La perfezione consiste per ognuno in questo: fare la volontà di Dio su di lui...
del 01 gennaio 2002
Finora la vocazione è stata illuminata soprattutto a partire dall'atteggiamento di colui che è chiamato. Ma, secondo il primo inizio di questa nostra ricerca, la vocazione dipende essenzialmente dalla libertà di colui che chiami.
Questa libertà, che, messa in risalto nel tardo medioevo, domina completamente l'immagine di Cristo in Ignazio, ci libera dalla problematica della dottrina medioevale della perfezione: la vita secondo i consigli è più perfetta della vita secondo i semplici comandamenti; chi perciò vuole essere perfetto dovrebbe scegliere quella. Ma è Cristo che chiama chi vuole e come vuole.
Se il giovane ricco sia venuto dal Signore per vocazione o per curiosità non è certo: il Signore gli permette il cammino, di più non è possibile dire. Altri che pregarono Gesù di essere accolti nella cerchia dei discepoli egli li respinse collocandoli chiaramente nello “stato secolare” come quello voluto da Dio per loro (Lc. 8, 38-39). La perfezione consiste per ognuno in questo: fare la volontà di Dio su di lui. Questo non impedisce che Matteo (20, 16; 22, 14) veda il numero dei chiamati molto più grande del numero di coloro che realmente abbracciano la loro propria chiamata.
Nella riflessione che una fede può spingersi e purificarsi fino alla piena disponibilità per l'eventuale chiamata di Dio, senza che Dio venga con questo costretto a chiamarlo nel senso originario, sta l'accesso all'idea che l'amore cristiano perfetto è la misura di ogni perfezione cristiana.
Soltanto qui si trova questo accesso poiché altrove è quasi (o del tutto) inevitabile l'illusione che l'uomo sappia, a partire da sé stesso, ciò che sia amore e come debba essere vissuto, mentre in verità la possibilità di sentire l'amore divino sorge nell'uomo soltanto là dove egli sta nella piena disponibilità davanti a Dio a lasciarsi condurre con Cristo - per amore - sulla via della perfetta rinuncia e, finalmente, della croce; sulla via della rinuncia non all'amore (ad esempio nel matrimonio) ma ad ogni segreta ricerca dell'Io nell'eros e in tutta la comunità familiare.
A motivo di questo punto di vista (che “l'amore è il vincolo della perfezione”) voler introdurre l'espressione di una “vocazione cristiana al matrimonio” significherebbe non soltanto allontanarsi dall'uso linguistico della Sacra Scrittura ma anche dalla sua concezione teologica generale di vocazione. La teologia della vocazione possiede nella Scrittura una figura precisa, chiaramente delineata che, da tali livellamenti, verrebbe privata di tutta la sua forza interna e dell'efficacia esistenziale.
Il vero accordo non sta nel livellamento ma sta nell’idea che vocazione dice sempre espropriazione a vantaggio degli altri, che dunque, esprimendolo col Nuovo Testamento, il “più grande tra voi” deve essere e realmente è, in quanto servo di tutti, il più piccolo. E come il Signore stesso, così parla Paolo quando come apostolo si sa all'ultimo posto e da li, non senza amara ironia, richiama l'attenzione dei Corinti sulla dialettica ecclesiale: “noi deboli, voi forti; voi- onorati,- noi - disprezzati” (I Cor 4, 10).
Questa dialettica è del tutto irrisolvibile poiché Cristo è obbediente e povero fino alla morte affinché noi diventiamo liberi e ricchi in Dio; e per colui che è chiamato alla sequela della croce è indifferente il modo secondo cui viene mondanamente classificato (I Cor. 4, 3): egli è uno che insieme a Cristo discende nella povertà e nel disprezzo e può vedere in questo un vantaggio per il fatto che Cristo ha percorso questo cammino.
Non bisognerebbe mai dimenticare a questo punto che quella verginità, che per noi (a motivo di Maria) appare ornata da una corona di gloria, è in verità un segno di debolezza, di inutilità e di disonore, e ciò risulta chiaro se partiamo dal Vecchio Testamento. Che la sterile (o la abbandonata) partorisca é un segno della potenza di Dio nell'impotenza dell'uomo.
Tanto più l'uomo vergine, che al di fuori della Chiesa incontra spesso disprezzo e sospetto, non può ignorare questo punto di vista. La dialettica resta mondanamente irrisolvibile e rimanda, proprio per questo, al suo fondamento nella Rivelazione.
Hans Urs von Balthasar
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