Cominciò per don Bosco la “croce del Sacro Cuore”.
Per prima cosa spedì a Roma don Dalmazzo e poi don Angelo Savio, a rendersi conto dei lavori e a “controllare le spese”. Era una usanza purtroppo diffusa, a Roma, che “nei lavori del Papa c'è da mangiare per tutti”. Don Bosco farà giungere molte volte a don Dalmazzo sollecitazioni pressanti in questo senso: “Manca controllore delle provviste che entrano o no”, “Vegliare sui prezzi”, “Chi veglia sui materiali che bisogna trasferire altrove?”, “Si lavora poco. Si ruba in casa e fuori. Si sciupano materiali, specialmente tavole”, “Mettere uno pratico ad assistere”.
Subito dopo rimise in moto tutto l'ingranaggio, già collaudato tante volte per radunare fondi: circolari in molte lingue, lotterie, sottoscrizioni, lettere personali. Quest'ingranaggio non era una bacchetta magica. Comportava fatiche, umiliazioni, controlli, superlavoro per moltissimi confratelli. Il superlavoro più grosso se lo prese sulle spalle don Bosco.
“Ho la chiesa del Sacro Cuore sulle spalle”.
Don Rua, nelle deposizioni giurate per la beatificazione di don Bosco, testimoniò: “Era una pena vederlo salire e scendere scale per chiedere limosine, sottoponendosi anche a dure umiliazioni. Patì tanto che qualche volta, nell'intimità, a chi dei suoi, vedendolo incurvato, gli chiedeva come mai si piegasse così nella persona, rispondeva: " Ho la chiesa del Sacro Cuore sulle spalle ". Tal altra volta, amabilmente scherzando, diceva: " Dicono che la Chiesa è perseguitata. Io invece posso dire che la chiesa perseguita me! ". Già innanzi negli anni, malandato in salute, si può ben dire che tale opera logorò gran parte delle sue forze”.
La fatica più grave a cui si sottopose fu il grande “viaggio in Francia” che fece elemosinando di città in città per quattro mesi: dal 31 gennaio al 31 maggio 1883.
Ci permettiamo un'osservazione di passaggio. Don Bosco ha 68 anni, gliene rimangono da vivere 5 soltanto. La sua Congregazione ha avuto una crescita vasta, e il mondo sta attraversando uno dei periodi di ristrutturazione più profondi nelle idee e nelle strutture. Don Bosco avrebbe bisogno di poter disporre di tutto il suo tempo per tentare una sintesi del suo pensiero, delle sue intuizioni, che rimanga come base stabile delle sue opere. Dovrebbe impiegare il poco tempo che gli rimane per ripensare i suoi schemi di azione in un contesto sociale che muta rapidamente, per dare un'organizzazione solida alla Congregazione.
In questi ultimi anni validi della sua vita, invece, viene costretto a “fare soldi” per la costruzione di una chiesa. Nemmeno per le urgenze dei giovani poveri, ma per i muri di una chiesa di Roma. Dai tetti in giù è una faccenda sconcertante.
Ma proprio questi anni “bruciati” obbligano don Bosco a due grandi viaggi (Francia - Spagna) che accendono un trionfo attorno a lui come “uomo di Dio”. Gli danno occasione di riaccendere in masse popolari enormi il “senso di Dio”.
Marx aveva definito la religione “oppio dei popoli”, l'anarchico Bakunin esigeva dai suoi adepti un'aperta professione di ateismo, la “Comune” di Parigi aveva recentemente manifestato indubbi segni di ateismo militante. “Le Chiese cristiane si trovavano a fare i conti non più con fenomeni di miscredenza limitati a settori relativamente ristretti dei ceti dirigenti, ma con un preoccupante allontanamento di vasti strati sociali dalla pratica religiosa e dall'obbedienza ecclesiastica” (Francesco Traniello).
La società intera stava perdendo il senso di Dio e del rispetto divino della vita umana. Nei giorni della “Comune”, la spietatezza dei comunardi atei non era certo stata superiore a quella dei borghesi che l'avevano soffocata con le cannonate, facendo strage di 14.000 lavoratori (e lavoratori in quel tempo erano uomini, donne e ragazzi).
Non fu quindi al servizio di una chiesa, né dei giovani poveri questa ultima fatica di don Bosco, ma di tutta una generazione che correva il rischio di perdere il senso di Dio e i più grandi valori della vita. Questa generazione, nella Francia e nella Spagna, riscopre in lui il “senso di Dio” e dello “spendersi per gli altri”.
Incandescenza a Parigi.
Seguiamo il filo del viaggio francese sulla relazione curata da Henri Bosco, che la verificò non solo sui documenti salesiani, ma anche sui giornali di Francia del tempo.
Quando partì, non ci vedeva quasi più, le gambe a malapena lo sorreggevano, soffriva di varici. Il suo corpo era logoratissimo. Entrò in Francia da Nizza, che solo da 18 anni non era più italiana. Salì verso Parigi via Tolone-Marsiglia-Avignone-Lione-Moulins. Salita lenta, che durò due mesi e 19 giorni.
Nessuno, lui meno di tutti, prevedeva l'emozione straordinaria, l'entusiasmo, l'affollamento di gente, l'incandescenza della fede che la presenza di “un povero prete di campagna” doveva provocare.
Qualche prudente gli aveva consigliato: “Non andate in Francia. A Parigi stanno costruendo la " loro " chiesa del Sacro Cuore a Montmartre. È già costata milioni e non è ancora finita. Chi vuole che dia un soldo a voi?”.
Don Bosco, ancora una volta, avrebbe smentito i “prudenti”. Ad Avignone la folla si ammassò fin dalla stazione. In città, la gente correva dietro alla sua carrozza. A colpi di forbici gli tagliuzzarono la veste da prete. Bisognò andare in fretta a cercargli un'altra veste.
A Lione le chiese si riempirono. Lo accerchiavano, lo facevano rallentare, bloccavano la carrozza dei suoi ospiti. “Sarebbe meglio portare in carrozza il diavolo che un prete come questo”, disse un cocchiere irritato dalla violenza della gente.
A Parigi si temeva un fiasco. L'Italia ufficiale era appena passata dall'alleanza con la Francia a quella con la Germania e l'Austria con il trattato della “Triplice”. E don Bosco era italiano. Il governo, inoltre, era strettamente anticlericale.
Parigi, così permalosa, accolse l'apostolo dei poveri con un fervore incandescente. Vi giunse il 19 aprile e vi sarebbe rimasto cinque settimane (salvo una breve puntata ad Amiens e Lilla). Prese alloggio presso una famiglia parigina amica, al n. 34 di corso Messina. Per ricevere visitatori, però, andava tutti i pomeriggi in via Ville-l'Évéque, presso gli Oblati del Sacro Cuore. Ciò per sollevare i suoi ospiti dalla pressione della folla che subito si scatenò.
“È un santo” dicevano. Un'affermazione pericolosa. C'è un sacco di gente che cerca subito di dubitarne, e basta un nonnulla perché scatti il ridicolo. Si lasciava facilmente fotografare, sia da solo sia in gruppo. Glielo rimproveravano: una vanità. Ma egli rispondeva: “È un buon mezzo, non per far conoscere me, ma per interessare la gente alla mia opera”. Ugualmente facilitò i suoi biografi, come il dottor D'Espiney, che fu il primo a scrivere in francese la vita di don Bosco. Il libro aveva inesattezze notevoli, ma tirò cinquantamila copie in pochi mesi.
Una fotografia in Francia
C’è un ritratto fotografico di don Bosco, il più famoso eseguito in Francia. Il volto di don Bosco in quel ritratto è vecchio, logoro, frusto. Vecchio di una vecchiezza incredibile, sciupato come fosse di carta pesta. Solchi attraversano quella fronte devastata. Da ogni lato la bocca è cascante, una bocca buona ma deformata da un'inguaribile stanchezza. Gli occhi stessi, affossati dietro sopracciglia cespugliose, non lasciano passare che un filo di luce, uno sguardo quasi cieco. L'uomo che sta dietro quel viso sa che cos'è la sofferenza, la sua sofferenza e quella di tutti gli altri che egli ha fatto suoi, che ha salvato perché avessero su questa terra meno fatica per vivere e una visione del Cielo nel punto della loro morte. A giudicare a colpo d'occhio, quella faccia doveva ispirare pietà, più che entusiasmo.
Ma in quel ritratto ci sono anche le mani di don Bosco. Mani di lavoratore, lavoratore onesto, potente lavoratore della vita. Quelle mani si tesero a benedire gli ammalati, a carezzare i bambini, e ridonarono la salute come le acque di Lourdes. Vedendo operare quelle mani, i parigini non provarono pietà per don Bosco, ma chiesero a lui di avere pietà. Videro in lui l'inviato della speranza, l'uomo di Dio, il dispensatore provvidenziale delle guarigioni e delle grazie.
Nella capitale si ripeterono le stesse scene della provincia. Il concorso di gente era più grande e più serrato, e don Bosco subì assalti più rudi, più estenuanti. La differenza era tutta qui.
Scrive Le Figaro di quei giorni: “Davanti alla casa di via Ville-l'Évèque, dov'è sceso don Bosco, file di carrozze stazionano tutto il giorno da una settimana. Le maggiori dame supplicano di fare per loro e per i loro parenti i miracoli che, dicono, compie con tanta facilità”.
E Le Pelerai: “Si raccontavano, si inventavano perfino dei miracoli. Le dame del gran mondo correvano sulle tracce del santo che non si occupa degli applausi del mondo, che non prepara le prediche che pronuncia alla Madeleine più di quanto prepari ciò che dice a un mendicante, che dà tanto tempo a un operaio quanto a un principe”.
La giornata di un povero prete.
Si alza prestissimo, alle 5. Va a dormire a mezzanotte, spossato. Alle 6 cominciano le visite. Poi se ne va a dire Messa in questa o quella parrocchia, spiato sempre all'uscita, assaltato da domande, perseguitato da richieste, avvolto da suppliche, da preghiere. Vogliono parlargli, toccarlo, vederlo almeno. Lo fermano dappertutto, su una scala, in un'anticamera, alla porta di una sacrestia, per la strada. Con dispiacere, arriva a tutti gli appuntamenti sempre in ritardo. Il suo francese è cattivo, il suo accento straniero, la sua eloquenza modesta.
All'Arciconfraternita per la conversione dei peccatori sta preparandosi a dire Messa. Folla enorme. Qualcuno vuole entrare, non può, se ne stupisce: “Che succede?”. Allora una donna del popolo gli dice: “Siamo venuti per ascoltare una Messa, la Messa dei peccatori. Celebrerà un santo”.
Quando gli chiedono un “suo” miracolo, risponde: “Io sono un peccatore, pregate per me. Ma rivolgeremo insieme la nostra preghiera alla Madonna Ausiliatrice. Lei sì che guarisce, ascolta, comprende, ha compassione. Lei risponde dal Cielo. Io non posso che pregarla”. Ma quando la chiama questo “povero peccatore”, la Madonna risponde sempre. Sembra lì, al suo fianco, a sua disposizione.
Le autorità religiose più eminenti lo accolsero con cordialità. Il cardinale Lavigerie lo aspettò nella chiesa di S. Pietro, e parlò alla gente raccomandandolo con calore alla loro generosità. Lo chiamò “il san Vincenzo de' Paoli dell'Italia”.
Gli appelli alla generosità non furono accolti solo dalle famiglie ricche, ma anche dalla povera gente. Tutti donavano. Don Bosco ricevette biglietti di banca, monetine, monete d'oro, perfino gioielli. Ci fu un momento in cui non sapeva più dove metterli.
Da Parigi si assentò una settimana per andare a Lilla e Amiens. Stesso entusiasmo. Dinanzi alle terribili forbici che gli tagliuzzavano le vesti esclamava: “Non tutti i matti sono al manicomio!”.
Poi la partenza. Sul treno che lo riportava a Torino, i suoi due compagni don Rua e don De Barruel tacevano. Ricordavano quelle giornate come un sogno che non avrebbero mai potuto dimenticare. A un tratto don Bosco ruppe il silenzio:
- Ricordi, don Rua, la strada che conduce da Buttigliera a Murialdo? Là a destra c'è una collina, e sulla collina una casetta. Quella povera casa era l'abitazione mia e di mia madre. In quei prati io ragazzo portavo al pascolo due vacche. Se tutti quei signori sapessero che hanno portato così in trionfo un povero contadino dei Becchi.
Un cardinale che porta la pace.
Il 18 novembre di quel 1883, in forma privatissima, arrivò a Torino il nuovo Arcivescovo: il cardinale Gaetano Alimonda. In una udienza che don Bosco avrà con Papa Leone nel 1884 si sentirà dire: “Nel mandarlo, ho pensato a voi. Il cardinale Alimonda vi vuole bene, molto bene”.
“La bontà del cardinale - scrisse don Ceria - fu per don Bosco un provvidenziale conforto negli ultimi quattro anni della sua vita”.
Poco dopo il suo arrivo, don Bosco mandò a domandare se l'Arcivescovo era in casa e se poteva riceverlo. Il cardinale prese la carrozza e venne immediatamente a Valdocco:
- Per fare più presto, sono venuto io stesso.
Erano le dieci e mezzo - ricorda il biografo che era presente -. Il colloquio, nella stanzetta di don Bosco, durò più di un'ora. Intanto i giovani furono avvisati nei laboratori e nelle scuole, i musici si recarono in fretta a prendere gli strumenti, qualcuno tirò velocemente strisce di bandiere lungo i balconi. Quando il cardinale si affacciò al ballatoio per cui si usciva dalla stanza di don Bosco, la banda suonò e i ragazzi applaudirono. L'Arcivescovo disse ridendo: “Volevo farvi un'improvvisata, e voi l'avete fatta a me”. Agitò le mani verso i ragazzi e disse solo:
- Carissimi figli, vi ringrazio, vi benedico e mi raccomando alle vostre preghiere. Visitò i laboratori e sostò a lungo in preghiera davanti al quadro dell'Ausiliatrice.
“Se non ritornerò più”.
Il denaro raccolto in Francia era stato abbondante, ma la chiesa del Sacro Cuore si rivelava un pozzo senza fondo. All'inizio del 1884 c'erano forti debiti da pagare, e le casse erano asciutte. Il 28 febbraio, nonostante la salute disastrosa, don Bosco disse ai suoi:
- Riparto per la Francia.
Don Rua e don Cagliero cercarono di dissuaderlo. Chiamarono il medico Albertotti a visitarlo. Il dottore, dopo un lungo controllo, disse esplicito:
- Per me, se lei arriva a Nizza vivo, è un miracolo.
- Se muoio, pazienza - mormorò don Bosco -. Vuol dire che prima di partire sistemerò le cose principali. Ma io devo andare.
Appena uscito dalla stanza, Albertotti disse a don Rua: - State molto attenti. Non mi stupirei se morisse all'improvviso, senza che ve ne accorgiate. Non c'è da illudersi.
Don Bosco chiamò notaio e testimoni, e dettò il suo testamento. Poi fece venire don Rua e don Cagliero, e indicando sul tavolo l'atto notarile disse:
- Qui c'è il mio testamento. Ho lasciato voi due miei eredi universali. Se non ritornerò più, voi sapete già come stanno le cose.
Don Rua uscì dalla stanza con il cuore gonfio. Don Cagliero rimase, ed era depresso fino a piangere.
- Ma dunque, vuole proprio partire in questo stato?
- Come vuoi che facciamo diversamente? Non vedi che non abbiamo più i mezzi per tirare avanti? Se non partissi, dove potrei trovare i mezzi per pagare i debiti che scadono? Dobbiamo lasciare i ragazzi senza pane? Solo in Francia posso sperare soccorsi.
Don Cagliero era scoppiato a piangere. Frenandosi a stento, disse:
- Siamo sempre andati avanti a forza di miracoli. Vedrà che la Madonna farà anche questo. Lei vada, e noi pregheremo.
- Sì, io parto. Il mio testamento è qui. Lo consegno a te in questa scatola. Conservala come mio ultimo ricordo.
Non fu un viaggio lungo. Toccò soltanto il sud della Francia, ma don Bosco potè radunare fondi notevoli. I conti Colle, a Tolone, gli consegnarono nelle mani 150.000 lire in una sola volta.
A Marsiglia don Albera, preoccupato delle sue condizioni, volle che fosse visitato dal dottor Combal, una celebrità medica. Al termine di una visita accurata, Combal espresse il suo parere con un' immagine:
- Lei è un abito molto logoro. È stato indossato i giorni feriali e i giorni festivi. Per conservarlo ancora, l'unico mezzo è metterlo in guardaroba. Avrà capito che le consiglio il riposo assoluto.
- La ringrazio, dottore, ma è l'unica medicina che non posso prendere.
Le strettezze l'avrebbero spinto ancora ad un ultimo viaggio di questua. Nel 1886, a due soli anni dalla sua morte, partì per la Spagna. A Barcellona l'accoglienza fu una ripetizione di quella parigina, Strade piene, tetti coperti, grappoli umani ai lampioni. E quanti doni. Gli offrirono anche una collina, il “Tibi dabo” che domina con una vista bellissima la città.
Ritornò per il sud della Francia: Montpellier, Tarascona, Valenza, Grenoble. Un ritorno lento verso la sua Italia, l'ultimo ritorno. Diceva a chi l'accompagnava:
- Tutto è opera della Madonna. Tutto viene da quell'Ave Maria recitata con un ragazzo, quarantacinque anni fa, nella chiesa di san Francesco d'Assisi.
Mentre il corpo di don Bosco si curvava sempre più, traspariva come luce sempre più viva la sua anima. Don Belmonte, direttore di Sampierdarena, un giorno andò a sfogarsi con lui:
- Sono stanco che non ne posso più. Come posso continuare una vita simile?
Don Bosco si curvò un po' più in avanti, tirò su un lembo della talare e gli mostrò le gambe tutte gonfie, che trasbordavano come cuscini flosci sulle scarpe. Gli disse solo:
- Mio caro, fatti coraggio. Ci riposeremo in Paradiso.
La sera del 25 giugno, gli exallievi gli fecero un caloroso omaggio per il suo onomastico. Don Bosco ringraziò commosso, poi, stanchissimo, riuscì a dire soltanto:
- Io non sono altro che una cicala che grida, e poi muore.
Se qualcuno lo vedeva camminare curvo, da solo, e andando a sorreggerlo gli domandava: “Dove andiamo, don Bosco?”, lui lo fissava con quel suo sorriso dolce, e rispondeva: “Andiamo in Paradiso”.
Versione app: 3.25.0 (f932362)