Nella vitasemplice e povera degli africanisi trovanosentimenti gesti e paroleche suscitano in noiechi di una esistenzache ci appartienee di cui abbiamo ancoranostalgia.Sentiamo checerti valorinon dovrebbero scomparire.
del 01 gennaio 2002
Quando mi stabilii a Guidiguis, villaggio africano del nord Camerun, andai ad abitare presso un cristiano che mi ospitò in una capanna accanto alla sua, anch’essa fatta di terra con il tetto di paglia. Non potevo costruire una casa per me perché non avevo ancora il permesso di iniziare una missione. Ero solo un ospite. E come ospite di un africano nessuno poteva mandarmi via.
Dovetti attendere quasi due anni prima di poter avere un’abitazione di mia proprietà.
E così vissi il mio inserimento da amico, come uno del villaggio.
Andavo a procurarmi il cibo e l’acqua, lavoravo un piccolo orto, imparavo la lingua dalla gente, leggevo e rileggevo l’unico libro tradotto in tupurì, il Vangelo di Luca, e celebravo la messa da solo o con qualche cristiano di passaggio. Numerose erano le occasioni per incontrare la gente: al mercato, nei campi, andando al dispensario governativo per visitare gli ammalati o partecipando agli avvenimenti del villaggio. Quello che ci univa era l’interesse per i problemi comuni della vita e un po’ anche la curiosità di quello stare insieme.
Una convivenza genuina e libera da interessi.
Chi aveva visto altri missionari nelle missioni vicine subito mi diceva: 'Presto farai anche tu un dispensario medico, una scuola...'. Ma le mie risposte li deludevano. Continuavo semplicemente 'a stare', a stare con loro.
In quei tempi dovetti mettere da parte anche i libri di teologia: la mia prima evangelizzazione non fu la predicazione o qualche aiuto materiale, ma l’amicizia e il contatto umano con tutti.
Anche non sapendo la lingua, il visitare i malati, il lasciarmi avvicinare dai bambini, il salutare tutti, l’aspettare le vecchiette musulmane quando uscivano per darmi la mano, il fermarmi un po’ con loro, lo stare a bere la birra di miglio con gli anziani, mi fece diventare presto l’amico di tutti, piccoli e grandi. Alla sera visitavo qualche famiglia e stavo ad ascoltare i loro racconti e le storie del villaggio.
All’inizio questo adattamento mi risultava pesante, ma sentivo che il Signore voleva cambiare molte cose in me e mi lasciavo portare dagli avvenimenti, senza voler programmare prima ancora di capire, senza contare le ore frettolosamente. Il cibo africano mi sembrava immangiabile, il modo di prenderlo ripugnante (tutti mettono le mani nell’unica ciotola e intingono la polenta di miglio nello stesso sugo, con le mani, naturalmente), il dormire nelle capanne un tormento (a volte vicino a del pesce affumicato che puzza), lo stare ore e ore seduto su uno sgabello grande una spanna, una sofferenza!
Poi, a poco a poco, tutte queste cose cominciarono a diventare parte di me e acquistavano un senso e un significato nuovo. Era il mio modo di dialogare e di fare esperienza dell’altro. Scendevo nella profondità della stessa esistenza e nell’essenzialità della vita. Ci si sentiva uguali.
Cominciavo a comprendere che le mie ricchezze esteriori non servivano a granché e che le mie conoscenze valevano ben poco.
In quell’inserimento sentivo che di veramente mio avevo ben poco da portare. I soldi? Le medicine? Le macchine? Per la vita concreta che i tupuri conducevano, se la cavavano bene anche senza di me. I progetti che avevo in mente quando ero partito ora li trovavo irreali o superflui. Vivevo insomma la mia giornata nell’attesa e nell’ascolto, per scoprire quale fossero i bisogni più profondi dei tupuri.
Così, a poco a poco, mi accorgevo che il mondo africano stava aprendosi a me in tutti i suoi battiti, i suoi gesti e i suoi sentimenti. Mi era permesso entrare in tutti i luoghi e in tutti i momenti, riti, sacrifici…, L’Africa, prima misteriosa e impenetrabile, si apriva come un libro senza segreti, perché sentiva che le volevo bene, che avevo faticato per volerle bene.
padre Silvano Zoccarato
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