5. Il figlio maggiore parte.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: «E tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo».

5. Il figlio maggiore parte.

da L'autore

del 01 gennaio 2002

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5. Il figlio maggiore parte.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: «E tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito a un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso».

Stare con le mani incrociate.

Durante le ore che ho trascorso all'Ermitage ad osservare il dipinto di Rembrandt, sono rimasto sempre più affascinato dalla figura del figlio maggiore. Ricordo di essere stato a guardarlo a lungo chiedendomi cosa stesse passando per la mente e nel cuore di quell'uomo. Egli, senza dubbio, è l'osservatore principale del ritorno a casa del figlio più giovane. All'epoca in cui conoscevo solo il dettaglio del dipinto in cui il padre abbraccia il figlio che ritorna, era piuttosto facile percepirlo come un personaggio invitante, commovente e rassicurante. Ma quando ho visto l'intero dipinto, mi sono subito reso conto della complessità del gruppo. A quanto pare, l'osservatore principale, che guarda il padre mentre abbraccia il figlio che è tornato, se ne sta rigidamente sulle sue. Guarda il padre, ma non con gioia. Non si protende in avanti né sorride o esprime il suo benvenuto. Sta semplicemente li - a lato della pedana - evidentemente non desideroso di farsi coinvolgere.

È vero che il "ritorno" è l'evento dominante del dipinto; non è comunque situato nel centro fisico della tela. Ha luogo sul lato sinistro del quadro, mentre il fratello maggiore, alto e impassibile, domina il lato destro. C'è un ampio spazio vuoto che separa il padre e il figlio maggiore, uno spazio dove si crea una tensione che esige una soluzione.

Con il figlio maggiore nel dipinto, non mi è più possibile fare del sentimentalismo sul "ritorno". L'osservatore principale mantiene le distanze; a quanto pare non è disposto a condividere l'accoglienza del padre. Che sta succedendo dentro questo uomo? Che farà?

Si farà più vicino e abbraccerà il fratello come ha fatto il padre, o se ne andrà con sdegno e disgusto?

Da quando il mio amico Bart mi ha fatto notare che potrei essere molto più simile al fratello maggiore che non a quello più giovane, ho osservato questo "uomo alla destra" con più attenzione e ho visto molte cose nuove e anche dure da accettare. Il modo in cui il figlio maggiore è stato dipinto da Rembrandt lo mostra molto simile al padre. Entrambi hanno la barba e indossano ampi mantelli rossi sulle spalle. Questi elementi esterni suggeriscono come figlio e padre abbiano molto in comune e questa comunanza è sottolineata dalla luce sul figlio maggiore che in modo molto diretto collega il suo al volto luminoso del padre.

Ma che differenza penosa tra i due! Il padre si piega sul figlio che è tornato. Il figlio maggiore sta in piedi irrigidito, posizione accentuata dal lungo bastone che dalla mano arriva fino a terra. Il mantello del padre è ampio e accogliente; quello del figlio cade giù rigido e uniforme lungo il corpo. Le mani del padre sono stese e toccano colui che ritorna in un gesto di benedizione; quelle del figlio maggiore sono strette insieme e tenute vicino al petto. C'è luce su entrambi i volti, ma la luce che emana dal volto del padre fluisce per tutto il corpo - specialmente le mani - e riverbera sul figlio più giovane un grande alone di calore luminoso; mentre la luce sul volto del figlio maggiore è fredda e circoscritta. La sua figura rimane nell'oscurità e le sue mani congiunte restano nell'ombra.

La parabola dipinta da Rembrandt potrebbe essere giustamente chiamata "La parabola dei figli perduti". Non si è perduto soltanto il figlio più giovane, che se n'è andato da casa per cercare libertà e felicità in un paese lontano, ma anche quello che è rimasto. Esteriormente faceva tutte le cose che si suppone faccia un bravo figlio, ma, interiormente, si era allontanato da suo padre. Faceva il proprio dovere, lavorava sodo ogni giorno e adempiva tutti i suoi obblighi, ma era diventato sempre più infelice e meno libero.

Perduto nel risentimento.

Mi è difficile ammettere che questo uomo amaro, risentito e sdegnato, da un punto di vista spirituale possa essermi più vicino del sensuale fratello più giovane. Tuttavia più penso al figlio maggiore e più mi ci riconosco. In quanto figlio maggiore, nella mia famiglia, so bene come ci si sente a dover essere un figlio modello.

Spesso mi chiedo se non siano soprattutto i figli maggiori a voler corrispondere alle aspettative dei genitori e a voler essere considerati obbedienti e ligi al dovere. Spesso vogliono riuscire graditi. Spesso temono di essere una delusione per i genitori. Ma spesso anche sperimentano, abbastanza presto nella vita, una certa invidia nei confronti dei fratelli e delle sorelle più giovani, che sembrano meno preoccupati di piacere e moltopiù liberi di "fare a modo loro". Questo fu certamente il mio caso. E per tutta la vita ho nutrito una strana curiosità per la vita disobbediente che io stesso non ho osato vivere, ma che ho visto vivere da molti intorno a me. Ho fatto tutte le cose giuste, attenendomi generalmente alle direttive date dalle molte figure "parentali" della mia vita - insegnanti, direttori spirituali, vescovi e papi -, ma allo stesso tempo spesso mi sono chiesto perché non abbia avuto il coraggio di "andarmene" come ha fatto il figlio più giovane.

E strano arrivare a questa confessione, ma, nel profondo del mio cuore, sì, ho conosciuto il sentimento di invidia nei confronti del figlio ribelle. È l'emozione che mi nasce dentro quando vedo i miei amici divertirsi nel fare tutte quelle cose che condanno. Ho definito il loro comportamento biasimevole o persino immorale, ma allo stesso tempo mi sono spesso domandato perché non avevo l'ardire di comportarmi anch'io come loro, se non del tutto, almeno in parte.

La vita obbediente e ligia al dovere di cui sono orgoglioso o per la quale vengo elogiato si fa sentire qualche volta come un peso che grava sulle mie spalle, e continua a opprimermi anche quando l'ho accettato a tal punto da non voler scaricarmene. Non ho alcuna difficoltà nell'identificarmi con il figlio maggiore della parabola che così si lamenta: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito a un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici». In questo lamento, l'obbedienza e il dovere sono diventati un peso e il servizio è una schiavitù.

Tutto questo si è rivelato molto vero quando un mio amico, diventato di recente cristiano, mi ha criticato per non essere molto devoto. La sua critica mi ha fatto uscire dai gangheri. Mi sono detto: «Come osa costui darmi una lezione sulla preghiera! Per anni ha vissuto una vita senza pensieri e senza freni, mentre io, sin dalla fanciullezza, ho scrupolosamente vissuto una vita di fede. Si è convertito ora e mi dice come mi devo comportare!». Questo risentimento interiore mi rivela il mio stesso "smarrimento". Ero rimasto a casa senza mai allontanarmi, ma non avevo ancora vissuto una vita libera nella casa di mio padre. Rabbia e invidia dimostravano la mia schiavitù.

Non è qualcosa che è accaduto solo a me. Molti figli e figlie maggiori si sono perduti rimanendo sempre a casa. Ed è questo smarrimento - caratterizzato dalla facilità a giudicare e condannare, dalla rabbia e dal risentimento, dall'amarezza e dalla gelosia - ad essere così dannoso e devastante per il cuore dell'uomo. Spesso pensiamo allo smarrimento in termini di azioni molto palesi, persino spettacolari. Il figlio più giovane ha peccato in un modo che possiamo facilmente identificare. Il suo smarrimento è evidente. Ha fatto cattivo uso del denaro, del tempo, degli amici e del suo stesso corpo. Quello che faceva era sbagliato; non soltanto la sua famiglia e gli amici lo sapevano, ma anche lui ne era consapevole. Si è ribellato alla morale e si è lasciato travolgere dalla sua lussuria e avidità. C'è qualcosadi molto ben definito nella sua cattiva condotta. Poi, avendo visto che il suo comportamento ribelle non conduceva se non alla miseria e alla sofferenza, il figlio più giovane è rinsavito, si è voltato indietro e ha chiesto perdono. Abbiamo qui un classico fallimento umano che si è risolto in modo semplice. Piuttosto facile da comprendere e compatire.

Lo smarrimento del figlio maggiore, invece, è molto più difficile da identificare. Dopo tutto, faceva le cose perbene. Era obbediente, ligio al dovere, rispettoso della legge e gran lavoratore. La gente lo rispettava, lo ammirava, lo elogiava e probabilmente lo considerava un figlio modello. All'esterno era irreprensibile. Ma, di fronte alla gioia del padre al ritorno del fratello più giovane, una forza oscura erompe in lui e ribolle in superficie. Improvvisamente emerge una persona risentita, orgogliosa, cattiva ed egoista, una persona rimasta nascosta nel subconscio, anche se si era fatta sempre più forte e operante nel corso degli anni.

Guardando in profondità dentro di me e poi intorno a me la vita degli altri, mi chiedo cosa sia più dannoso, la lussuria o il risentimento? C'è tanto risentimento tra i "giusti" e i "retti". C'è tanta facilità a giudicare, condannare e esistono tanti pregiudizi tra i "santi". C'è tanta rabbia repressa tra le persone preoccupate di evitare il "peccato".

Lo smarrimento del "santo" pieno di risentimento è così difficile da individuare proprio perché è strettamente unito al suo desiderio di essere buono e virtuoso. Io so, dall'esperienza della mia vita, con quanto zelo ho cercato di essere buono, ben accetto, amabile e di buon esempio agli altri. Mi sono sempre sforzato, in modo cosciente, di evitare le insidie del peccato e ho sempre avuto paura di cedere alla tentazione. Ma nonostante questo, sono subentrati una severità e un fervore moralistici - e persino un tocco di fanatismo - che mi hanno reso sempre più difficile sentirmi a casa nella casa di mio Padre. Sono diventato meno libero, meno spontaneo, meno allegro, e gli altri hanno finito per vedermi sempre più come una persona piuttosto "pesante".

Senza gioia.

Quando ascolto attentamente le parole con cui il figlio maggiore attacca il proprio padre - parole ipocrite, di autocommiserazione, di gelosia -, sento in esse un oscuro lamento. E il lamento che viene da un cuore che avverte di non aver mai ricevuto ciò che gli era dovuto. E il lamento espresso in infinite maniere sottili e non, e che forma un sostrato indurito di risentimento umano. E il lamento che grida: «Ho faticato tanto, ho lavorato a lungo, mi sono dato sempre da fare e ancora non ho ricevuto quello che altri ottengono tanto facilmente. Perché la gente non mi ringrazia, non mi invita, non si diverte con me, non mi rende omaggio, mentre presta tanta attenzione a coloro che prendono la vita con disinvoltura e noncuranza?».

È in questo lamento, cui può essere data voce o meno, che riconosco il figlio maggiore in me. Spesso mi ritrovo a dolermi di piccoli rifiuti, piccole scortesie, piccole negligenze. Di frequente scopro che dentro di me non la finisco di mormorare, piagnucolare, brontolare, lagnarmi e affliggermi, anche contro la mia volontà. Più mi soffermo su questi pensieri e peggiore diventa il mio stato. E più analizzo il mio stato, più vi trovo ragioni per lamentarmi. Più lo scandaglio, più si fa complicato. C'è una forza enorme e oscura che mi trascina a questo lamento interiore. La condanna degli altri e l'autocondanna, l'ipocrisia e il rifiuto di quello che si è si rafforzano a vicenda in un circolo sempre più vizioso. Ogni volta mi ci lascio sedurre, ogni volta mi avvita in una spirale senza fine di ripudio di me stesso. Poiché mi lascio attrarre nel vasto labirinto interiore dei miei lamenti, mi ci perdo sempre di più, finché, alla fine, mi sento la persona più incompresa, respinta, trascurata e disprezzata del mondo.

Di una cosa sono sicuro: lamentarsi è qualcosa che si autoperpetua ed è controproducente. Ogni volta che mi abbandono alle mie lagnanze nella speranza di suscitare pietà e ricevere la soddisfazione che tanto desidero, il risultato è sempre l'opposto di ciò che volevo ottenere. E difficile vivere accanto a qualcuno che si lamenta e pochissime persone sanno come rispondere alle querimonie di chi rifiuta se stesso. La tragedia è chespesso le lamentele, una volta espresse, conducono a ciò che più si teme, e cioè a un ulteriore rifiuto.

Da questo punto di vista, l'incapacità del figlio maggiore di condividere la gioia del padre diventa del tutto comprensibile. Quando tornò dai campi, udì la musica e le danze. Capì che in casa si faceva festa. Immediatamente si fece sospettoso. Ogni volta che ci lamentiamo per non saper accettare noi stessi, perdiamo la spontaneità al punto che non riusciamo più a lasciarci coinvolgere dalla gioia che è intorno a noi.

La storia prosegue: «Chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò». Si ha paura di essere esclusi di nuovo, che qualcuno non ci abbia detto cosa sta accadendo, di essere in qualche modo emarginati. Il lamento torna immediatamente a galla: «Perché non sono stato informato, che significa tutto questo?». Il servo, senza sospettare nulla, pieno di eccitazione e ansioso di condividere la buona notizia, spiega: «E tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Ma questo grido di gioia non può essere accettato. Anziché sollievo e gratitudine, la gioia del servo raccoglie un sentimento opposto: «Egli si indignò, e non voleva entrare». Gioia e risentimento non possono coesistere. La musica e le danze, invece di invitare all'allegria, diventano un motivo per isolarsi ancora di più.

Ricordo molto bene una situazione analoga. Una volta che mi sentivo molto solo, chiesi ad un amico di uscire con me. Sebbene mi avesse detto di non averne il termpo, lo trovai un po' più tardi a casa di un comune amico, dove c'era una festa. Vedendomi disse: «Benvenuto, unisciti a noi, è bello vederti». Ma la mia rabbia fu tanta per non avermi detto della festa che non riuscii a trattenermi. Tutti i miei lamenti interiori per non essere stato accettato, gradito e amato presero il sopravvento, e lasciai quell'ambiente, sbattendo la porta dietro di me. Ero completamente inibito, incapace di ricevere e partecipare alla gioia che c'era in quel luogo. In un attimo la gioia in quella stanza era diventata motivo di sdegno.

Questa esperienza di non essere capace di partecipare alla gioia è l'esperienza di chi ha il cuore colmo di risentimento. Il figlio maggiore non ebbe la forza di entrare in casa e di condividere la gioia del padre. Il suo lamento interiore lo paralizzò e consentì che l'oscurità avvolgesse il suo cuore.

Rembrandt ha percepito il significato più profondo di questa situazione quando ha dipinto il figlio maggiore a lato della pedana su cui il figlio più giovane viene ricevuto nella gioia del padre. Non ha dipinto il festeggiamento con i musicisti e i danzatori; questi erano semplicemente i segni esteriori della gioia del padre. Nel quadro l'unico segno di festa è la figura di un suonatore di flauto seduto, tratteggiato in rilievo sul muro a cui si appoggia una delle donne (la madre del prodigo?). Al posto della festa, Rembrandt ha dipinto della luce, la luce raggiante che avvolge sia il padre che il figlio. La gioia che Rembrandt ritrae è la gioia quieta propria della casa di Dio.

Nella storia ci si può immaginare che il figlio maggiore stia fuori al buio e non voglia entrare nella casa illuminata, piena di allegri rumori. Ma Rembrandt non dipinge né la casa né i campi. Ritrae tutto con la luce e l'oscurità. L'abbraccio del padre, pieno di luce, è la casa di Dio. Tutta la musica e le danze sono lì. Il figlio maggiore rimane al di fuori del cerchio di questo amore, rifiutandosi di entrarvi. La luce sul suo volto fa capire che anche lui è chiamato alla luce, ma non può essere forzato.

Talvolta la gente si chiede: che ne è stato del figlio maggiore? Si è lasciato persuadere dal padre? E entrato alla fine in casa e ha partecipato ai festeggiamenti? Ha abbracciato il fratello e lo ha accolto come aveva fatto il padre? Si è seduto allo stesso tavolo con suo padre e suo fratello e si è goduto insieme a loro il pranzo di festa?

Né il dipinto di Rembrandt né la parabola da esso illustrata ci dicono se il figlio maggiore abbia finalmente consentito a farsi trovare. E disposto il figlio maggiore a confessare che anche lui è un peccatore bisognoso di perdono? E disposto ad ammettere di non essere migliore del fratello?

Non so rispondere a queste domande. Come non so in che modo il figlio più giovane abbia accettato i festeggiamenti o abbia vissuto con il padre dopo il ritorno, così ignoro se il figlio maggiore si sia mai riconciliato con il fratello, con il padre o con se stesso. Ciò che conosco con certezza incrollabile è il cuore del padre. È un cuore di sconfinata misericordia.

Una questione aperta e chiusa.

A differenza delle fiabe, la parabola non si chiude con una pagina a lieto fine. Ci lascia invece faccia a faccia con una delle scelte spirituali più difficili della vita: fidarsi o non fidarsi dell'amore di Dio che tutto perdona. Soltanto io posso fare questa scelta. In risposta alla protesta degli scribi e dei farisei: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro», Gesù li ha posti a confronto non solo con il ritorno del figlio prodigo, ma anche con lo sdegno del figlio maggiore. Deve essere stato uno shock per queste persone religiose ligie al dovere. Essi alla fine hanno dovuto far i conti con la propria protesta e scegliere come avrebbero risposto all'amore di Dio per i peccatori. Sarebbero stati disposti ad unirsi a tavola con loro come ha fatto Gesù? Quella fu un'autentica sfida e lo è tuttora: per loro, per me, per ogni essere umano tormentato dal risentimento e tentato di rifugiarsi in uno stile di vita contemplativo.

Più rifletto sul figlio maggiore che è in me e più mi rendo conto di quanto sia veramente radicata in profondità questa forma di smarrimento e quanto sia difficile tornare a casa partendo da lì. Tornare a casa da una avventura sessuale sembra molto più facile che tornare a casa da un calcolato sdegno che ha messo le sue radici negli angoli più riposti del mio essere. Il mio risentimento non è un problema che si possa individuare facilmente e trattare razionalmente.

E molto più dannoso: qualcosa strettamente connesso con l'altra faccia della mia virtù. Non è forse bene essere obbediente, ligio al dovere, rispettoso della legge, lavorare duro e sacrificarsi? E tuttavia sembra che i miei risentimenti e le mie lamentele siano misteriosamente legati a questi atteggiamenti lodevoli. Questa connessione spesso mi fa disperare. Proprio nel momento in cui voglio parlare o agire nel modo più generoso possibile, vengo preso dallo segno e dal risentimento. E sembra che proprio quando voglio essere il più altruista possibile, mi ritrovo ossessionato dal bisogno di essere amato. Proprio quando faccio del mio meglio per compiere bene un mio dovere, mi ritrovo a domandarmi perché gli altri non si applicano come faccio io. Proprio quando penso di essere capace di superare le mie tentazioni, provo invidia per coloro che ad esse si abbandonano. Sembra che dovunque sia il mio io virtuoso, là vi sia anche uno che si lamenta risentito.

Qui mi trovo di fronte alla mia più vera povertà. Sono totalmente incapace di estirpare i miei risentimenti. Sono così profondamente abbarbicati al terreno del mio Io più intimo che riuscire a strapparli è come volere la propria autodistruzione. Come sradicare questi risentimenti senza estirpare anche le virtù? Il figlio maggiore che è in me è capace di tornare a casa? Posso essere ritrovato come è stato ritrovato il figlio più giovane? Come posso tornare quando mi sento perso nelle spire del risentimento, quando sono divorato dalla gelosia, quando mi trovo imprigionato nell'obbedienza e nel dovere vissuti come una schiavitù? E chiaro che da solo, da me stesso, non mi posso ritrovare. Mi scoraggia di più guarirmi come figlio maggiore che come figlio minore. Posto di fronte all'impossibilità di un'autoredenzione, ora comprendo le parole di Gesù a Nicodemo: «Non ti meravigliare se t'ho detto: dovete rinascere dall'alto». Deve succedere infatti qualcosa che io stesso non sono in grado di provocare. Non posso rinascere dal basso, cioè con le mie sole forze, con la mia mente, con le mie capacità psicologiche. Non ho dubbi al riguardo, perché ho provato infinite volte nel passato a guarirmi dai miei lamenti e ho fallito... fallito... e fallito, fino a giungere sull'orlo di un totale collasso nervoso e persino di un esaurimento fisico. Posso essere guarito soltanto dall'alto, da dove giunge Dio. Ciò che a me è impossibile è possibile a Dio. «Con Dio tutto è possibile».

Henri. J.M. Nouwen.

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