Alla scuola di San Francesco di Sales vivere serenamente

Una spiritualità basata sulla bontà di Dio e la convinzione che la pace del cuore si trova solo nella conformità alla sua volontà. Le circostanze della vita sono il luogo dove noi troviamo Dio. Di qui il consiglio di accettare con amore la situazione in cui ci troviamo.

Alla scuola di San Francesco di Sales vivere serenamente

da Spiritualità Salesiana

del 22 luglio 2005

 Vivere serenamente si può. Per riuscirvi possono essere certamente di aiuto le scienze umane, che però, per quanto utili e raccomandate, da sole non bastano. La vera “ricetta” ce la offrono soprattutto i santi, nel senso che sono essi a indicarci dove sta la vera sorgente della pace del cuore: ossia in Dio.

 

Uno di questi santi è senza dubbio san Francesco di Sales (1567-1622), un uomo che possedeva una personalità meravigliosamente equilibrata e integrata, unita a una profonda spiritualità. Oltre a una grande santità di vita egli era dotato anche di un fine intuito psicologico che fece di lui un ricercato direttore spirituale. In un’epoca come la nostra in cui sono molti coloro che soffrono di depressione e di forme più o meno gravi di ansia, i suoi consigli, nonostante siano passati ormai quattro secoli da quando egli visse, contengono dei germi di straordinaria sapienza anche per noi oggi.

 

 

L’ANSIA È UN GRAVE MALE

 

Nell’Introduzione alla vita devota egli afferma che, dopo il peccato, l’ansia è il male più grande che possa capitarci. Essa nasce, scrive, da un desiderio disordinato di essere liberati dal male presente o di voler raggiungere un bene sperato. Non c’è pertanto niente che tenda maggiormente ad accrescere il male e a impedire il godimento che di essere disturbati e ansiosi. Con un esempio immaginoso, egli paragona l’ansia alla condizione di un uccello preso nella rete, il quale, più agita le ali per cercare di fuggire, più ne rimane impigliato. San Francesco sapeva bene di che cosa parlava per averne avuto egli stesso l’esperienza. All’età di  diciannove anni, quand’era studente a Parigi, aveva attraversato una profonda crisi circa la predestinazione; si domandava se avrebbe potuto rimanere separato da Dio per tutta l’eternità. L’angustia morale e spirituale in cui era caduto fu talmente grande che si ammalò e non riusciva più né a dormine né a mangiare. La crisi si risolse soltanto quando si abbandonò totalmente all’amore di Dio, pregandolo che gli desse la grazia di amarlo qui e ora se non avesse potuto farlo per l’eternità. Francesco uscì da questa “notte oscura” con due profonde convinzioni: la sua radicale dipendenza da Dio e una totale fiducia in lui.

 

La sua spiritualità è tutta basata sulla bontà di Dio e sulla convinzione che la nostra pace si trova solo nella conformità con la sua volontà, poiché Dio è un Dio per noi. Le circostanze di cui è intessuta la nostra vita sono il luogo dove noi troviamo Dio. Di qui il consiglio, che egli dà, di accettare con amore la situazione in cui ci troviamo.

 

Egli scrisse l’Introduzione alla vita devota soprattutto per laici desiderosi di vivere una vita di maggiore intimità con Dio. Anticipando il Vaticano II di alcuni secoli, insegnò che ogni vocazione costituisce il luogo dell’incontro con Dio e che ogni cristiano è chiamato alla santità. Questa tuttavia è diversa dall’uno all’altro per cui la pratica delle “devozione” deve  essere adattata alle forze, alle attività e ai doveri di ciascuno. In effetti, un vescovo non è chiamato a vivere come un certosino, né un artigiano a trascorrere  le giornate in chiesa come un religioso. Non c’è bisogno pertanto di imitare lo stile di vita o le virtù proprie di una vocazione che non è la propria. In una delle sue lettere scrive: «Noi dobbiamo amare tutto ciò che Dio ama, ed egli ama la nostra vocazione; amiamola pertanto anche noi e non perdiamo il tempo e le energie a inseguire un genere di vita diverso, ma andiamo avanti con il nostro lavoro...».

 

Nel Trattato dell’amor divino dedica un’ampia sezione alla “volontà di Dio”. Distingue tra la volontà di Dio manifestata e quella di compiacenza.  Benché in Dio la volontà sia unica, noi, nel cercare di discernerla, dobbiamo tenere presente due diverse realtà. Nel primo caso, abbiamo i comandamenti, i consigli, gli insegnamenti della Chiesa e le sante ispirazioni. Qui non c’è niente da discernere, bisogna solo obbedire. Nello scegliere invece una vocazione, o di fare una cosa piuttosto che un’altra, Francesco consiglia una grande libertà di spirito dal momento che non è possibile conoscere in maniera assoluta la volontà di Dio. Se si tratta di una cosa importante, bisogna pregare, consultare un direttore spirituale e quindi fare ciò che si ritiene meglio. E se sorgono poi dei dubbi, bisogna rimanere in pace e continuare a fare ciò che si è scelto. Nelle cose meno importanti invece dobbiamo fare liberamente  ciò che ci sembra meglio in modo da non angustiarsi né perdere tempo e correre il rischio di cadere nel turbamento, negli scrupoli e nella superstizione.

 

La volontà di beneplacito è invece la volontà di Dio già compiuta. Essa si trova nelle circostanze della vita “nella salsa in cui Dio ci ha posto”, negli eventi che accadono e nelle cose che non sono in nostro controllo. Evidentemente non è Dio la causa di tutto ciò che avviene, ma – ed è questo l’insegnamento –  «tutto ciò che capita è per così dire all’interno della provvidenza di Dio; non è fuori dell’abbraccio amoroso del processo creativo e redentivo. Dio si trova dove noi ci troviamo».

 

La sottomissione amorosa a quella che san Francesco chiamava la volontà di beneplacito di Dio può essere oggi tradotta con l’espressione “permettere a Dio di essere Dio”, affidando a lui il controllo e abbracciando concretamente con amore quella particolare realtà perché proviene dall’amorosa mano di Dio. «Dobbiamo semplicemente – scrive – lasciarci portare dal beneplacito di Dio, così come un bambino è portato sulle braccia della madre, con un certo genere di mirabile consenso che si può chiamare... l’unione della nostra volontà con Dio».

 

 

ACCETTAZIONE DI SE STESSI

 

Se veramente cerchiamo di piacere a Dio, allora avremo la pace del cuore anche nelle prove e nelle difficoltà. «Niente può turbarci», scrive, «se non l’amore di noi stessi e l’importanza che ci diamo». In effetti, se ci pensiamo, scopriremo che la ragione per cui siamo turbati e indebitamente agitati sta nel fatto che vogliamo essere noi a tenere in mano il nostro io e così la fiducia in Dio passa in secondo piano.

 

Una parte importante della nostra realtà è ciò che noi siamo. Ora, come la maturità umana si costruisce su una sana accettazione di sé, allo stesso modo la maturità spirituale richiede che abbiamo ad accettare noi stessi e ad amarci. Paragonarci invidiosamente agli altri o la delusione di essere inferiori ai nostri ideali è motivo di tristezza e di scoraggiamento. San Francesco scrive: «Cerchiamo di essere quello che siamo  in modo da onorare l’Artefice di cui noi siamo sua opera». E in un altro passo: «Ho un’altra cosa da dirle e cerchi di ricordala bene: noi siamo così occupati  a essere dei buoni angeli che trascuriamo di essere buoni uomini e donne».

 

Nella sua direzione spirituale egli aveva la preoccupazione di promuovere una santità che tenesse conto della nostra umanità. Per cercare di superare le tendenze peccaminose e divenire simili a Cristo, egli raccomandava di essere dolci e pazienti con noi stessi poiché le imperfezioni ci danno la possibilità di praticare la virtù. Lungi dall’essere sorpresi delle nostra mancanze, dovremmo dare per scontato il fatto di cadere spesso. Come esseri umani dobbiamo compiere ogni sforzo con l’aiuto della grazia di Dio, ma non arriveremo mai alla perfezione in questa vita. «Ahimé, cara figlia» scrisse un giorno a una persona da lui spiritualmente diretta, «lei deve dimenticare il suo cuore; non è caduta perché è infedele, ma perché è inferma. Perciò deve correggessi soavemente e con tranquillità e non essere più angustiata e arrabbiata».

 

Ciò che san Francesco non sopportava era l’affettazione, ogni esagerazione e ogni estremismo. Soleva dire che l’ansia esagerata è la madre di tutte le imperfezioni. «Ogni entusiasmo indaffarato» scrive, «pretende di infiammarci nel profitto, ma ciò non fa che raffreddare il fervore; anziché farci correre ci fa incespicare». Il senso delle proporzioni, la capacità di ridere delle proprie manie, e un’assoluta fiducia in Dio costituiscono i migliori antidoti alle paure e alle ansie che prosciugano le nostre energie e ci impediscono di aprire il nostro essere ai caldi raggi dell’amore misericordioso.

 

Noi oggi siamo preoccupati della nostra identità psicologica al punto di non fare abbastanza attenzione alla nostra identità teologica. Solo l’approfondimento di quest’ultima permette di vivere con la certezza di essere figli amati di Dio.

 

Servendosi di una simpatica immagine scrive: «La mia terza regola è che lei deve essere come un bambino il quale sa che la mamma lo tiene per il braccio; egli cammina senza paura e corre all’intorno senza preoccuparsi di ogni piccola caduta o inciampo... Allo stesso modo, fintanto che si rende conto che Dio la tiene nella sua volontà e nel proposito di servirlo, vada avanti con coraggio e non si impressioni dei piccoli contrattempi e delle cadute; non c’è motivo di turbarsi purché si getti ogni tanto tra le sue braccia e lo baci con il bacio della carità. Vada avanti con gioia e con il cuore il più possibile aperto e fiducioso».

 

 

«VIVA GESÙ»

 

San Francesco per le sue suore della Visitazione e in capo a molte sue lettere era solito usare il motto “Viva Gesù”. Queste due parole più che un’ esclamazione di lode, contengono tutto un  programma. Il centro della sua spiritualità è Gesù, figlio di Dio fattosi uomo per noi. Tutta la pedagogia di san Francesco di Sales quale si può cogliere dai suoi libri, dalle sue lettere e conferenze, è orientata a permettere a Gesù di prendere possesso della nostra vita. “Vivere Gesù” per lui non è semplicemente un imparare a conoscerlo, o pregarlo, o imitarlo, ma un consegnare «il centro vitale del proprio essere – il proprio cuore, come è inteso in senso biblico olistico – a un’altra presenza vivente».

 

“Vivere Gesù” spostando il proprio io e facendo di un “altro” il centro è un lavoro che dura tutta la vita. Ma possiamo cominciare dovunque siamo. Due sono i metodi che possono aiutarci. Il primo consiste nel meditare la vita di Gesù nei vangeli e pregare con il cuore, “la preghiera affettiva” mediante la quale cresciamo nell’amore verso il Signore così da assumere poco alla volta la mente e il cuore di Cristo. Il secondo è la pratica delle “piccole virtù”. Con queste non intende le virtù intese a farci sentire importanti o farci brillare davanti agli occhi degli altri, ma quelle che aiutano a morire al proprio io: «la pazienza, la sopportazione del prossimo, la sottomissione, l’umiltà, la mitezza di cuore, l’affabilità, il sopportare le proprie imperfezioni...».

 

La serenità cristiana ha poco a che fare con il temperamento o con una vita spensierata. È frutto di un amore che ha raggiunto la libertà attraverso una dura disciplina di rinnegamento di sé. Mentre i comportamenti esterni si possono imparare con l’esercizio, la vera serenità dello spirito viene invece dalla profondità di un cuore che si è abbandonato ed è un dono della grazia di Dio che diffonde la pace in coloro che ci circondano.

 

Un pensiero finale del santo ci ricorda ciò che veramente conta nella vita. «Presto noi saremo nell’eternità e allora vedremo come erano insignificanti le nostre preoccupazioni terrene e quanto poco importasse che si attuassero oppure no; adesso tuttavia ci agitiamo come se fossero importantissime. Quando eravamo piccoli raccoglievamo pezzetti di tegole, piccoli pezzi di legno e del fango per costruire delle case o altri piccoli edifici e se qualcuno ce le distruggeva ne eravamo dispiaciuti e piangevamo. Ma ora comprendiamo... che quelle cose non avevano grande importanza. Un giorno sarà così per noi in cielo quando vedremo che tutte quelle cose a cui eravamo attaccati sulla terra erano soltanto dei passatempi infantili.

 

Non voglio dire che non dobbiamo preoccuparci di questi piccoli e insignificanti dettagli, nel senso che Dio vuole che ci applichiamo a essi in questo mondo... ma non prendiamoli troppo sul serio poiché quando cadrà la notte e dovremo rientrare in casa –sto parlando della nostra morte – allora quelle piccole case saranno inutili; andremo nella casa del Padre. Compite con fedeltà tutte le cose che avete da fare, ma ricordatevi che ciò che conta maggiormente è la vostra salvezza».

 

 

 (Appunti  sono tratti dall’articolo di Juliana Devoy RGS Learning to Live Serenely, in Review for religious; 64.2, 2005).

Juliana Devoy

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