Lo sbilanciamento sul fronte psicologico ci sembra sempre molto presente, soprattutto per una certa “dimenticanza” (almeno così ci sembra) nei confronti di una realtà che contrassegna la nostra identità di discepoli del Signore all'interno della Chiesa: il peccato originale. Una realtà questa con cui non possiamo non fare i conti; e una realtà che, diciamocelo francamente, rende tanti suggerimenti “psicologici” un po' ingenui, poco aderenti alla realtà. Autoaccetarsi anche come peccatori è cosa drammatica; cambiare noi stessi, consci del peso del nostro egoismo, è impresa non da poco (senza dimenticarci della Grazia). Quindi beccatevi queste paginette del buon Romano Guardini, pensatore tedesco (anche se nato da genitori italiani) morto nel 1968, ma per tanti versi ancora attuale, proprio sul tema della accettazione.
del 01 gennaio 2002
 
 
 
 
Accettazionetratto da Romano Guardini, Virt√π, Morcelliana, pp. 33-44
 
        Se qualcuno mi domandasse: Io vorrei avanzare nella vita morale; dove devo cominciare?, risponderei: Dove vuoi. Puoi cominciare da un difetto di cui ti sei reso consapevole della vita professionale. Puoi iniziare dalle esigenze della vita sociale, della famiglia, dell’amicizia, là dove hai osservato una tua lacuna. Oppure hai capito il punto debole d’una tua passione, e puoi cercare di venirne a capo. In fondo ciò che importa è soltanto che tu sia leale e che in qualsiasi punto ti metta all’opera con decisione: allora una cosa tira l’altra. Perché la vita dell’uomo è un tutto; se egli incomincia decisamente da una parte, la sua coscienza si desta e la sua energia morale si rafforza anche verso le altre parti, allo stesso modo che un difetto in un punto dell’esistenza incide in ogni suo punto.
        Ma se colui volesse ulteriormente domandare: Che cosa costituisce la premessa di ogni proposito morale veramente efficace, per rettificare storture, fortificare fragilità, riequilibrare eccessi?, allora gli si dovrebbe rispondere, io credo: E’ l’accettazione di ciò che è; l’accettazione della realtà; della realtà tua, delle persone che ti stanno intorno, del tempo in cui tu vivi.
        Tutto ciò suona forse teorico, ma è non  soltanto giusto, bensì degno della viva attenzione d’ogni spirito lealmente impegnato; giacché non è affatto ovvio che noi accettiamo ciò che è anche intimamente con prontezza di cuore.
        Ora si potrebbe un’altra volta obiettare e dire: Ma questo è un modo artificioso di pensare. Ciò che è è, sia che lo si “accetti” o no. A prescindere pure dal fatto che un atteggiamento simile è comodo e rende passivi. Vogliamo allora anzitutto mettere in chiaro che qui non si tratta di un passivo e debole subire tutto, ma si tratta di vedere la verità e di disporsi a suo riguardo, risoluti naturalmente alla fatica e, se necessario, alla lotta per essa.
        Tutto ciò è anzitutto veramente umano. Un animale è immediatamente identico a se stesso. Diciamo più esattamente: per un animale non esistono domande. E’ come è, inserito e risolto nel proprio ambiente. Di qui l’impressione di “naturalezza” che l’animale ci fa: esso è tutto quanto come deve essere in rapporto alla sua essenza e alle condizioni ambientali.
        Con l’uomo le cose non stanno così. Egli non si risolve in ciò che è e in ciò che esiste riferito a lui. Egli può porsi in distanza da se stesso e riflettere su se stesso; può giudicarsi; può desiderarsi al di là di ciò che vorrebbe o dovrebbe essere. Può persino fantasticare di sè realtà o ideali impossibili. Nasce così una tensione fra l’essere e il desiderio, la quale può diventare un principio della crescita, purché l’individuo in questione abbia davanti a sè una immagine di sé atta ad essere assunta in ciò che egli realmente è. Ma da questa tensione può generarsi una frattura negativa; una fuga dalla propria realtà; una esistenza fantasma che sorvola sulle possibilità date, come pure sui pericoli incombenti.
        Questo si voleva intendere quando si diceva che ogni serio ed efficace proposito morale doveva cominciare con l’accettazione dell’esistenza come essa è.
        Cerchiamo di capire il significato di tale accettazione con una più precisa consapevolezza dei contenuti di essa.
        Tali contenuti sono io anzitutto a costituirli. Giacché io non sono un uomo in genere, ma quest’uomo determinato. Ho questo carattere e nessun altro: questo temperamento fra tanti; queste energie, debolezze, possibilità, limiti. Ecco quanto io devo accettare ed ecco ciò su cui io mi devo porre come sulla base prima della mia vita.
        Tutto ciò, ripetiamo, non è affatto ovvio, esiste anche appunto - il che getta una acuta luce sulla finitezza del nostro essere - la nausea di noi stessi, la protesta contro se stessi. Dobbiamo un’altra volta pensare che l’uomo non è come l’animale tutto concluso in se stesso, ma può librarsi sopra di sé. Egli può farsi delle idee su come gli piacerebbe essere, e quanti ce ne sono che vivono come avvolti dentro aloni di sogno invece che nella coscienza della propria realtà. Conosciamo anche quell’attività strana per mezzo della quale l’uomo cerca di sgusciar via da ciò che egli è: il travestimento, la maschera, il gioco. Non parla forse di tutto ciò il desiderio, vano ma di continuo ritornante, d’essere altri da quello che realmente si è? Insorge così l’imperativo, rigoroso ma arduo da eseguire, di voler anche realmente essere quello che si è, convinti che là dietro sta non una sorda necessità di natura
 e non una maligna contingenza, ma una indicazione che viene da un’eterna sapienza.
Si vuol dire con questo che io devo accettare non solo le forze che possiedo, ma anche le debolezze; non solo le possibilità, ma anche i limiti. Giacché così stanno le cose con la nostra strana natura umana: che quanto ci porta e ci innalza anche ci opprime; che quanto ci garantisce anche ci minaccia. A ogni struttura d’essere appartiene il positivo, ma anche il negativo, e non è possibile evadere da tale situazione.
        E’ una grande saggezza che noi conquistiamo imparando tutto ciò: che non si può evadere dai dati fondamentali dell’essere ma che dobbiamo accettare la situazione in tutto il suo complesso. Questo non significa che si debba prender per buono tutto e tutto lasciare come sta, assolutamente no. Io posso e devo lavorare, plasmare e migliorare me stesso e il mio carattere, ma anzitutto dire sì a ciò che è, altrimenti tutto si falsifica.
        A chi ha il dono d’una intelligenza attiva e precisa, d’un occhio pratico, d’una mano decisa è interdetta una fantasia creatrice e la bellezza del sogno, che appartengono  invece all’attitudine artistica. A questa invece sono assegnate, come contropartita dei suoi propri doni, le ore oscure del vuoto interiore e della desolazione, e una difficoltà di adeguamento al mondo reale e ai suoi calcoli. Chi ha sentimento profondo per sentire la felicità della vita deve affrontare anche la sua infelicità. Nessuno può pretendere di tenere per sé l’una e di buttare via l’altra cosa, ma deve, se vuole essere fedele alla realtà, dire sì al quadro totale della propria esistenza. Chi ha un carattere freddo e perciò corazzato contro i dispiaceri non sa però nulla delle grandi estasi ed ebbrezze della vita.
        Ciò non significa, un’altra volta, che si debba dire buono quello che buono non è. Il brutto è brutto, il cattivo è cattivo e l’odioso deve essere chiamato odioso. Ma ogni sforzo che voglia sviluppare il buono e vincere il cattivo si fonda anzitutto sulla presupposizione che si deve prima riconoscere ciò che è. Quanti sono quelli che si fabbricano un fantasma di se stessi e si ingannano passando sopra a cose che pure in essi esistono! Vanno in furia quando si richiama la loro attenzione verso un loro difetto e fanno grandi meraviglie quando qualcosa a loro non riesce. Il principio d’ogni proposito e conquista morale sta nel riconoscere ciò che è; anche gli errori e i difetti. Soltanto se io decido lealmente di portare il peso dei miei difetti, giungo alla serietà e solo in un secondo tempo può allora cominciare il lavoro per un superamento.
        Bisogna anche accettare la situazione esistenziale come ci è stata assegnata. Si possono certamente cambiare e migliorare molte cose e si può rendere questa situazione più conforme ai nostri desideri; e tanto più quanto più risoluti sono questi desideri e più la mano ce li vuole realizzare. Ma in fondo a tutto rimane l’impostazione, quel primo gradino che si è fissato fin dai miei primi anni e che determina tutto il seguito dell’esistenza. Gli psicologi dicono che già con il terzo o quarto anno sono date le determinazioni fondamentali d’un bambino. Esse passano tutte nella vita successiva, unitamente agli influssi che le persone dell’ambiente, il gruppo sociale, la città o la campagna hanno esercitati su di lui.
        Anche l’epoca storica in cui vivo è penetrata in me e di continuo vi penetra; gli avvenimenti, le situazioni, le possibilità e le limitazioni sue. Tutto questo io devo per prima cosa accettare se voglio accingermi a cambiarvi qualche cosa. Quanto ciò sia essenziale lo si percepisce dagli atteggiamenti di coloro che non lo fanno e che invece cercano di evadere dal proprio tempo: nel passato, come i romantici che trovano il presente sempre spoglio di attrattive e bello solo ciò che è stato; oppure nel futuro, come gli utopisti che vivono solo in ciò che sarà e gli danno di continuo la caccia. E’ sempre l’accettazione del reale che fonda la lealtà dell’esistenza.
        Un passo più avanti e siamo all’accettazione del destino. Il “destino” non è il caso; implica una consequenzialità, definita anzitutto esteriormente da concatenazioni di eventi, ma anche interiormente dalla natura della persona in questione.
        Nella vita d’un uomo mediocremente dotato non si verificano né i trionfi, né le catastrofi che toccano l’uomo geniale. A un carattere amministrativo e organizzativo non succedono gli smarrimenti che colgono invece l’artista, allo stesso modo che costui non esperimenta nella vittoria e nella sconfitta ciò che vi sperimenta chi è nato per la conquista e l’esercizio del potere. La natura propria d’un uomo è, in tal modo, come un setaccio che lascia scorrere certe esperienze e ne ferma altre.
        Le disgrazie stesse che ci colpiscono - per esempio un fulmine che ci cade sulla casa - sono diverse se colui a cui la casa appartiene perde il proprio controllo e viene coinvolto nella rovina o se invece è capace di autodisciplina e di resistenza. Si può così in qualche modo dire che a ciascuno è stato assegnato per mezzo del suo carattere un abbozzo del suo destino. Non è una necessità fissa; vi contraddice il fatto della libertà, la quale di continuo partecipa, nel piccolo e nel grande, alla elaborazione d’una vicenda umana, ma è una direzione, un carattere radicale, spesso una verosimiglianza di un certo processo. Ma un’altra volta ciò che importa è che l’uomo accetti il suo destino, per poi tanto più decisamente impegnarsi a guidarlo e a plasmarlo.
        La vita dell’uomo moderno è dominata da una concezione che è il controgioco dell’angoscia sempre latente nei suoi nervi: dall’idea di potersi garantire contro i pericoli crescenti. E’ possibile realmente far molto in questo senso. E’ possibile, per fare solo un esempio, calcolare quanto sia grande in una certa professione la probabilità di una vita lunga, e quanto grande in un’altra la probabilità d’una disgrazia; e con tanto maggiore precisione in quanto possiamo disporre di macchine le quali eseguono il lavoro che prima non si poteva controllare in ogni suo punto. Tuttavia contro la stessa vita non ci si può assicurare, ma la si deve accettare con tutto ciò che essa implica nelle grandi e nelle piccole cose, nelle possibilità di disgrazia o di fortuna. Accettare il destino significa in fondo accettare se stessi e cimentarsi con se stessi. L’idea ha trovato la sua forma pagana-scettica nel concetto del
l’amor fati: l’amore, generato dal dispetto, verso il proprio destino; e la sua forma cristiana nell’affermazione della vita prefigurata dalla propria personale natura, nella fiducia che tutto si fonda su prescrizioni o assegnazioni divine.
        L’ordine logico dei nostri pensieri porta ancora oltre: non soltanto a difenderci dal dolore e dalla sventura, oppure, se non è possibile sviarli, ad affrontarli, ma ad accettare la loro amarezza. Bisogna esser stati educati alla scuola di Cristo per essere capaci di ciò, poiché la nostra natura si comporta diversamente. Essa protesta contro il dolore, e contro questo non c’è nulla a tutta prima da obiettare, tanto più che esiste anche un consenso al dolore che nasce dalla debolezza, anzi esiste anche una ricerca morbosa di esso. Ma il puro e semplice rifiuto perde il significato che il dolore ha nella vita: giustamente capito e sostenuto, esso approfondisce la vita, la purifica, porta l’uomo in una superiore unità con se stesso in quanto egli si unisce alla volontà divina che sta dietro ogni accadimento.
        Anzi il dolore stesso può in tal modo farsi più leggero. Se un uomo è alle prese con un amaro dolore - corporeo o spirituale - e gli riesce di eliminare la ribellione e di abbandonarsi entro di esso, allora tutto il peso si trasforma, ed egli esperisce una libertà profonda, la libertà nel dolore.
        Un’ultima cosa in fine. L’auto-accettazione significa che io sono d’accordo di esistere, in senso puro e semplice.
        Questa affermazione suona strana a quelli le cui cose vanno bene, perché allora si vive e si avanza nel proprio essere ed agire e non si pensa altro. Ma vengono anche altre ore, le ore della sventura, dell’insuccesso, della noia; allora si apre una frattura fra me e me stesso. Io non mi sono trovato davanti alla possibilità della mia esistenza e non ho io deciso di voler essere, ma sono stato collocato nell’essere. Sono uscito dalla vita dei miei genitori, dalla vita dei miei antenati, dalle contingenze del tempo. L’evento della mia nascita mi ha detto: ora tu sei. Vivi dunque te stesso! In certi momenti uno può avere l’intima percezione di quale grazia sia poter esistere, poter respirare, sentire, fare. Ma può anche succedere il contrario, e ad esempio, la parola che definisce l’esistenza può allora suonare a qualcuno non come “esaudimento”, ma come “imposizione”. Quando le forze scemano, le cose ingri
giscono, i doveri opprimono; in tempi, di malattia e di lunga indigenza, in ore di scoraggiamento o di malinconia, può insorgere la protesta: Io non sono stato interrogato. Non ho voluto essere. Perché devo? Allora si sente che dover essere potrebbe essere una pretesa impostaci, e che accettare l’esistenza può essere un atto da realizzare a grande profondità. Perché essa potrebbe anche essere respinta: in un a maniera stanca e ottusa quando l’uomo si trascina a vivere con l’alzata di spalle della rassegnazione; ma anche con atti disperati, giacché il numero di coloro che si tolgono la vita è spaventosamente grande e sembra aumentare. Il numero di coloro per i quali il dono dell’esistenza è diventato un peso che non sono disposti a portare; o forse anche semplicemente non lo possono, perché nessuna fede e nessun amore insegna loro a capire l’arduo enigma.
        In tutto ciò non esiste via d’uscita con motivi unicamente umani. Questo andava già detto all’inizio delle nostre considerazioni. Giacché quando noi riflettevamo che non siamo noi a darci l’esistenza, ma che la riceviamo, la prima domanda sarebbe dovuta essere: Da chi? E la risposta sarebbe stata: dai genitori, dalla situazione storica, dagli antenati. Ma in definitiva e attraverso tutte le mediazioni intermedie, da Dio. Non potremo mai realizzare l’accettazione - quella autentica - se non si viene in chiaro da che cosa dobbiamo accettarla, questa nostra realtà: dall’oscurità dei processi naturali, dall’insensatezza del caso, dalla malizia d’un demone, oppure dalla pura sapienza e dal puro amore di Dio. E vogliamo di continuo richiamare alla nostra coscienza che la rivelazione di Cristo, che fa da fondamento a ogni altro suo atto, fu di rivelarci gli atteggiamenti e i sentimenti di Dio a nostro riguardo
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        L’accettazione autentica è possibile unicamente in ordine a una istanza di cui ci si possa fidare, ed essa è il Dio vivente. Quanto più ciò che dobbiamo accettare tocca da vicino la nostra vita, quanto più esattamente l’accettazione importa un superamento di noi stessi - un “lasciarsi calare dentro” come dicevano i maestri spirituali del medioevo; un abbandonarsi nell’intimo di ciò che è - tanto più io ho bisogno di sapere di che genere sia l’onnipotente pensiero che si rivolge a me.
        C’è una domanda, senza dubbio sciocca, ma che ha bisogno d’essere espressa, poiché essa ci aiuta a penetrare meglio nel nostro rapporto con questo Dio troppo grande di noi: Sa davvero Dio ciò che pretende da noi, Lui che non ha destino, dato che non c’è potenza che possa imporgli nulla? Le sue disposizioni non vengono forse sempre, se così si può dire, “dall’alto”, olimpicamente, dalla serena freddezza dell’essere assolutamente intoccabile?
        Qui la rivelazione ci parla di un mistero, confortante quanto incomprensibile: che Dio in Cristo ha deposto questa intoccabilità. Con l’incarnazione Egli è entrato in quello spazio che forma per quelli che ci vivono una unica catena di destino, cioè nella storia. Quando l’eterno Figlio è diventato uomo, lo è realmente diventato, senza difese né privilegi; è diventato vulnerabile da parte di cose e parole; intessuto come noi nella fittissima trama delle vibrazioni e delle influenze che s’irradiavano dallo smarrito cuore umano. Anzi la condizione era un’altra volta diversa ancora, giacché un uomo vien colto da tali irradiazioni tanto più duramente, quanto più il suo spirito è grande, profondo il suo cuore e viva la sua vita. Avere destino vuol dire appunto soffrire; quanto più uno è capace di dolore, tanto maggiore si fa nella sua esistenza l’elemento del destino. Quali catene di pensieri si aprono allora
! Quale culminazione sperimenta il concetto! Il Figlio di Dio entra nella storia per espiare la nostra colpa e per portarci a una nuova grande possibilità. Ed egli lo fa pronto ad accettare tutto quello che gli sarebbe capitato, senza precauzioni, deviazioni, resistenze o astuzie! Gli uomini, i quali non hanno precisamente nessuna forza su Colui “a cui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”, gli creano il più amaro dei destini; ma esso è la forma che la volontà del Padre ha assunto a Suo riguardo. Egli stesso vuole questa volontà; eseguirla è il “cibo” della sua vita. Così la pressione del destino diviene libertà. La libertà più alta e il dovere più grave si identificano. Si vedano le arcane parole pronunciate sulla via di  Emmaus: “Non doveva forse il Cristo patire tutto ciò e così entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26).
        Ora Dio non è “l’Essere assoluto” della pura filosofia, ma è Colui che è tale che la sua essenza più intima, cioè il suo amore, si esprime in questo fare di Cristo. E la sua signoria è quella altissima libertà che è capace e che vuole realizzare tale fare.
        Soltanto da questo punto di vista è possibile comprendere e dominare l’esistenza. Non dal punto di vista di questa o quella filosofia della personalità e del suo rapporto col mondo, ma della fede a ciò che Dio ha fatto, e in comunione con Lui. L’immagine che tutto riassume è la croce, come Egli disse: “Chi vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24). Ognuno la “sua”; quella che gli è stata assegnata. Allora il Maestro opera in lui il mistero della santa libertà.
 
 
Romano Guardini
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