, ma “padre di una famiglia”. E nella sua famiglia, la presenza dei ragazzi la considerava essenziale.
Appena tornava da viaggi, incontri, affari, si rimetteva nel confessionale dei ragazzi. Ai giovani pensava sempre, nelle anticamere di Roma e sotto la tettoia di una stazione mentre aspettava un treno.
Sotto la tettoia della stazione di Carmagnola, in una nebbiosa sera dell'autunno 1857, aspettava appunto il treno per Torino. Qualsiasi altro viaggiatore, in quel freddo umido, avrebbe cercato un po' di riparo nella sala d'aspetto. Don Bosco, invece, aveva sentito dei ragazzi che giocavano, e fissando gli occhi nella nebbia li cercava.
“Tra quelle grida - scrisse - si sentiva distinta una voce che dominava tutte le altre. Era come la voce di un capitano, che era da tutti seguita come un comando. Nacque in me vivo desiderio di conoscere colui che sapeva dirigere un così notevole schiamazzo”.
Si avvicina. Appena la veste nera sbuca dalla nebbia, i monelli se la danno a gambe. “Uno solo si arresta, si fa avanti, e appoggiando le mani sui fianchi, con aria imperiosa comincia a parlarmi così: " Chi siete? Che cosa volete da noi?.
Perdere il treno o perdere un ragazzo.
Don Bosco fissa quel ragazzo dai capelli scompigliati, e in fondo agli occhi colmi di fierezza vede una vita prorompente, che purtroppo sta andando alla deriva. Con un dialogo di pochi minuti vince la diffidenza, e sa di lui il nome, “Michele Magone”, la situazione, “tredici anni, senza padre”, la prospettiva per il futuro, “ho imparato il mestiere del fannullone”.
Il treno fischia, c'è pericolo di perderlo. Ma perdere quel ragazzo sarebbe una disgrazia molto più grossa. Gli mette nelle mani una medaglia della Madonna e gli dice svelto:
- Vai da don Ariccio, tuo viceparroco. Digli che il prete che ti ha dato questa medaglia desidera informazioni su di te.
Pochi giorni dopo, don Bosco ricevette una lettera dal viceparroco di Carmagnola. Diceva: “Il giovane Magone Michele è un povero ragazzo orfano di padre; la madre, dovendo pensare a dar pane alla famiglia, non può assisterlo; la sua volubilità e sbadataggine l'hanno fatto cacciare più volte dalla scuola; tuttavia egli ha fatto abbastanza bene la terza elementare.
In quanto alla moralità, io lo credo buono di cuore, e di semplici costumi; ma difficile a domarsi. Nelle classi di scuola e di catechismo è il disturbatore universale; quando non interviene, tutto è pace; e quando se ne parte, fa un beneficio a tutti.
L'età, la povertà, l'indole, l'ingegno lo rendono degno di ogni caritatevole riguardo”.
Don Bosco rispose che, se il ragazzo e sua mamma accettavano, era disposto a ospitarlo nel suo oratorio.
Don Ariccio chiamò Michele, gli parlò di quel prete che a Torino aveva una casa grande con centinaia di ragazzi che correvano, si divertivano e studiavano o imparavano un mestiere. E concluse: “È disposto ad accettare anche te nella sua casa. Ci vuoi andare?”. Si sentì rispondere: “Miseria che ci vado!”.
La mamma lo accompagnò al treno, con un fagottino di biancheria e il cuore stretto di commozione. E Michele Magone approdò a Valdocco. Don Bosco ricordava così il primo dialogo:
“- Eccomi - disse correndomi incontro -. Io sono quel Magone Michele che avete incontrato alla stazione della ferrovia a Carmagnola.
- So tutto, mio caro; sei venuto di buona volontà?
- Sì, sì, la buona volontà non mi manca.
- Allora ti raccomando di non mettermi sottosopra tutta la casa.
- Oh state tranquillo che non vi darò dispiacere. Per il passato mi sono regolato male; per l'avvenire non voglio che sia così. Due miei compagni sono già in prigione, e io...
- Sta' di buon animo. Dimmi soltanto se preferisci studiare o imparare un mestiere.
- Sono disposto a fare come volete. Se però mi lasciate la scelta, preferirei studiare.
- E terminate le classi, che cosa vuoi diventare?
- Se un birbante - disse, e poi chinò il capo ridendo.
- Continua: se un birbante.
- Se un birbante potesse diventare abbastanza buono per ancora farsi prete, io mi farei volentieri prete.
- Allora vedremo che saprà fare un birbante. Ti metterò allo studio”.
Da quel momento cantare, gridare, correre, saltare, far chiasso divenne la sua vita. Non divenne certo un santino. La “Compagnia dell'Immacolata” gli mise al fianco un giovanotto che lo aiutasse e lo correggesse con bontà. Ne ebbe del lavoro. Parole sboccate, discorsi volgari, mezze bestemmie. Ma ogni volta che il compagno lo correggeva, Michele, pur vivacissimo, ringraziava e si riprendeva.
C'era una cosa cordialmente antipatica a Michele: la campana che segnava il termine della ricreazione e chiamava allo studio e alla scuola. Con i libri sotto il braccio, sembrava un piccolo condannato ai lavori forzati.
La tristezza di un ragazzo.
Molto più simpatico gli era il segnale che indicava il termine della scuola. Scrisse don Bosco, che lo seguiva con affettuosa attenzione: “Sembrava che uscisse dalla bocca di un cannone: volava in tutti gli angoli, metteva tutto in movimento”. Nel gioco era capitano di una squadra. Dal suo arrivo, divenne quasi invincibile.
Passò così un mese.
Un giorno, Michele cominciò a intristire. Da un angolo solitario guardava i compagni giocare, sfuggiva la compagnia degli amici chiassosi, e a volte, non visto, piangeva. Sembrava che un velo di malinconia fosse calato sulla sua faccia. Cediamo la parola a don Bosco.
“Io tenevo dietro a quanto accadeva in lui, perciò un giorno lo mandai a chiamare e gli parlai così:
- Caro Magone, io avrei bisogno che mi facessi un piacere; ma non vorrei un rifiuto. - Dite pure - rispose arditamente -, sono disposto a fare qualunque cosa per voi.
- Avrei bisogno che mi lasciassi un momento padrone del tuo cuore, e mi manifestassi perché da alcuni giorni sei così malinconico.
- Sì, è vero. Ma io sono disperato e non so come fare.
E scoppiò a piangere. Lo lasciai sfogare; quindi, a modo di scherzo, gli dissi:
- E tu saresti quel generale Michele Magone capo di tutta la banda di Carmagnola? Che generale sei? Non sei capace di dire ciò che ti rende triste?
- Vorrei farlo, ma non so esprimermi.
- Dimmi una sola parola.
- Ho la coscienza imbrogliata.
- Questo mi basta. Ho capito tutto. Tu puoi mettere a posto tutto con la massima facilità. Di' solo al confessore che hai qualcosa da rivedere nella tua vita passata, poi egli prenderà il filo delle tue cose, in maniera che a te non rimarrà altro che dire qualche sì e qualche no”.
C'erano alcuni sacerdoti che venivano a confessare all'oratorio, ma quasi tutti i ragazzi si confessavano da don Bosco. Quella sera stessa, Michele andò a bussare al suo ufficio:
- Don Bosco, forse disturbo. Ma il Signore mi ha aspettato molto, e non voglio farlo aspettare ancora fino a domani.
Con l'aiuto di don Bosco, Magone depose ai piedi del Crocifisso le sue piccole miserie, che a lui sembravano enormi, e gli domandò perdono. Don Bosco, testimone di quella giovane risurrezione, annotò: “Michele aveva perso l'allegria quando aveva cominciato a capire che la vera contentezza non nasce dal far salti, ma dall'amicizia del Signore e dalla pace della coscienza. Vedeva i suoi compagni accostarsi alla Comunione e diventare sempre più buoni, e lui, che non si sentiva la coscienza tranquilla, era preso da grande inquietudine. Alla fine della confessione disse commosso: " Come sono felice! "“.
Il giorno dopo, nel cortile dell'oratorio, Michele tornò alla testa della sua squadra, e la guidò a una memorabile vittoria. Era tornato il re dell'allegria.
I pugni in piazza Castello.
Don Bosco, narrando la vicenda di Michele Magone, ci ha svelato la trama secondo la quale si svolsero centinaia e centinaia di suoi incontri con ragazzi “in cui il male aveva cominciato a lavorare”. Egli sapeva con mezzi semplicissimi riconciliarli con Dio e lanciarli sulla via della santità.
“Ora - continua don Bosco - la campana che chiamava alla chiesa non era più antipatica a Michele: lo chiamava a incontrare Gesù, diventato suo amico”.
Con l'aiuto di don Bosco tracciò un “piano di battaglia” per conservare e sviluppare questa amicizia: impegno per conservare una purezza perfetta nella sua vita; impegno a fondo per diffondere bontà e allegria tra i suoi compagni.
Sul taccuino personale, Magone scrisse sette propositi che chiamò i “sette carabinieri” per difendere la sua amicizia con il Signore. Eccoli:
Incontrare sovente Gesù nella Comunione e nella Confessione.
Amare teneramente la Vergine Santissima.
Pregare molto.
Invocare frequentemente Gesù e la Madonna.
Non troppa delicatezza per il mio corpo.
Avere sempre qualcosa da fare.
Girare al largo dai compagni cattivi.
(È facile vedere in questi sette punti la traccia che don Bosco suggeriva a molti ragazzi per conservarsi buoni).
Sul fronte della bontà e dell'allegria, Michele condusse la battaglia con il suo stile impetuoso e scanzonato, molto diverso da quello di Domenico Savio. In un gruppetto appartato sotto il portico, un ragazzotto raccontava barzellette poco pulite. Attorno, qualcuno sghignazzava, qualche altro avrebbe voluto andarsene, ma non ne aveva il coraggio. Michele capì tutto, si avvicinò alle spalle del ragazzotto, si ficcò in bocca quattro dita alla maniera dei pecorai e gli lasciò partire negli orecchi un fischio potentissimo. Quello fece un salto di spavento e si girò rabbioso:
- Ma sei matto?
- Matto io o matto tu a raccontare queste porcherie?
Un giorno don Bosco l'aveva portato con sé a fare alcune commissioni. Passavano in piazza Castello. Un paio di ragazzi stavano giocando a soldi, e uno di loro scoppiò a bestemmiare coprendo di insulti il nome del Signore. Michele filò dritto su di lui e gli mollò due schiaffi. Il giovane bestemmiatore non se l'aspettava, incassò un po' stordito, ma subito partì al contrattacco. Cominciarono a pestarsi di santa ragione tra la gente che si fermava a guardare. Don Bosco dovette gettarsi tra i due e separarli. Michele sibilò: - Ringrazia questo prete, altrimenti ti conciavo per le feste.
Don Bosco dovette persuaderlo che non era il caso di prendere a pugni tutti quelli che bestemmiavano.
Michele non era però capace soltanto di menare le mani. Diventava di giorno in giorno servizievole, generoso. Aiutava i più piccoli a riordinare il letto, a pulirsi le scarpe, ripassava le lezioni scolastiche con i meno intelligenti.
La mano sulla testa di Michele.
Don Bosco fu così contento della sua condotta, che nell'autunno lo portò con i ragazzi migliori a passare alcune giornate di vacanza ai Becchi.
Nell'ottobre 1858, Michele cominciò il secondo anno scolastico a Valdocco.
31 dicembre. Dando la “buona notte”, don Bosco raccomandò a tutti di cominciare e continuare bene l'anno nuovo, nella grazia di Dio, perché forse “per qualcuno di voi - disse - sarà l'ultimo anno di vita”. La mano di don Bosco, mentre diceva queste parole, era posata sulla testa di Michele. Ed egli pensò: “Che sia per me quest'avviso?”. Non si spaventò. Disse solo tra sé: “Mi terrò preparato”.
Tre giorni dopo accusò dolori al ventre: era un male che aveva avuto anche negli anni precedenti, e che ogni tanto tornava. Forse un'appendicite cronica. Si recò nell'infermeria, e la cosa non sembrò preoccupante. Don Bosco, vedendolo dalla finestra, gli domandò che cosa avesse. Si sentì rispondere: “Niente. I soliti dolori”.
Ma la sera del 19 gennaio il male si aggravò improvvisamente. Fu chiamata d'urgenza la mamma. Il medico, accorso, udendo il respiro pesante, faticoso, allargò le braccia nella sconsolata impotenza della medicina di quegli anni. Disse solo: “Andiamo male”. (Le prime operazioni di appendicite sarebbero state tentate soltanto alla fine del secolo).
Il 21 gennaio, Michele era in fin di vita. Gli amici, costernati, pregavano per lui. Gli fu portato il Viatico.
Si avvicinava la mezzanotte. La mamma aveva dovuto tornare al paese per badare ai figli più piccoli, ma don Bosco era lì, accanto al letto di Michele.
- Ci siamo - disse all'improvviso -. Mi aiuti, don Bosco. Dica a mia mamma che mi perdoni tutti i dispiaceri. Le dica che le voglio bene, che si faccia coraggio. Io l'aspetto in Paradiso.
Era ormai la mezzanotte. Michele ebbe un istante di assopimento. Poi, come se si svegliasse da un profondo sonno, con il volto sereno disse a don Bosco:
- Dica ai miei compagni che in Paradiso li aspetto. Gesù, Giuseppe, Maria. Il suo volto rimase immobile, nella serenità della morte.
La “grande politica”.
Il 1859 all'oratorio è cominciato con questa piccola ma dolorosissima tragedia. Si chiuderà (come abbiamo raccontato nel cap. 35) con la fondazione ufficiale della Società Salesiana.
All'Italia il 1859 sta portando avvenimenti e sconvolgimenti.
La vicenda italiana ed europea, negli anni dopo il 1848, ha continuato a camminare prima silenziosamente, poi con clamori sempre più grandi.
Nel dicembre 1852 Luigi Napoleone, nipote di Bonaparte, con un colpo di stato si è proclamato Imperatore della Francia, con il nome di Napoleone III. Si è presentato all'Europa come continuatore della gloria napoleonica: pronto ad appoggiare le nazioni che reclamano l'indipendenza dall'Impero Austriaco.
Nell'ottobre 1852, a Parigi, è morto Gioberti. Nel 1853, a Torino, sono pure scomparsi Silvio Pellico e Cesare Balbo. Con loro terminava un'epoca: il Risorgimento romantico e neoguelfo. La nuova fase risorgimentale è dominata da Cavour, astuto e cinicamente concreto. Nel 1855 ha mandato un corpo di spedizione piemontese alla Guerra di Crimea, a fianco delle truppe francesi e inglesi che fanno guerra alla Russia. Contro il “progetto pazzo” hanno tuonato in Parlamento Solaro della Margarita e Brofferio, cioè la destra e la sinistra. Da Londra ha imprecato Mazzini. Come mandare a morire soldati in una guerra lontana mentre in Piemonte c'è miseria (il pane costa 80 centesimi il chilo e la paga di un operaio è di tre, quattro lire al giorno) e le aspirazioni italiane sono ancora da realizzare?
Cavour, però, vede lungo. Nella primavera del 1856, alla conferenza di pace in Parigi, può sedersi tra i “grandi d'Europa”. I morti di Crimea gli sono serviti come biglietto d'entrata, e gli permettono di “riaprire la discussione sul problema dell'Italia”.
Il 14 gennaio 1858 il mazziniano Orsini, a Parigi, fa scoppiare alcune bombe mentre Napoleone III si reca all'Opera. Un centinaio di persone sono ferite, Napoleone illeso. Orsini viene giustiziato il 13 marzo, ma dalla prigione ha scritto due lettere a Napoleone: condanna il proprio “fatale errore mentale” e lo invita a liberare l'Italia.
Cavour approfitta del momento. Richiama l'attenzione dell'imperatore francese sulla pericolosa inquietudine della penisola italiana. O si risolve, o può scoppiare una rivoluzione estremista (gli “Orsini” sono tanti).
Nel luglio 1858 il convegno segreto (segreto di Pulcinella) di Plombières. Napoleone III e Cavour si accordano su una guerra all'Austria e sul futuro assetto dell'Italia: al nord un regno Piemonte-Lombardia-Veneto sotto i Savoia; al centro un regno da assegnare a un principe francese; al sud un terzo regno per un discendente del generale napoleonico Gioacchino Murat. Lo Stato pontificio, ridotto al Lazio, rimarrà al Papa, che diventerà presidente della Confederazione dei tre regni. La Francia sarà ricompensata dalla cessione di Nizza e Savoia.
“Se sarà necessario, barricate a Torino”.
10 gennaio 1859. Re Vittorio Emanuele tiene alle Camere il famoso discorso del “grido di dolore”: “Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi”. La frase è stata concordata con Napoleone III, ed è una sfida di guerra all'Austria.
23 aprile. Di fronte all'ammassarsi di volontari in Piemonte, l'Austria invia un ultimatum. Viene respinto il giorno 26. È l'inizio della guerra. L'esercito piemontese di 60.000 uomini raggiunge la frontiera. Dalla Francia, il 30 aprile, arriva la divisione Bataille, l'avanguardia di un esercito di 150.000 uomini capeggiati dall'imperatore in persona.
All'arrivo dei francesi, Torino va in delirio. “Li ho visti sfilare in piazza Castello - scrive Costanza D'Azeglio - fra le acclamazioni della moltitudine. Ero ai balconi del ministero con Farina e Ricasoli. Il conte di Cavour, riconosciuto dalla folla, è stato entusiasticamente salutato. Non riconosco più la tranquillissima e monotona Torino. Lumi alle finestre, canti, grida, applausi”.
Gli austriaci, 160.000 uomini, tentano di battere i piemontesi prima dell'arrivo delle truppe di Napoleone. A marce forzate raggiungono Novara, Vercelli, Trino, minacciano Ivrea, giungono con le avanguardie a Chivasso (25 km da Torino). L'inondazione della pianura bassa li ha intralciati ma non fermati. Torino è presa dal panico. Il generale de Sonnaz è incaricato di formare una linea di difesa sulla Dora Baltea. Cavour telegrafa al re: se sarà necessario si combatterà sulla Stura, si faranno barricate nelle vie di Torino.
Ma Napoleone arriva. Trasporta rapidamente le truppe in ferrovia. La prima grande battaglia tra Francesi e Austriaci si combatte a Magenta (4 giugno). Dopo una giornata incerta, la vittoria è dei Francesi.
Quattro giorni dopo a Torino arriva la grande notizia: “8 giugno, l'imperatore e il re sono entrati in Milano”.
Poi un'altra notizia: l'imperatore austriaco Francesco Giuseppe ha lasciato Vienna per assumere personalmente il comando dell’esercito. Si prepara una battaglia terribile.
Pietro Enria, che in quei mesi compiva 18 anni, ricordava: “Nel 1859, come già era accaduto negli anni 1848-49, nei giovani popolani di Torino erasi acceso un vivo fermento di guerra. A centinaia si riversavano nei campi che si stendevano fuori della città, si dividevano in due schiere e giocavano alla guerra. Le battaglie dovevano essere finte, ma gli animi finivano per riscaldarsi, e si scatenavano vere tempeste di pietre. Si può dire che questo capitava tutti i giorni festivi.
Ricordo che una domenica don Bosco entrò nella chiesa per fare la predichina agli oratoriani, e con sorpresa trovò solo gli alunni interni. " Dove sono gli altri? " domandò. Nessuno lo sapeva. Allora uscì e si inoltrò nei prati: trovò i ragazzi dell'oratorio che si picchiavano accanitamente. Erano più di trecento, e i sassi che fischiavano nell'aria erano grossi. Don Bosco entrò nella mischia. Io lo guardavo da lontano. Avevo paura che qualche pietra lo colpisse. Invece fece una cinquantina di passi fin nel centro della battaglia. Quando tutti lo videro, si arrestarono. " Adesso che avete fatto la guerra - disse sorridendo - andiamo a fare il catechismo ". Nessuno cercò di fuggire. Tutti entrarono con lui in chiesa”.
Alle dieci l'inferno.
La battaglia terribile tra Austriaci e Franco-Piemontesi si scatena il 24 giugno, a sud del lago di Garda. All'alba, la prima divisione piemontese guidata dal generale Durando ha attaccato gli Austriaci alla “Madonna della Scoperta”, e la terza e la quinta, al comando di Molland e di Cucchiari, hanno lanciato i primi vigorosi attacchi contro l'altura di San Martino irta di baionette austriache. Napoleone III, ai piedi delle alture di Solferino, sta per mandare le divisioni contro il centro dell'esercito austriaco, deciso a sfondare a qualunque costo.
Verso le dieci si scatena l'inferno: il boato dei cannoni, il crepitio della fucileria, l'urlo immane di decine di migliaia di combattenti. Le mischie sono terribili: le urla dei feriti si mescolano a quelle dei reggimenti che rinnovano l'assalto, allo scalpitare delle torme di cavalleria che caricano con le sciabole balenanti, ai tonfi sordi e ai lampi accecanti delle granate che scoppiano sulle linee dei combattenti. I contrassalti delle giubbe bianche austriache sono terribili. È una selva di baionette che viene avanti con la forza della disperazione. Le masse dei fucilieri francesi che indietreggiano, sono ricacciate nella mischia dalle sciabole della cavalleria. I soldati vanno all'assalto per la decima, la quindicesima volta. Molti, stringendo il pesante fucile e correndo, piangono. Altri urlano per darsi coraggio.
Subito dopo mezzogiorno, l'attacco francese si trasforma in una serie di selvaggi corpo a corpo, per il possesso del cimitero, del colle dei cipressi e della torre di Solferino. Gli zuavi, le truppe africane di Napoleone III, sono come ubriachi: si avventano sugli Austriaci e ne fanno strage.
Alle 15 la bandiera francese sventola sulla rocca di Solferino. Ma sull'ala sinistra i Piemontesi non riescono ad avanzare. Si decide un attacco in massa per le 17. Mentre si va all'assalto, il cielo s'è riempito di nubi basse color piombo. I primi lampi solcano l'aria. Mentre le brigate piemontesi attaccano alla disperata le file del feldmaresciallo Benedek, la pioggia e la grandine inondano il campo di battaglia. Finisce il temporale, tra le nuvole squarciate dal vento ci sono le prime stelle, e intorno alla vetta di San Martino si torna all'assalto. Alle 21 Vittorio Emanuele getta nella mischia i cavalleggeri del Monferrato. È il terribile urto finale. Gli Austriaci sono sopraffatti dopo quattordici ore di combattimento.
Ora sui campi di Solferino e San Martino giacciono riversi 30.000 uomini. Le grida dei feriti e dei morenti risuonano tutte insieme, come un coro pauroso. Henri Dunant, il giovane signore svizzero che fonderà la Croce Rossa, si aggira con una lanterna sul campo di battaglia: “Era come gettare uno sguardo sull'inferno - scriverà -, sul più profondo dell'inferno. Cadaveri straziati; mutilati che piangono, pregano, bestemmiano; feriti che si trascinano qua e là alla ricerca di un impossibile sollievo”. Al levarsi del sole di giugno, l'ambiente diventerà spaventoso: fetore di cadaveri, nugoli di mosche, ferite che vanno in putrefazione, grida selvagge.
È questa la guerra, la guerra vera, non quella che i giornali di Torino in questo stesso giorno esaltano come una grande festa. In un volumetto che pubblicherà alla fine del 1859, don Bosco andrà contro tutte le esaltazioni del momento, e scriverà: “Dopo la battaglia di Solferino, ho sempre detto che la guerra è cosa d'orrore, e io la credo veramente contraria alla carità”.
Successo della “real-politik”
Anche Napoleone III si rende conto delle dimensioni del massacro. E altre notizie arrivano a turbarlo: Toscana, Parma, Modena e le Legazioni pontificie sono insorte e dichiarano la loro adesione al Piemonte. Salta il progetto concordato a Plombières del “regno centrale” italiano da affidare a un principe francese. Le sconfitte austriache, inoltre, stanno provocando come reazione un concentramento di truppe prussiane sul confine del Reno.
Senza avvisare gli alleati piemontesi, Napoleone firma un armistizio a Villafranca l'8 luglio. Solo la Lombardia passerà a Vittorio Emanuele.
La notizia piove su Torino come una doccia gelata. Cavour, in un momento di depressione, pensa al suicidio. Napoleone III torna in Francia passando per Torino. Riceve accoglienze glaciali. Il re accompagna l'imperatore fino a Susa ringraziandolo di quanto ha fatto per l'Italia. Ma appena può risalire in treno mormora: “Finalmente se n'è andato!”.
Ma nei tumultuosi mesi che seguono, Toscana ed Emilia-Romagna si uniscono al Piemonte, alla Liguria, alla Sardegna e alla Lombardia. Nell'anno seguente, 1860, Garibaldi con la spedizione dei Mille conquisterà la Sicilia e l'Italia meridionale. Nel febbraio del 1861 il nuovo Parlamento proclamerà Vittorio Emanuele “re d'Italia”.
La “real-politik” di Cavour aveva avuto successo. Grazia Mancini, che lo vide nei primi mesi del 1861 mentre passeggiava in piazza San Carlo, scrisse: “La sua faccia bonaria, espressiva, soddisfatta diceva chiaramente: tutto va bene. I suoi occhietti mobili luccicavano dietro gli occhiali; camminava adagio, dondolando il corpo massiccio sulle gambe sottili, fregandosi le piccole mani aristocratiche prive di guanti”.
Il 7 giugno una notizia quasi incredibile volò per Torino: il conte di Cavour è morto. Una botta durissima per il giovane regno d'Italia.
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