Il 13 luglio Mario Dutto, il direttore scolastico regionale della Lombardia, è stato costretto ad alzare bandiera bianca e, in un comunicato, ha escluso la possibilità «di costituire classi con soli alunni appartenenti alla stessa lingua, cultura e religione, in quanto contrasterebbe con i principi e i valori costituzionali tesi a superare ogni forma di discriminazione e a valorizzare occasioni di integrazione e di dialogo».
del 01 gennaio 2002
Da un anno a questa parte, dalle finestre della nostra redazione ne ascoltiamo solo il vocìo. Frasi ripetute in coro, con i toni acuti e allegri dei bambini. E poi la familiare confusione della ricreazione: qualche sagoma che corre rapida, rumore di sedie spostate. Non possiamo scorgere molto altro della vita nella scuola di via Quaranta, anche se si trova dall'altra parte della strada rispetto all'edificio di Vita.
Ancora di più in questi giorni, in cui tutti i riflettori sono stati puntati su di loro e sul “caso” del liceo Agnesi di Milano, che ha deciso di avviare una classe interamente costituita da ragazzi islamici provenienti da qui. Perché sui 400 bambini e adolescenti che ogni giorno arrivano nel centro islamico accompagnati dai pullman, c'è la coltre densa del riserbo e della diffidenza della loro comunità. E dire che all'inizio, quando la redazione del giornale è arrivata nel 2000, non era così. Era possibile affacciarsi alle nostre finestre e vedere le aule, le cartine, i disegni appesi al muro, i ragazzini schiamazzanti come in qualsiasi altra scuola.
Una breccia nel muro
Poi ci sono state tante cose che hanno fatto alzare un muro invisibile, oltre che dei buoni vetri smerigliati. L'11 settembre, le indagini sulle comunità islamiche milanesi, molti cronisti tv pronti a qualsiasi arrembaggio all'interno della moschea, la polizia sempre alla porta.
Così, quel muro si è ispessito. Lo abbiamo constatato giorno dopo giorno. Un intero istituto, elementari e medie, frequentato solo da bambini arabi, che si formano, nel cuore di Milano, su programmi della scuola egiziana, prendendo un titolo di studio riconosciuto al Cairo e non qua. E che non assolvono, in pratica, l'obbligo scolastico.
Bambini nati in Italia che escono dalla “loro” scuola senza parlare una parola della nostra lingua, dentro uno strano satellite dove le bambine portano il foulard come delle piccole donne. E, una volta divenute adolescenti, se va bene, avranno solo da scegliere se restare a casa con la mamma in attesa di un matrimonio combinato o rientrare in Egitto dai nonni.
Di fronte a questo muro apparentemente impenetrabile, però, c'è chi ha iniziato ad aprire una piccola breccia. Usando gli strumenti del rispetto e del dialogo. Si sono mossi così, consapevoli di trovarsi di fronte a una situazione complessa e decisamente anomala in Italia, alcuni insegnanti e operatori, coordinati dalla Direzione scolastica della Lombardia. «Due anni fa abbiamo fatto partire dei laboratori linguistici (all'interno della scuola islamica ora c'è anche un'insegnante italiana, ndr). Poi i ragazzi e le ragazze hanno iniziato, per proseguire questi corsi, a frequentare le scuole della zona», spiega Paolo Branca, arabista e islamologo, docente dell'università Cattolica di Milano e da tempo in contatto con l'istituto di via Quaranta. «Il primo approccio con il mondo scolastico italiano è stato positivo e ora sono decine i bambini e ragazzi che hanno sostenuto gli esami di quinta elementare e di terza media», spiega ancora Branca.
Per la precisione, l'anno scorso con questo sistema circa 80 bambini hanno ottenuto l'idoneità. «è stato un lavoro paziente, delicatissimo di conquista della fiducia delle famiglie», aggiunge Milena Santerini, docente di Pedagogia alla Cattolica, che ha affiancato Branca nel paziente lavoro sul “caso via Quaranta”. «Siamo stati coinvolti come consulenti per trovare una soluzione a questa vicenda», spiega, precisando che nel progetto del liceo Agnesi non hanno avuto a che fare, avendo lavorato solo su elementari e medie. «Abbiamo di fronte bambini con un livello di studio del tutto anomalo», prosegue la Santerini. «Non parlano italiano, ma solo arabo, hanno un buon livello nelle materie scientifiche ma su tutto il resto sono impreparati. Poco tempo fa, molte delle loro famiglie hanno preso atto del problema e si sono aperte a cambiare forma di istruzione. è un desiderio di dialogo che non darei affatto per scontato». Da questa apertura, evidentemente, è nata l'ipotesi della “classe protetta” nel liceo Agnesi. «Se mi chiedete se vedo bene una classe composta interamente da islamici, dico di no», commenta la docente, «ma il problema non è questo: in alternativa, vediamo bene una scuola interamente islamica?»
L'esperimento del Gadda
«Non si può giudicare in astratto, occorre valutare attentamente partendo con umiltà dalla situazione reale che ci si è trovati davanti», aggiunge Branca. «Quando si pensa alla classe dell'Agnesi occorrerebbe vederla come una zattera sulla quale ci sono sì solo questi venti ragazzi, ma che pian piano si avvicina alla costa abitata da tutti noi». Insomma non un'isola, ma l'uscita graduale dall'isolamento.
Una filosofia che ha motivato anche il Cisem - Centro innovazione e sperimentazione innovativa di Milano, che l'anno scorso aveva già sperimentato, lontano da qualsiasi riflettore, l'ingresso in una scuola pubblica di un gruppo chiuso di ragazze provenienti dalla comunità islamica.
«Alcune non avevano nemmeno frequentato la scuola di via Quaranta», spiega Lidia Acerboni, responsabile del progetto al Cisem. «Avevano fatto tutti gli studi primari addirittura a casa, con insegnanti privati. Noi abbiamo offerto loro di seguire, in un corso specifico, le lezioni degli insegnanti dell'Istituto Gadda di Paderno Dugnano, dove hanno conseguito l'idoneità per il liceo linguistico». Esattamente si è trattato di 12 ragazze, che sono potute entrare, rispettivamente, in seconda, in terza e in quinta liceo. «Le nostre insegnanti le hanno trovate straordinariamente motivate, quasi con una fame di sapere, di capire di più del mondo che improvvisamente si apriva davanti a loro», spiega il preside del Gadda, Alberto Berardocco. «L'anno prossimo ripeteremo i corsi, che probabilmente saranno tenuti direttamente al Cisem. E le ragazze che sono arrivate al terzo anno scopriranno la filosofia…».
Il linciaggio sull'Agnesi
Da questa prima esperienza, che si è rivelata molto felice, è nato operativamente il progetto del liceo Agnesi.
«Abbiamo capito che il vero scoglio, per queste famiglie, era di tipo educativo e di costume», prosegue la Acerboni. «Per questo abbiamo proposto una classe fatta di ragazzi con la stessa provenienza e abbiamo scelto il liceo Agnesi, perché ne conoscevamo la grande progettualità e l'esperienza nell'integrazione. Gli insegnanti sono stati scelti all'interno del consiglio d'istituto, su base volontaria e per l'esperienza fatta con studenti stranieri. In questi giorni sono state scritte un sacco di sciocchezze: non insegneremo né l'arabo né il Corano. Quelle famiglie ci hanno semplicemente chiesto di non calpestare la loro fede religiosa. E noi abbiamo risposto che questo è un fatto pacifico in una cultura democratica».
Una cultura di cui non hanno dato certamente prova i commentatori, anche cattolici, che li hanno letteralmente crocifissi sui giornali, parlando di classi-ghetto e di soluzione che condurrà all'islamizzazione del Paese. «Mentre noi stiamo abbattendo un muro e gettando un ponte, loro che stanno facendo? Hanno delle soluzioni alternative?», si domanda il preside dell'Agnesi, Giovanni Gaglio, amareggiato dall'attacco, del tutto inatteso, della stessa Rifondazione comunista. Tra tanto rumore, anche un silenzio pesante della Curia milanese, che si è trincerata dietro al no comment.
E mentre i “mediatori” del Cisem e i professori della Cattolica tremavano all'idea che quella piccola breccia di dialogo venisse chiusa dalla comunità di via Quaranta, quella breccia è stata chiusa dalla comunità italiana.
Il 13 luglio Mario Dutto, il direttore scolastico regionale della Lombardia, è stato costretto ad alzare bandiera bianca e, in un comunicato, ha escluso la possibilità «di costituire classi con soli alunni appartenenti alla stessa lingua, cultura e religione, in quanto contrasterebbe con i principi e i valori costituzionali tesi a superare ogni forma di discriminazione e a valorizzare occasioni di integrazione e di dialogo».
Se integrazione ci sarà, insomma, dovrà essere in mezzo agli adolescenti italiani. Ma è realistico che le famiglie della comunità di via Quaranta iscrivano i loro ragazzi in una scuola qualsiasi? «No. A meno che non vogliamo vederli accompagnati dai carabinieri», chiude la Acerboni. «Oppure continuiamo a chiudere gli occhi, come abbiamo fatto finora. E aspettiamo solo che vengano rispediti in Egitto».
Benedetta Verrini - Antonietta Nembri
Benedetta Verrini
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