Cosa sta facendo il papa? Cosa possiamo imparare da lui, dai suoi gesti e dalla sue parole?
del 17 maggio 2017
Cosa sta facendo il papa? Cosa possiamo imparare da lui, dai suoi gesti e dalla sue parole?
Fin dal giorno della sua elezione, il 13 marzo 2013, papa Francesco è andato conquistandosi la fiducia della gente, attirando l’attenzione anche di coloro che nel mondo hanno responsabilità riguardo ai problemi della povertà, dell’immigrazione, o degli esclusi. Francesco ha recuperato l’autorità degli anni migliori di Giovanni Paolo II – quando difendeva la libertà di fronte al comunismo – e di Benedetto XVI – quando separava la religione dalla violenza -. Ha restituito a molti il sano orgoglio di sentirsi cattolici e sta attraendo persone fino ad ora lontane dalla Chiesa. Un fenomeno che alcuni hanno chiamato “effetto Francesco”, e che si manifesta in un cambiamento favorevole della opinione pubblica.
Si tratta di un effetto che ha una duplice causa: l’influenza del papa forse non sarebbe stata possibile senza la rinuncia di Benedetto, un atto di umiltà di grandezza enorme. Nel febbraio 2013, quando avvenne la sua rinuncia, la Chiesa fronteggiava da anni gravi problemi, soprattutto per la crisi legata alla pedofilia, devastante per i danni personali, per cui un solo caso è troppo. Ma c’è stata anche un’altra conseguenza: ha tolto credibilità alla Chiesa, poiché alcuni hanno pensato: la Chiesa non pratica quello che predica, non mi interessa quello che dice.
Nel tempo trascorso dalla sua elezione, l’ambiente è cambiato. È stata svoltata una pagina e si guarda alla Chiesa come a un punto di riferimento. Oltre all’assistenza dello Spirito Santo, come è avvenuto questo cambiamento? Cosa sta facendo il papa? Cosa possiamo imparare da lui nel momento di comunicare la fede? Dai suoi gesti e dalla sue parole si possono proporre sette lezioni di comunicazione.
È una delle espressioni più ripetute da papa Francesco fin dai primi giorni. È solito dire che preferisce “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze” (Evangelii Gaudium, 49) o una Chiesa che rimane ad aspettare che i fedeli vadano da lei. Oggi non si tratta, come nella parabola evangelica, di andare a cercare la pecora smarrita mentre le altre 99 aspettano nell’ovile. Dice il papa: “Noi ne abbiamo una, sono le 99 che ci mancano! Dobbiamo uscire, dobbiamo andare a cercarle” (Catechesi del 17 giugno 2013).
Per Francesco la Chiesa non è un magazzino dove si offre un prodotto che il pubblico viene a prendere, ma un insieme di persone che va incontro agli altri con una buona notizia da comunicare. Il papa propone una nuova cultura dell’incontro. Le istituzioni cattoliche e ciascuno dei credenti devono essere persone in uscita, che non si chiudono nelle loro credenze e convinzioni, che non si circondano solo di chi la pensa allo stesso modo, ma che vanno incontro, si espongono alle intemperie.
Giovanni Paolo II diceva che la fede matura quando si comunica. Nello stesso modo, i cattolici maturano quando si sottopongono al confronto del dialogo con coloro che non hanno ricevuto il dono della fede. Questo gli educatori lo sanno molto bene: si è veramente imparato qualche cosa quando si è capaci di spiegarlo.
L’uscita che Francesco desidera per la Chiesa ha come meta preferenziale le periferie. Cioè il papa propone un’uscita senza limitazioni, che arrivi alle persone più lontane, quelle che apparentemente possono capire meno il messaggio. Conferma così uno dei tratti caratteristici della Chiesa: l’universalità. Rodney Stark diceva che nel corso della storia la Chiesa ha mantenuto la sua capacità di evangelizzare quando ha conservato la sua capacità di entrare in relazione con estranei: barbari, pagani, atei. Nello stesso modo, ha perso questa capacità quando si è rinchiusa in ghetti.
Questo atteggiamento di uscita ha molto a che fare con la comunicazione. Chi vuole comunicare non si comporta passivamente, in modo difensivo o di reazione. Prende l’iniziativa, si fa conoscere, espone il suo discorso. La Chiesa in uscita è una Chiesa disposta a comunicare.
Cercando i motivi per cui si parla della Chiesa nei mezzi di comunicazione negli ultimi decenni, troveremmo alcune questioni ricorrenti come l’omosessualità, i preservativi, la comunione ai divorziati, l’ordinazione delle donne, il celibato sacerdotale … e simili altre cose. Temi che hanno fatto sì che la Chiesa sia soprattutto un argomento di dibattito o di polemica. Potremmo dire che spesso l’annuncio della fede è stato influenzato da discussioni in cui spesso si mescolano questioni religiose, ideologiche, e anche politiche. Molte volte, inoltre, il tono di queste discussioni è negativo, difensivo o riduttivo.
Paradossalmente, gli argomenti menzionati, per quanto importanti, non fanno parte degli articoli del Credo, né sono nominati tra le beatitudini. Detto in altre parole, non sono comuni le conversioni al cattolicesimo per quello che la Chiesa dice dei preservativi o del celibato.
Si capisce perché Francesco, nella Evangelii Gaudium, abbia ricordato che l’annuncio cristiano deve concentrarsi su “l’essenziale, che è la cosa più bella, più grande, più attraente, e, nello stesso tempo, la più necessaria”. Facendo un nome: Gesù Cristo, nostro Salvatore. Non si comincia a essere cristiani per una grande idea, né come conseguenza di una discussione. Benedetto XVI ricordava spesso che i cattolici non seguono una dottrina, né una morale, ma Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, l’amore della loro vita, che li redime, li libera, e li rende felici. A partire da Cristo, un po’ alla volta, si arriva a comprendere il dogma e a vivere la morale, però in quest’ordine, dal più al meno, in modo positivo, con pazienza.
Questo probabilmente si può applicare ai cattolici comuni: nelle conversazioni sulla fede, possiamo chiederci quanto tempo occupano gli aspetti polemici e quanto i temi essenziali. È necessario mostrare la bellezza e l’attrattiva dell’essenziale. Aspirare a che si verifichi una prima conversione, anche se restino molte cose da chiarire. Questo è l’unico modo per passare da un atteggiamento di resistenza a un atteggiamento di influenza. Nel campo della comunicazione, questo principio di tornare all’essenziale e lasciar perdere le discussioni equivale a mettere a fuoco la presentazione del messaggio, e anche a recuperare la serenità nel tono delle conversazioni. Come ha detto Austen Ivereigh: nelle discussioni su questi argomenti c’è bisogno di più luce e di meno calore (more light, less heat).
Tra i temi fondamentali a cui è essenziale tornare, Francesco ricorda più volte la priorità dell’attenzione ai più bisognosi, ai quali Cristo si rivolge in modo speciale, e che bisogna aiutare anche materialmente. Ha messo sotto i riflettori una priorità che è evangelica. È un modo radicale di smettere di discutere di temi secondari e dedicarsi fattivamente a quello di cui Gesù Cristo ha incaricato i suoi discepoli.
Si è detto prima che i problemi di pedofilia hanno danneggiato gravemente la credibilità della Chiesa. Di conseguenza, per ottenere che la proposta cristiana sia accettata, è necessario recuperare la credibilità, che è condizione della comunicazione: se non si crede a chi comunica, non si crede nemmeno a quello che dice, qualunque cosa dica. L’insistenza di Francesco verso i più bisognosi può essere un buon modo di ristabilire la credibilità. Nel dedicarsi ai poveri, i cattolici dimostrano rettitudine, disinteresse, generosità. Esiste una relazione tra la purezza e la povertà.
Il mandato evangelico è sufficiente per stabilire questa priorità, non c’è bisogno di altri motivi. È una cosa buona di per sé. È una cosa buona per le persone che vengono aiutate. Ma la preoccupazione per i più bisognosi ha molteplici effetti positivi, anche per quanti promuovono questa attenzione. Come ha scritto Stefan Zweig “la visione del dolore altrui risveglia uno sguardo più penetrante e saggio”.
Chi pratica la misericordia diventa misericordioso. Con questa insistenza sui più bisognosi, Francesco sta facendo sì che noi cattolici diventiamo più misericordiosi. Paolo VI, in un famoso discorso dopo il Concilio Vaticano II, diceva che vedeva la Chiesa come “servitrice del mondo”. Non come giudice o polizia del mondo. Servitrice, mestiere con una grande forza evocativa. Forse dobbiamo approfondire questa autoconsapevolezza.
Insomma, con questo orientamento verso i poveri, Francesco promuove azioni che sono buone in se stesse, aiuta i cattolici a recuperare credibilità nella loro comunicazione e a convertire il loro cuore.
Il papa ha stabilito una nuova lista di priorità. E sta impiegando uno stile e un linguaggio differenti. Sono molte le espressioni che Francesco ha usato e che hanno spezzato degli schemi: per esempio si è riferito alle “15 malattie” della Curia romana; ha spronato i politici europei a evitare che “il Mediterraneo si trasformi nel cimitero dell’Europa”; in Messico ha inventato la “affettoterapia”.
Il papa è solito rivolgersi una volta all’anno a tutta la Curia, per fare gli auguri per il Natale e il nuovo anno. Nel messaggio del 2014 raccomandava l’autoironia e il buon umore. E consigliava di pregare una orazione di san Tommaso Moro: «Dammi, o Signore, una buona digestione e anche qualcosa da digerire; dammi la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Dammi un’anima che non conosca la noia, i sospiri e i lamenti. Non permettere che mi preoccupi troppo per quella cosa così invadente che si chiama “io”» .
Benedetto XVI era solito dire che il vocabolario cristiano è pieno di parole di grande profondità, di grande valore storico, che sono passate nel linguaggio comune, ma il cui vero significato è ignoto a molte persone. Si riferiva al termine “tabernacolo”, ma possiamo dire lo stesso di calvario, trinità, eucaristia. I cattolici le usano, ma pochi le capiscono. Si è verificata una grande perdita di memoria collettiva.
Molte persone conoscono vagamente queste parole e credono di conoscerne davvero il significato. Cioè, molti non sanno di non sapere, non c’è domanda. Per questo, Benedetto XVI concludeva che la nostra missione è quella di “creare una nuova curiosità”, provocare la domanda. E questo comporta una grande trasparenza di linguaggio. Nel parlare dell’esperienza cristiana dobbiamo cercare parole semplici e chiare; conviene che usiamo parole nostre, che parliamo dal cuore, senza limitarci a ripetere quello che altri hanno pensato. Dobbiamo abbandonare i luoghi comuni. Questo linguaggio semplice nasce quando si verificano determinate disposizioni personali: trasparenza, semplicità, sincerità, umiltà, che si esprimono anche attraverso le parole.
Prima parlavamo di tornare all’essenziale dell’annuncio. Adesso bisognerebbe aggiungere: tornare all’essenziale nei comportamenti. Atteggiamenti cristiani fondamentali, che a volte sembrano addormentati in un sonno magico, per il disuso. Linguaggio chiaro, gesti semplici, sono condizioni di ogni buona comunicazione, anche della comunicazione della fede.
Il papa vincola l’azione evangelizzatrice ai problemi della Chiesa e del mondo: gli immigranti, le guerre, il conflitto palestinese, la crisi ecologica, i cristiani perseguitati, la situazione di Cuba. Questi riferimenti ci ricordano che non conviene vedere la comunicazione della fede solo dal punto di vista individuale, soggettivo, né vedere l’esperienza cristiana solo nello sforzo di superamento personale.
Un atteggiamento soggettivista può portarci al volontarismo, può farci diventare autoreferenziali. E alla fine ci può stancare, perché i nostri difetti sono stancanti. Il papa invita a vedere le cose dal punto di vista di Dio misericordioso, che è colui che anticipa, che fa il primo passo, che converte i cuori. E anche dal punto di vista dell’altro. Soprattutto dal punto di vista della persona che ha bisogno del nostro aiuto, materiale o spirituale, che è la cosa che motiva di più, quello che smuove la comodità, la pigrizia, i rispetti umani.
È molto più motivante lo sforzo per costruire un mondo migliore, che lo sforzo per diventare una persona migliore. Vedere la comunicazione dalla parte dell’altro ha altre conseguenze. Se si vuole proporre a qualcuno di diventare un cristiano in uscita, bisogna contagiargli l’entusiasmo per il progetto, per la missione appassionante della Chiesa. E si entusiasmerà per i fini, non per i mezzi; per la meta, non per lo sforzo.
Questa idea è stata espressa in molti modi. Ricordiamo la metafora del dito e della luna: quando qualcuno indica la luna, possiamo guardare verso il cielo, o possiamo fissare il dito. Nella stessa linea si colloca una metafora di Saint Exupery. Diceva: se vuoi che un giovane diventi un grande navigatore, non devi insegnargli la tecnica per costruire navi, ma contagiargli l’amore per il mare. Si usa dire che la comunicazione non è quello che viene detto, ma quello che viene capito. Che la comunicazione deve trasmettere qualcosa di importante per colui che ascolta, non per colui che parla. Questo avviene quando si vede la comunicazione dalla parte della missione, come ci incoraggia a fare Francesco.
Si è detto che il papa usa un linguaggio diverso. Però prima di tutto vediamo che prende decisioni e le mette in pratica. Francesco prima fa e poi dice. Lo vediamo usare una macchina poco appariscente, abbracciare un malato di aspetto ripugnante, portare la sua valigetta sull’aereo; si ascoltano le sue parole, si vedono i suoi comportamenti, e si constata che coincidono.
C’è un famoso libro di comunicazione che si intitola: “Tu sei il messaggio”. E un autore afferma: quello che fai grida talmente, che non riesco ad ascoltare quello che dici. In altre parole: la coerenza tra l’essere, il fare e il parlare è un requisito essenziale nella comunicazione. Per questo chi vuole comunicare la fede deve essere, lui stesso, più amabile, socievole, dialogante, misericordioso o servizievole. Così dovrebbero essere conosciuti nel mondo i cristiani: come quelli che meglio sanno ascoltare, comprendere, conversare.
Questa idea ha un’altra applicazione: il miglior modo di trasmettere l’esperienza cristiana è condividerla, incoraggiare le persone a viverla. Confucio, in una espressione di saggezza antica, afferma: «L’ho sentito e l’ho dimenticato, l’ho visto e l’ho capito, lo ho vissuto e l’ho imparato».
Coerenza anche nel tempo. Ci sono persone che, con il passare degli anni, vanno guastandosi nel loro modo di vivere la fede: vanno raffreddandosi, disilludendosi, perdendo forza e gioia. E gli altri vedono e si fanno domande. Recentemente ho trovato delle parole che hanno attirato la mia attenzione: «Bisogna dedicare la vecchiaia a pregare, a sorridere, a dare gloria a Dio, a dare gioia agli altri, mantenendo la capacità di meravigliarsi e conservando la gioia di vivere». Sono idee che possono applicarsi alla vecchiaia, alla maturità e alla gioventù, a tutte le tappe della vita.
Vissuta in questo modo, la vocazione cristiana trasforma il passare del tempo non in un progressivo decadimento, ma in un cammino verso la pienezza. Quanti più anni passano, tanto più si è vicini a questa pienezza. Più il corpo si deteriora, più lo spirito matura. Questo si può applicare al corso della vita personale – decenni – e alla storia della Chiesa – secoli -. Da quanto più tempo è la Chiesa in un luogo, tanti più frutti reca. Questa coerenza nel tempo, questa maturità, questa pienezza, è quello che attrae, quello che comunica davvero.
Così il papa ha intitolato il suo documento programmatico: la gioia del Vangelo. In questo documento invita i cattolici a «una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia». I cristiani trasmettono il Vangelo « non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia», afferma al numero 14 di questo documento.
Queste parole ricordano una frase di Madre Teresa di Calcutta: «Forse non ci troveremo nella condizione di dare molto, ma sempre possiamo comunicare la gioia di un cuore che ama Dio». San Josemaría Escrivá raccontava che, nei primi tempi dell’Opus Dei, la gente diceva che i giovani che si avvicinavano a lui avevano fatto voto di allegria: così contenti li si vedeva.
Uno dei miei libri favoriti si intitola “Perché la gioia”. Vi si riportano delle famose e amare parole di Nietzsche: «(I cristiani) dovrebbero apparire più salvati, perché io possa credere nel loro Salvatore». Sono amare, ma è un altro modo per affermare quello che abbiamo detto in positivo.
Qualcuno ha detto che il cristianesimo si contagia per invidia. Le persone che si avvicinano alla Chiesa, vedendo la gioia dei cattolici, devono sentirsi toccati fino a dire: “voglio essere parte di questo”. Si tratta di una chiave molto importante di comunicazione della fede. I cattolici sperimentano Dio, toccano Dio, confidano in Dio e da questo nasce la gioia. Non sono ottimisti per via delle statistiche, per le loro personali virtù, né per le condizioni del mondo. La gioia nasce dalla consapevolezza di far parte di qualcosa più grande di loro.
Insomma, in accordo con queste lezioni di papa Francesco, come dovrebbe essere la Chiesa? Una comunità accogliente e gioiosa, che celebra la sua fede, che vive con austerità, che pratica la carità, che si preoccupa dei bisognosi, che ha un progetto appassionante, una visione positiva dell’uomo e del mondo che nasce dalla fede e dalla speranza.
Juan Manuel Mora, traduzione di Gigliola Puppi
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