Eppure bisognava continuare.
Per prevenire ogni nuova opposizione di Antonio, Margherita decise di dividere l'asse patrimoniale con lui. C'era anche un buon motivo, che “copriva” la faccenda poco simpatica
agli occhi degli estranei. Antonio stava per sposarsi: il 21 marzo 1831 avrebbe condotto all'altare la castelnovese Anna Rosso.
I campi vennero divisi, la casa dei Becchi spartita: Antonio diventò proprietario della metà che guarda a levante (con la scaletta di legno che sale al primo piano); nell'altra metà continuarono ad abitare Margherita, Giuseppe e Giovanni.
In dicembre, Giovanni si mette in strada. Va a frequentare le scuole pubbliche di Castelnuovo. Accanto alle elementari, il comune ha aperto un corso di lingua latina articolato in cinque classi. I pochi alunni di ogni classe, però, si radunano in una saletta unica, e hanno un unico professore, don Emanuele Virano.
Il pranzo nel gavettino
I cinque chilometri che separano i Becchi da Castelnuovo, all’inizio, sembrano un ostacolo superabile ai quindici anni gagliardi di Giovanni. Siccome la scuola si divide in due tempi, tre ore e mezza al mattino e tre ore al pomeriggio, il ragazzo parte al mattino con un pezzo di pane in mano, torna per pranzo, si rimette in strada nel pomeriggio e rientra alla sera. Quasi venti chilometri al giorno. Un ritmo pazzesco, che dopo pochi giorni (magari alla prima nevicata) viene prontamente modificato.
Zio Michele gli trova una semi-pensione presso un brav'uomo, Giovanni Roberto, sarto e musicista del paese. Presso di lui Giovanni consuma il pranzo, che si porta dietro ogni giorno nel “gavettino”.
Cinque chilometri al mattino e cinque alla sera, però, non sono una cosa da ridere, specialmente d'inverno. Giovanni cammina con volontà, e quando il sentiero non è un pantano per la pioggia o una pista gelata per la neve, come tutti i contadini si toglie le scarpe e se le butta a tracolla. Pioggia e vento, sole e polvere, sono suoi compagni per molti giorni.
Ma in certe sere di gennaio non se la sente di riprendere la strada tra la bufera, e chiede al signor Roberto di poter dormire nel sottoscala, magari saltando la cena.
Mamma Margherita capisce che per strada, in quell'inverno, suo figlio potrebbe lasciarci la salute, e viene a trattare con il sarto. Per una cifra ragionevole (pagabile anche in cereali e vino) il signor Roberto accetta Giovanni a pensione completa. Gli darà una minestra calda a mezzogiorno e alla sera, e il sottoscala per dormire. Al pane penserà la madre.
Essa stessa l'accompagna a Castelnuovo portando nella borsa le poche suppellettili necessarie a un ragazzotto di quindici anni. Raccomanda al signor Roberto di “dargli un'occhiata e magari una tirata d'orecchie”, e a Giovanni dice: “Sii devoto della Madonna, che ti faccia crescere bene”.
A scuola si trova con bambini di dieci, undici anni. La sua preparazione culturale, fino ad oggi, è stata molto modesta. Se aggiungiamo la giubba sproporzionata e le scarpe rozze, è facile capire come diventi bersaglio di scherzi e canzonature da parte dei compagni. Lo chiamano “il vaccaro dei Becchi”.
Giovanni, che era l'idolo dei ragazzi a Morialdo e a Moncucco, ci soffre. Ma ci dà dentro a studiare più che può, aiutato e benvoluto dal maestro. Don Virano è un uomo capace e gentile. Vedendo la sua buona volontà lo prende da parte, e in poco tempo gli fa compiere rapidi progressi. Quando Giovanni scrive un componimento veramente buono sulla figura biblica di Eleazar, don Virano lo legge in classe, e conclude:
- Chi fa degli svolgimenti così, può anche permettersi di portare delle scarpe da vaccaro. Perché ciò che conta nella vita non sono le scarpe, ma la testa.
Castelnuovo d'Asti sorge su un'altura a una ventina di chilometri da Torino. Sulla cima del colle ci sono dei ruderi di un castello. Proprio sul punto più alto c'è la “chiesa del Castello”, dedicata alla Madonna. Giovanni vi sale parecchie volte, a pregare la Madonna “che lo faccia crescere bene”.
Gli abitanti del paese sono tremila, radunati in seicento famiglie.
Mamma Margherita viene ogni settimana dai Becchi. Porta a Giovanni due pani grossi e rotondi, che dovranno bastargli per tutta la settimana. Glieli porta lei per “vedere da vicino” come vanno le faccende del figlio. Fa bene, perché tra i compagni di scuola di Giovanni ci sono anche delle mezze canaglie, e mettersi su una cattiva strada per uno studente di quell'età è una cosa facile.
Don Bosco racconta: “Quell'anno corsi qualche pericolo per alcuni compagni. Volevano portarmi a giocare ai soldi in tempo di scuola. E siccome dicevo di non aver denaro, mi dicevano: "È tempo che ti svegli. Bisogna imparare a vivere. Ruba al tuo padrone, a tua madre ". Ricordo che risposi: " Mia madre mi vuole molto bene. Non voglio cominciare a darle dei dispiaceri".
La scuola, in quegli anni, ha un'intonazione rigidamente religiosa. La prima mezz'ora del mattino è dedicata sempre al catechismo. All'istruzione cristiana è pure dedicata la lezione serale del sabato, che termina con la recita delle Litanie della Madonna. I maestri devono dare ai loro alunni non solo la possibilità, ma anche Ja comodità di assistere alla Messa ogni giorno, e di confessarsi una volta al mese.
“Ai Becchi crescono solo somari”
In aprile, Giovanni è a buon punto del suo ricupero scolastico, quando si verifica un avvenimento che avrà per lui conseguenze amare. Don Virano è nominato parroco di Mondonio, e deve lasciare la scuola nelle mani di don Nicola Moglia.
Questo prete è pio e caritatevole, ma ha 75 anni. Non riesce assolutamente a dominare le cinque classi che convivono nella sua scuola. Finisce che un giorno fa la sfuriata e mena la bacchetta, e nel resto della settimana tollera la baraonda.
Se la prende con i più grandi, come responsabili del continuo disordine. Dimostra un'antipatia particolare per il più grande di tutti, “il vaccaro dei Becchi”, anche se Giovanni patisce moltissimo di quell'indisciplina collettiva. Non perde occasione per mortificarlo:
- Cosa vuoi capire tu di latino? Ai Becchi crescono solo dei grossi somari. Ottimi somari, se volete, ma sempre somari. Va' per funghi, va' per nidiate: è quello il tuo mestiere, non studiare latino.
I compagni, che per la stima di don Virano avevano cominciato a lasciarlo in pace, si scatenarono nuovamente. Giovanni passò giorni di sconforto.
Ma una volta volle prendersi la rivincita.
Don Moglia aveva assegnato un compito in classe di latino. Giovanni, che doveva fare la traduzione con quelli di prima, chiese al maestro di permettergli di tentare il lavoro di terza. Si offese:
- Cosa credi di essere? Torna subito al tuo compito, e cerca di non essere il solito somaro.
Ma Giovanni insistette, e don Moglia finì per cedere:
- Fai un po' ciò che ti pare. Ma non credere che poi legga le tue asinate.
Il ragazzo mandò giù l'amaro e attaccò la traduzione. Era difficilina, ma si sentiva di farcela. Consegnò tra i primi. Il maestro prese la pagina e la mise in disparte.
- La prego. Legga e mi dica gli errori che ho fatto.
- Vai al tuo posto e non seccarmi.
Giovanni, gentile e testardo, non mollò:
- Non le chiedo un grosso sacrificio, solo di leggerla.
Don Moglia lesse. La traduzione era buona, molto buona, tanto che gli fece perdere nuovamente la pazienza:
- L'ho detto che sei un buono a nulla. Questo lavoro l'hai copiato dalla a alla zeta.
- E da chi l'avrei copiato? I suoi vicini stavano ancora mordendo la penna in cerca delle ultime frasi.
- Questa è un'impertinenza! - sbottò il prete -. Fila al tuo posto, e ringrazia se non ti caccio di scuola.
L'arteriosclerosi era micidiale anche a quei tempi, e pure i pregiudizi.
Gli ultimi mesi di quell'anno scolastico furono per Giovanni di avvilimento. Nelle sue Memorie, don Bosco non fa il nome di don Moglia. Aveva rispetto per i vecchi. Accenna solo a “uno che, incapace di tenere la disciplina, mandò quasi al vento quanto nei precedenti mesi avevo imparato”.
La veste nera che “taglia fuori”.
Un'altra spina faceva soffrire Giovanni in quei mesi. Aveva conosciuto due preti splendidi, don Calosso e don Virano. Non gli andava giù che tutti gli altri fossero diversi: “Mi capitava - scrive - di incontrare il mio curato sulla strada, accompagnato dal cappellano. Li salutavo da lontano; arrivato alla loro altezza, mi inchinavo dinanzi alla loro veste; ma essi tenevano le distanze e si contentavano di rendermi garbatamente il saluto senza interrompere la loro passeggiata”.
Quella veste nera pareva “tagliarli fuori” dagli altri. Nei seminari, a quei tempi, si insegnava che quello era il contegno più adatto alle “persone di Chiesa”. Riserbo e gravità. Distacco.
“Io ne provavo un gran dispiacere. E dicevo ai miei amici: " Se mai diventerò prete, farò tutto il contrario. Accosterò i ragazzi, e dirò loro buone parole e buoni consigli".
Non può immaginare, Giovanni, che questa sua decisione opererà nei prossimi 80 anni una rivoluzione silenziosa tra i preti. Nei seminari si accorgeranno che quel ragazzino aveva ragione, e educheranno le nuove leve dei preti non più alla gravità che “tiene le distanze”, ma alla bontà sorridente che le abolisce.
A Morialdo, Giovanni passava il tempo libero dagli studi in serene chiacchierate con don Calosso. Il vecchio prete ricordava il suo passato, il ragazzo fantasticava sul proprio avvenire. Poi andava a spazzare la chiesa, a rimettere ordine in cucina, a rovistare curioso nella piccola biblioteca.
Qui a Castelnuovo, i preti non volevano parlare con lui. Come occupare il tempo libero? Il suo primo hobby fu la musica. Il signor Roberto era il capo- cantore della parrocchia, e aveva in casa una spinetta. Giovanni lo accompagnò parecchie volte in cantoria, e con il suo aiuto si esercitò sulla tastiera della spinetta e poi su quella dell'organo.
Ma Roberto era prima di tutto il sarto del paese, e il secondo hobby di Giovanni fu di sedergli accanto e imparare ad attaccare bottoni, fare orli, cucire fazzoletti, tagliare gilè. Ci riuscì così bene che il signor Roberto gli propose di piantare lì la scuola e di diventare suo aiutante.
In aprile don Moglia cominciò a prenderlo di punta, e la baraonda della scuola lo persuase che stava perdendo il tempo. D'intesa con la madre, andò a lavorare per qualche ora al giorno da Evasio Savio, fabbro ferraio. Imparò così a maneggiare il martello e la lima, e a lavorare alla forgia.
Giovanni Bosco non pensava certo che quei mestieri gli sarebbero un giorno serviti per aprire laboratori al servizio dei ragazzi poveri della periferia torinese. In quel momento, l'unica sua preoccupazione era mettere da parte qualche soldo. Presto ne avrebbe avuto seriamente bisogno. Insieme a mamma Margherita aveva deciso di tentare, nell'anno seguente, un passo rischioso ma decisivo: le scuole di Chieri.
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