Il «quaderno segreto» come spazio libero in cui si è davvero sé stessi. Andrebbe incentivato nelle scuole.
Commenta Anna Frank nel 1942, dal rifugio clandestino in cui vive per sfuggire alle persecuzioni naziste contro gli ebrei: «Per una come me, scrivere un diario fa un curioso effetto. Non soltanto perché non ho mai scritto, ma perché mi sembra che più tardi né io né altri potremo trovare interessanti gli sfoghi di una scolaretta di tredici anni. Però, a dire il vero, non è di questo che si tratta; a me piace scrivere e soprattutto aprire il mio cuore su ogni sorta di cose, a fondo e completamente».
Quel diario non solo le permetterà di emergere dalle strettoie di una convivenza forzata ma anni dopo, tradotto in quasi tutte le lingue, sarà inserito dall’Unesco nelle Memorie del mondo. Poche ragazzine aspirano a tanto ma il diario rimane ancora oggi la più diffusa forma di scrittura femminile e adolescenziale. Tenere un diario, per lo più scritto a mano, in bella calligrafia e con una ricerca di stile, è una scelta controcorrente nell’epoca del Web, quando si digita per impulso, senza riflettere, senza selezionare.
Premendo rapidamente i pulsanti, i ragazzi cercano di sincronizzare i battiti del cuore con quelli del telefonino, di trasmettere le emozioni nel momento stesso in cui le provano. La scrittura tradizionale richiede invece di attendere il tempo e il luogo più opportuni, sottraendosi alla fretta di concludere, alla tentazione di restare perennemente connessi per sfuggire alla solitudine.
Il diario costituisce un appuntamento con sé, un incontro programmato con la propria intimità. Spesso, sigillato da un lucchetto più simbolico che reale, pretende il segreto. Anche se «casualmente» viene dimenticato in modo che la mamma lo possa leggere, altrettanto casualmente. Ma non è lei l’interlocutore privilegiato, chi scrive, anche quando evoca un corrispondente immaginario, si rivolge a se stesso nell’intento di scandagliare le parti in ombra della sua personalità e di fissare le ambivalenze e le intermittenze dei sentimenti.
Le pagine del diario sono uno schermo su cui l’adolescente delinea la propria identità in modo creativo e personale, sottraendola alle attese degli altri e agli stereotipi della cultura. In esse palpitano amori immaginari e fantasie erotiche che si confidano solo all’amica del cuore, ma anche spirazioni e i desideri che orientano il futuro. Mentre le comunicazioni digitali si disperdono nella nebulosa mobile e illimitata di una fantasia collettiva, il diario conserva, nella forma autobiografica, l’unicità e la continuità della propria storia.
Durante l’adolescenza, nonostante una progressiva omologazione, i maschi s’impegnano soprattutto nella conquista del mondo esterno, le femmine nell’esplorazione del mondo interno, nella forma romantica dell’introspezione e del sogno d’amore. Prende così forma l’autobiografia, intesa come racconto congiunto dei fatti e delle emozioni, come nucleo stabile di una identità sempre più frammentata nella pluralità dell’Io e nella fragilità delle relazioni. La scrittura periodica del diario consente all’adolescente di operare un distacco critico dalla famiglia senza esasperare i conflitti, senza provocare dolorose lacerazioni. Le immagini dei genitori, mediate dalla scrittura, si allontano e si ridimensionano pur restando insostituibili figure di riferimento, mentre il dolore di vivere si stempera in una narrazione che protegge e cura. Molti anni dopo sarà possibile riconoscere, in quell’opera letteraria in miniatura, il filo rosso della propria vita, quello che ci ha aiutato a diventare al tempo stesso autrici e protagoniste della nostra storia.
Per molte donne e per tante «piccole donne» il diario rappresenta quella «stanza tutta per sé» in cui Virginia Woolf riconosceva l’ambito di una fragile libertà femminile da proteggere e conservare. Ma la scrittura autobiografica, non è solo una faccenda di donne, serve anche agli uomini per ritrovare ed esprimere la parte femminile di sé.
Per la sua capacità evolutiva andrebbe incentivata nella scuola senza scindere, come spesso accade, l’allievo dall’adolescente, la ricerca di sé dall’apprendimento, l’introspezione dalla conoscenza obiettiva. Il compito di disegnare la propria identità è fondamentale perché dà senso a ciò che chiediamo ai ragazzi e significato ai loro inquieti processi creativi. Accompagnandoli in questa impresa, gli educatori stabiliscono con loro una alleanza che dura nel tempo e che offre , al diventare adulti, un orizzonte possibile e desiderabile.
Silvia Vegetti Finzi
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