A 1.500 giorni di prigionia il destino di questa madre cattolica resta sospeso tra giustizia e oblio. L'attenzione sul suo caso, all'interno e all'estero è allo stesso tempo la sua salvezza e la sua condanna.
C’è da credere che il 1.500esimo giorno passato dietro le sbarre da Asia Bibi non sarà “diverso”, ma sarà segnato da solitudine, sconforto, incertezza e distacco dalla famiglia. Ci sono voci discordanti sulla salute della mamma 49enne cattolica pachistana e sulla sua solidità psicologica, nessuno sulla sua fede. Il capitolo 14,1 del Vangelo di Giovanni («Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me») è per sua ammissione tra i brani evangelici che più la confortano. Dubbi e voci ci sono sempre stati e questo fa anche capire la tensione che è cresciuta attorno al suo caso, tra cristiani e musulmani ma anche tra cristiani stessi, non sempre univoci sulle mosse utili a liberarla e a garantirle sicurezza.
Trasferita nella prima metà di giugno dal carcere di Sheikhupura, non lontano dal villaggio di origine, Asia Bibi vive ora i suoi giorni tra preghiera e attività pratiche nella prigione di Multan, ingentilita dall’aggettivo «femminile» in cambio di altre sei ore di viaggio per i familiari. Tanti chilometri supplementari per sostenitori e avvocati, ma ancora di più per il marito e i cinque figli che si alternano per confortarla: da percorrersi in incognito e nella paura di essere riconosciuti e attaccati. La richiesta di trasferimento in un’altra prigione è stata rigettata per ora. «Vi prego di fare tutto il possibile per la mia libertà. Sono forte, ma mi indebolisco giorno dopo giorno», dice a chi la visita.
A 1.500 giorni di prigionia il destino di questa madre cattolica resta sospeso tra giustizia e oblio. L’attenzione sul suo caso, all’interno e all’estero è allo stesso tempo la sua salvezza e la sua condanna. Perché è ormai diventata un simbolo che semplicemente non può scomparire, magari in una Paese accogliente. Come ha fatto, ad esempio, la quattordicenne Rimsha Masih, rifugiatasi in Canada con la famiglia dopo il rilascio dall’accusa inventata di blasfemia da parte di un imam rancoroso. Come potrebbe presto toccare a una famiglia cattolica di un villaggio della provincia meridionale del Sindh.
L’inizio della storia è purtroppo usuale: il tentato ratto a scopo matrimoniale da parte di un possidente locale della cattolica Nazia Masih. A prenderne le difese non solo il vescovo locale ma anche la famiglia. A partire da una zia, suor Marie Khurshid, responsabile dell’ospedale cattolico Santa Teresa a Mirpurkhas, dove anche Nazia lavora come infermiera. L’epilogo potrebbe essere – almeno per le due donne ora nel mirino dei fondamentalisti –l’emigrazione almeno temporanea.
Stefano Vecchia
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