4. TANTA STRADA PER ANDARE A SCUOLA

4. TANTA STRADA PER ANDARE A SCUOLA 

 

Un chierico dal volto buono 

In quegli anni la divina Provvidenza mi fece incontrare un altro benefattore, don Giuseppe Cafasso di Castelnuovo d'Asti. Era la seconda domenica di ottobre, e gli abitanti di Morialdo festeggiavano la Maternità di Maria SS. Era la festa patronale di quella frazione, e ognuno era allegro e affaccendato. Nei prati si svolgevano giochi e spettacoli, si esibivano ciarlatani e prestigiatori. 

Appoggiato alla porta della chiesa, lontano da ogni gioco e spettacolo, vidi un chierico. Era piccolo nella persona, aveva gli occhi scintillanti e il volto buono. Incuriosito e ammirato dal suo aspetto, mi avvicinai e gli dissi: 

- Reverendo, vuole assistere a qualche spettacolo della nostra festa? Mi dica dove vuole andare, l'accompagnerò. Egli mi chiamò vicino a sé, e con molta gentilezza si informò della mia età, dei miei studi, mi domandò se avevo fatto la prima Comunione, se andavo alla confessione e al catechismo. Gli risposi volentieri. Poi gli ripetei la mia offerta: 

-Vuol vedere qualche spettacolo? 

- Mio caro amico - rispose -, gli spettacoli dei preti sono le funzioni di chiesa. Quanto più la gente vi partecipa con amore, tanto più sono spettacoli che fanno bene al cuore dei sacerdoti. I nostri divertimenti sono la santa Messa, la Comunione, la confessione, da cui nasce la gioia più profonda. Io aspetto che aprano la chiesa per entrare. 

Vincendo un po' di timore gli risposi: 

- Ciò che lei dice è vero. Ma c'è tempo per tutto: tempo per andare in chiesa e tempo per divertirsi. 

Egli si mise a ridere, e mi disse queste parole che erano il programma della sua vita: 

- Chi si fa sacerdote si dona al Signore, e di tutte le cose che capitano nel mondo gli interessa solo ciò che può dare gloria a Dio e far del bene alle anime. 

Pieno di rispetto volli conoscere il nome di quel chierico, che nelle parole e nell'atteggiamento manifestava così profondamente lo spirito del Signore. Venni a sapere che era il chierico Giuseppe Cafasso, studente del primo anno di teologia. Avevo già sentito parlare più volte di lui, come di un giovane santo. 

 

Avvenire incerto 

La morte di don Calosso, come ho detto, era stata per me un vero disastro. Piangevo, e nessuno riusciva a consolarmi. Se ero sveglio, pensavo a lui. Se dormivo, lo sognavo. Le cose andarono tanto in là che mia madre temette seriamente che diventassi malato, e mi mandò per un certo periodo nella casa dei nonni a Capriglio. 

In quel tempo feci un altro sogno. Vidi una persona che mi sgridò severamente, perché avevo messo la mia speranza più negli uomini che nella bontà di Dio, nostro Padre. 

Mi preoccupava, intanto, il pensiero degli studi. Cosa fare per continuarli? C'erano molti bravi preti che lavoravano per il bene della gente, ma non riuscivo a diventare amico di nessuno. Mi capitava sovente di incontrare per strada il parroco e il viceparroco. Li salutavo da lontano, mi avvicinavo con gentilezza, ma loro ricambiavano soltanto il mio saluto, e continuavano la loro strada. 

Più volte, amareggiato fino alle lacrime, dicevo: 

- Se io fossi prete, non mi comporterei così. Cercherei di avvicinarmi ai ragazzi, darei loro buoni consigli, direi buone parole. Chissà perché non posso parlare un poco con il mio parroco? Don Calosso parlava con me. Perché gli altri preti no? Mamma vedeva la mia sofferenza. Per i miei studi tuttavia non aveva speranza di ottenere il consenso di Antonio, che superava ormai i vent'anni. Allora decise di dividere con lui i beni lasciati da mio padre. C'era una grossa difficoltà: io e Giuseppe eravamo minorenni, e questo comportava lunghe pratiche e spese notevoli. Nonostante tutto, la mamma prese questa decisione. 

Così in famiglia rimanemmo in tre: mamma, Giuseppe e io. La nonna era morta alcuni anni prima. 

Quella divisione mi tolse un macigno dallo stomaco e mi diede finalmente piena libertà di studiare. Ma ci vollero molti mesi per completare tutte le pratiche richieste dalla legge. Potei entrare nella scuola pubblica di Castelnuovo soltanto verso il Natale del 1830. Avevo 15 anni. 

 

Giovanni Roberto, sarto e cantore 

La scuola pubblica e il maestro diverso misero a dura prova quel poco che avevo imparato fino a quel giorno. Dovetti quasi ricominciare la grammatica italiana e procedere faticosamente verso quella latina. 

Nei primi tempi andavo da casa a scuola ogni mattina e ogni pomeriggio, percorrendo tra andate e ritorni qualcosa come venti chilometri al giorno. 

Ma appena cominciò sul serio l'inverno, questo ritmo si dimostrò impossibile. Fui messo quindi a pensione da Giovanni Roberto, un brav'uomo che faceva il sarto. 

Era anche un buon cantore dilettante di musica profana e sacra. Poiché anch'io avevo una buona voce, mi insegnò la musica. In pochi mesi potei salire sulla cantoria della chiesa ed eseguire con lui brani di musica sacra. 

Nel tempo libero cominciai anche a divertirmi con ago e forbici. In poco tempo divenni esperto nell'attaccare bottoni, fare orli, eseguire cuciture semplici e doppie. Riuscii anche a perfezionarmi in operazioni più delicate: tagliare la stoffa per confezionare giubbotti, pantaloni, panciotti. 

Il signor Roberto, vedendo i miei progressi nel mestiere, mi fece una proposta seria: diventare sarto a tempo pieno nella sua bottega. Ma il mio programma era diverso: volevo andare avanti negli studi. Mi piaceva imparare molte cose nel tempo libero, ma tutti i miei sforzi erano concentrati sull'obiettivo principale. 

 

Amici e non amici 

In quel primo anno dovetti anche fare i conti con alcuni compagni cattivi. Tentarono di portarmi a giocare in tempo di scuola. Trovai la scusa che non avevo soldi. Mi suggerirono come procurarmeli: rubare al mio padrone e a mia madre. Uno, per convincermi, mi disse sfacciato: 

- È’ tempo che ti svegli. Impara a vivere in questo mondo. Se continui a tenere gli occhi bendati, rimarrai sempre un bambino. Se vuoi una vita spensierata devi procurarti denaro, in una maniera o nell'altra. 

Ricordo che gli diedi questa risposta: 

- Non capisco le vostre parole. Sembra che mi vogliate convincere a diventare un ladro. Ma il settimo comandamento di Dio dice: « non rubare ». Chi diventa ladro fa cattiva fine. D'altra parte, mia madre mi vuol bene. Se le chiedo denaro per cose buone, me lo dà. Le ho sempre obbedito, e non comincerò certo adesso a disobbedirle. Se i vostri amici rubano, sono delinquenti. Se non rubano ma consigliano gli altri a rubare, sono dei mascalzoni. 

Questa mia risposta decisa passò di bocca in bocca, e nessuno ebbe più il coraggio di farmi proposte simili. Anche il professore venne a conoscerla, e da quel momento mi dimostrò più affetto. Persino i genitori di molti miei compagni di scuola furono informati della faccenda, e si dimostrarono contenti che i loro figli diventassero miei amici. 

In breve tempo tornò a formarsi intorno a me un bel gruppo di amici, che mi volevano bene e mi obbedivano come i ragazzi di Morialdo. 

Tutto cominciava ad andare bene per me, quando si verificò un nuovo inconveniente. Il mio insegnante, don Virano, fu nominato parroco di Mondonio, nella diocesi di Asti. Nell'aprile lasciò la scuola. Lo sostituì un altro professore meno abile di lui. Non riusciva assolutamente a ottenere attenzione e silenzio nella classe. In quel disordine, finii per perdere anche ciò che nei mesi precedenti avevo imparato.

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