Alle radici della propria umanità. Il coraggio dell'umiltà.

Una virtù quanto mai attuale in una società sempre più angosciata e confusa di fronte alle difficoltà della vita. Una virtù che non esige un “riduzionismo” della persona, ma che la porta alla pienezza a cui è chiamata.

Alle radici della propria umanità. Il coraggio dell’umiltà.

da Teologo Borèl

del 24 luglio 2005

 Se è vero, come è vero, che tutti siamo peccatori e abbiamo bisogno di essere salvati dalla misericordia unilaterale e gratuita di Dio; che tutti formiamo quell’umanità “zoppicante” che lo segue e che non si può dare la salvezza da sola ma può solo riceverla in dono, allora possiamo concederci qualche considerazione sull’umiltà. Il cammino verso la Pasqua ci chiede di fare nostro questo atteggiamento che ci pone di fronte a Dio e alla vita in modo realistico ed efficace, in una prospettiva teologale.

 

 

In principio c’è l’umiltà di Dio…

 

Se ha senso parlare di umiltà è a partire dall’umiltà di Dio. Un punto di partenza ineludibile, poiché noi non sapremmo neppure che cosa sia l’umiltà se non ci fosse stato rivelato. Dell’umiltà di Dio è piena la terra, potremmo dire parafrasando il salmo, perché tutta la storia della salvezza non è altro che manifestazione di un Dio-Padre che non se ne sta solitario nel suo cielo, ma si china sull’umanità da lui desiderata, creata, amata per darle tutto di sé, senza ipoteche e senza ripensamenti.

Il volto dell’umiltà di Dio è quello di Gesù di Nazaret, «il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce…» (Fil 2, 6-8).

Creazione, incarnazione, redenzione: tutto dice l’umiltà di un Dio che non si pente dell’opera delle sue mani e del suo cuore, che non arriccia il naso di fronte alla fragile corrispondenza d’amore dei suoi figli; che non ha il braccio corto nell’elargire la sua grazia e che con assoluta libertà pone Lui stesso sul tavolo la posta per la salvezza eterna, inarrivabile per le sole e scarse risorse umane.

E proprio nel mistero della croce, morte e risurrezione di Gesù, così come nell’Eucaristia, si può osservare come la dinamica dell’umiltà comporta inestricabilmente il duplice movimento dell’abbassamento e dell’elevazione, che in più di un’occasione lo stesso Gesù aveva ricordato ai suoi discepoli, ammonendo: «chi si abbassa sarà innalzato» (Mt 23,12; Lc 18,14), o ricordando al termine della parabola del fariseo e del pubblicano che «i primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi» (Mt 20,16). Anzi, Gesù ne parla come di una condizione indispensabile per fare un’autentica esperienza della salvezza di Dio, al punto che chi si rifiuterà di entrare in questo atteggiamento Dio stesso si incaricherà di farlo, come ricordano le parole di Gesù: «E tu, Cafarnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi sarai precipitata!» (Lc 10,15)… quegli inferi che, comunque, egli stesso visiterà dopo la sua morte per risalirne vittorioso.

È quanto mai saggio entrare in questa umiltà, perché in essa sta la condizione per ottenere la salvezza. L’apostolo Giacomo ammonisce i destinatari della sua lettera: «Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà» (Gc 4,10), perché come ricorda il libro dei Proverbi «Dio resiste ai superbi; agli umili invece dà la sua grazia» (3,34).

E Maria, la madre di Gesù, con tutta la sua vita rappresenta in maniera pregnante quanto canta nel suo Magnificat: «ha guardato l’umiltà della sua serva… la sua misericordia si stende su quelli che lo temono… ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore… ha rovesciato i potenti dai loro troni e ha innalzato gli umili» (Lc 1,48.51.52). Insieme a lei, prima discepola del suo figlio, anche noi siamo chiamati alla sequela così come siamo, con tutti i nostri limiti, fatiche, angosce che ci fanno tanta paura e in certi momenti ci bloccano: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11,28-29).

Ascoltare la sua voce, andare, seguire, camminare, lasciarsi ristorare, portare il suo giogo leggero… da poveri: questo significa essere suoi discepoli. Quando riconosciamo la nostra povertà di creature nella consapevolezza di essere nelle mani di un Padre attento e premuroso, siamo nelle condizioni di Gesù, “miti e umili di cuore”, come i poveri di JHWH delle beatitudini evangeliche.

Ma che fatica per noi entrare in questa beatitudine! Che fatica lasciarsi andare, lasciarsi fare e guidare da Dio; che fatica rinunciare al nostro protagonismo e riconoscere che siamo solo riflesso, cassa di risonanza di un dono di libertà e di amore che viene da un Altro; che fatica entrare nella logica di essere il Bene, e non solo di fare del bene superando la tendenza radicata a ridurre il vangelo a una questione moralistica.

L’evangelizzazione di Gesù non si riduce a una questione moralistica, a una serie di fervorini perché noi ci comportiamo da bravi ragazzi. Sarebbe una sorta di riduzionismo legalista e facilmente scivoleremmo nel conformismo, in un’osservanza esteriore che non provoca nessun cambiamento nel cuore… e noi sappiamo che se Dio ci parla è per giungere invece a trasformare il nostro cuore di pietra in un cuore di carne. Parlando dell’umiltà di Gesù, quindi, non ci riferiamo certo a un valore che Gesù vive appositamente per darcene l’esempio: piuttosto nella sua umiltà è individuabile un vero e proprio cammino di salvezza.

Si tratta del cammino pasquale, al quale ciascuno di noi, ogni cristiano, è chiamato dietro a Gesù, e la cui prima tappa consiste in un inevitabile abbassamento. Esso consiste nel giungere a constatare la nostra impossibilità a dare risposte al mistero della propria vita, della storia del mondo, se non dopo averle accolte da un Altro. Per Gesù questo cammino è stato segnato dallo scontro con il principe delle tenebre, a partire dalle prime tentazioni nel deserto fino al loro culmine nell’orto del Getsemani, nell’ora della passione e sulla croce.1 Sempre egli ha messo al primo posto la sua obbedienza, facendosi servo del Padre e dell’uomo, fino alla morte di croce…

Per il discepolo di Gesù si profila lo stesso cammino: quello del continuo ascolto e dell’umile e obbediente abbandono in Dio, attraverso il quale si sperimenta il brivido di quella libertà che prova solo chi si fida e si lascia portare dall’Amore. Nell’umiltà dell’abbandono ci si lascia guidare da Dio, sperimentando la nostra perdita di controllo come un invito a entrare nella fede, senza “se” e senza “ma”. Entrare, cioè, in quella dimensione in cui ci si butta perché si ha fiducia in chi chiama e invia, e si accetta di non sapere tutto prima.

 

 

Umiltà è abbandono fiducioso

 

Questo atteggiamento di umile abbandono non è facile, né fatto proprio una volta per tutte. L’esperienza di Gesù mostra che sui sentieri del cammino pasquale la tentazione è ineludibile. Ogni momento è buono per la tentazione, e non esiste vaccino nei suoi confronti. È necessario passare attraverso di essa per arrivare alla salvezza e alla verità tutta intera, come dimostra l’esperienza del Figlio di Dio.

Eppure sembra che i nostri sforzi migliori siano profusi proprio per evitare le prove della vita, le tentazioni, anziché cercare di comprendere che cosa esse indicano, dove possono condurre. Oggi l’uomo fa carte false per evitare i problemi, le crisi, il dolore. Sono realtà bandite dal vocabolario del nostro quotidiano. Perché non ci piace la debolezza sentita sulla nostra pelle; così come non ci piace sperimentare quella divisione interiore, quella nostra ambivalenza di fondo che diviene palpabile nei momenti di dubbio, di insicurezza, di tentazione. Cercare di evitare le difficoltà, le crisi o le tentazioni è fatica sprecata. Anzi, significa soltanto aggiungere alle normali fatiche del vivere una fatica in più… e ritrovarsi ancora più disorientati!

Al fondo di questa fuga dalla nostra finitudine ontologica, c’è una grande illusione: che la vita, cioè, sia un bene da possedere più che un mistero da scoprire; e se le disposizioni sono queste, è evidente che poi ci si aspetta – o si pretende! – che le cose avvengano come vogliamo noi. Questa illusione è visibile, oggi, nella sottolineatura esasperata del soggetto (altro che umiltà!), per cui è così frequente la scelta della competizione, della rivalità e sempre più spesso della violenza, pur di arrivare ad affermare se stessi, anche a scapito degli altri. Così come è visibile nell’attivismo frenetico che manifesta la convinzione, spesso inconscia, che noi siamo solo il frutto dei nostri sforzi, che nulla va lasciato al caso o all’imprevisto e che tutto va tenuto sotto controllo. È il mito dell’uomo che si è fatto da solo!

Che differenza tra questo uomo, che si sente tale solo a condizione di avere successo e di possedere tutto, e la libertà di chi può dire, con s. Paolo, «Tutto è vostro, e voi siete di Cristo» (1Cor 3,21-22)! Basta una prova o una crisi, e subito ci rendiamo conto di quanto sia viva dentro di noi questa illusione. Di fronte a un dolore, a una perdita o a un fallimento, o a una debolezza personale che ci segna come una spina nel fianco, ci rendiamo conto di quanto poco controllo esercitiamo sulla nostra vita. Sono i momenti in cui si entra in crisi e in seguito ai quali qualcuno alza bandiera bianca, sia essa la depressione, l’apatia di chi getta la spugna di fronte alla vita o il prepensionamento.

 

 

Umiltà è conversione

 

Questa esperienza, per quanto sofferta, segna tuttavia la possibilità di un cambiamento. Ce lo insegna s. Paolo, quando testimonia della scoperta che lo ha condotto a compiere una rivoluzione copernicana: la forza nella debolezza… «Quando sono debole, è allora che sono forte!» (2Cor 12). Paolo ha scoperto sulla propria pelle che Dio è tutto e che lui era niente; che ogni motivo di vanto ancorato alle sue qualità altro non era che il riflesso, il frutto del dono di Dio in lui; che addirittura è possibile gloriarsi delle proprie infermità e debolezze, perché ci si scopre comunque dimora della potenza di Dio, il quale con quella nostra materia prima può fare cose grandi. Anche per noi il momento in cui ci rendiamo conto di essere proprio quello che non avremmo mai voluto essere può propiziare la decisione per operare cambiamento qualitativo nel cammino verso la nostra identità più autentica.

Ma per accettare tutto questo ci vuole l’umiltà di riconoscersi creature che solo nel tempo e progressivamente possono conoscere se stessi e il mistero della vita, lasciandosi introdurre in esso da Dio, dai fratelli e dalle innumerevoli mediazioni di cui Dio si serve per raggiungerci con il suo invito a guardare la realtà con occhi e cuore nuovi, a entrare nel suo mistero di amore e di libertà. Ci vuole coraggio, per osare questa novità.

Ci vuole il coraggio dell’umiltà per stare di fronte alla verità – anche quella personale – senza negarla, senza nascondersi dietro giustificazioni per apparire, agli occhi propri e degli altri, diversi da quello che si è.

Umiltà è coraggio quando i nostri difetti non sono usati per piangerci addosso, per attirare l’attenzione e l’affetto degli altri, per avere degli sconti o per approfittare della generosità altrui.

Umiltà è coraggio quando viviamo ogni circostanza della vita – positiva o negativa – come occasione per crescere, per costruire la nostra storia, la nostra identità obbedienti alla vocazione ricevuta. Il coraggio dell’umiltà porta alla consapevolezza che, per quanto ognuno sia importante, un valore inestimabile, nessuno può bastare a se stesso, né può realizzarsi in modo pieno e autentico da solo. Significa riconoscere che abbiamo bisogno di Dio e degli altri, e vivere questa consapevolezza senza sentirci sminuiti ma, al contrario, arricchiti, riconoscendo la responsabilità di essere a nostra volta, poveri come siamo, mediazione di Dio per gli altri.

Umiltà è coraggio perché non si confonde con l’atteggiamento di chi si sottrae alle proprie responsabilità; non solleva l’uomo dal dovere di svolgere i suoi compiti quotidiani, di riconoscere, esprimere e amministrare al meglio i talenti ricevuti, nella consapevolezza che noi siamo soltanto co-protagonisti, amministratori di quel progetto di bene di cui solo Dio è il protagonista.

Umiltà è coraggio di avere grandi ideali (la nostra vocazione, il vangelo di Gesù, l’amore e la ricerca della verità, la carità, la giustizia, la comunione), pur nella consapevolezza di non esserne all’altezza, di trovarci davanti a qualcosa di divino, enormemente più grande di noi, e di non poterli mai realizzare in pienezza. È la nostra condizione di viatori e pellegrini che richiede il coraggio dell’umiltà, poiché ci vede sempre sul limite del “già e non ancora”, con annessi e connessi i nostri stati d’animo altalenanti. Riusciamo a vivere un po’ più veri e ci sembra di toccare il cielo con un dito; incontriamo un momento di difficoltà, o ci scontriamo con le nostre paure e ci sembra di non essere capaci di vivere i valori di cui pure sentiamo così forte il fascino… Un atteggiamento umile ci chiede di non sminuire le esigenze dei valori per ridurli alla nostra portata, così come esige che non ci svalutiamo a motivo delle nostre fatiche; ci chiede di non cedere allo scetticismo di fronte alla durezza del cammino, tirando a campare; ci chiede di non accontentarci di ripetere in modo monotono valori e ideali illudendoci che il proclamarli equivalga al viverli; ci chiede di non farci paladini di valori e ideali divenendo controllori di come gli altri li vivono, ma di sporcarci le mani vivendoli noi nel quotidiano…

Umiltà è coraggio di portare la responsabilità di un compito nella fede, accettando che tutto dipende da me, pur nella consapevolezza che tutto dipende da Dio.

Umiltà è coraggio di rispondere oggi a Dio che mi parla con la sua Parola e con il suo Spirito, credendo alla novità e urgenza del suo appello e del mio ascolto; è accettare la mia debolezza senza smettere di cercare il Signore e godere di ogni piccolo passo verso di lui.

Umiltà è coraggio di avere uno sguardo contemplativo, in grado di scorgere Dio all’opera nella vita e nelle piccole cose di ogni giorno; ed è imparare la contemplazione dalla parola di Dio, fedelmente frequentata ogni giorno.

Umiltà è coraggio di riconoscere che esiste anche il mondo dell’altro, non soltanto il mio mondo, e la necessità di rimanere sempre aperto all’alterità come a una porta che mi introduce nella vastità del mistero di Dio; riconoscere che c’è un’oggettività che vincola tutti ed è sempre da ricercare e conoscere, evitando quel realismo ingenuo che apre la strada a fondamentalismi di ogni genere. Il mistero, invece, è sempre davanti a noi e ci provoca: di fronte a esso siamo tutti, e sempre, discepoli…

Umiltà è coraggio di accogliere la correzione del fratello senza sentirsi giudicati, sapendovi riconoscere il gesto educativo di Dio che ci visita provvidenzialmente perché progrediamo nella via della verità e della vita.

Umiltà è coraggio di avere a cuore a nostra volta il fratello e il suo cammino, di scomodarci per lui e rischiare l’impopolarità e il suo eventuale rifiuto pur di aiutarlo con la correzione fraterna.

Umiltà è coraggio di riconoscere e accettare che si riesce ad accogliere e a divenire solo ciò che si dona; è riconoscere e accettare che non siamo niente di più di ciò che riceviamo, e che perciò riusciamo a comunicare soltanto ciò che abbiamo accolto. Questa è la legge dell’incarnazione che diventa nostra in un atteggiamento di umile obbedienza e abbandono: la vita si possiede solo nel momento in cui la si dona. Chi vuole tenere la vita per sé, la perde. Solo chi la offre, la possiede.2

Umiltà è coraggio di dare un volto inedito – il proprio – alla buona notizia della salvezza che ancora oggi Dio, con il suo Spirito, opera in ogni creatura che si apre a lui con fiducia.

 

 

  

1 Louf A., L’umiltà, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 2000, pp. 26-27.

2 Molari C., Per un progetto di vita, Borla, Roma 1985, p. 18.

Enzo Brena

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