Le politiche familiari e nataliste si distinguono da quelle sociali per essere universali. L’universalità della misura è garantita solo dal fatto che la somma arriva a categorie finora escluse
La promessa, dunque, è stata mantenuta: a luglio vedrà la luce il tanto atteso «Assegno unico e universale ». In realtà la nuova misura è un «assegno-ponte», perché di «unico» e di «universale» nel decreto approvato dal Consiglio dei ministri del 4 giugno non c’è moltissimo. Si tratta infatti di un provvedimento transitorio, in attesa della riforma che partirà da gennaio 2022. Nel poco tempo a disposizione, tuttavia, era difficile fare meglio: in questo senso la misuraponte è un successo. Il problema, con soli 3 miliardi a disposizione per 6 mesi, era trovare subito una soluzione sostenibile ed equa, senza dover mettere mano frettolosamente a una riforma più ampia e complessa che dovrà superare, accorpandoli, gli assegni familiari, i vari bonus bebè e le detrazioni per i figli a carico. Tanta carne al fuoco, insomma.
E il compromesso trovato dai tecnici del ministero dell’Economia e delle finanze regge bene, oltre ad avere il pregio della semplicità. A debuttare è un assegno-figli (fino a 18 anni) per chi non lo ha mai avuto, i lavoratori autonomi, i precari, i disoccupati. Il suo importo massimo, cioè per i redditi più bassi, è di 167,5 euro al mese a figlio, che sale a 217,8 euro al mese se i figli sono più di tre, perché sono premiati i nuclei numerosi. In caso di figlio disabile la cifra aumenta di 50 euro. Chi vorrà ottenere l’assegno dovrà presentare all’Inps la dichiarazione Isee.
Per partire senza intoppi si è deciso di lasciare inalterato l’attuale sistema delle detrazioni per i figli a carico, che partono da 80 euro al mese (101 per gli under-3) e riescono ad essere percepite solo da chi paga le tasse, dunque non dai disoccupati o dai redditi molto bassi, e il loro importo cala rapidamente col reddito fino ad azzerarsi. È rimasto intatto anche l’impianto degli assegni per il nucleo familiare di lavoratori dipendenti e pensionati, ma con una novità significativa: l’importo è aumentato di 37,5 euro a figlio, e di 55 euro ciascuno se nel nucleo ci sono più di 3 figli. Insomma, la formula trovata è stata quella di lasciare le detrazioni e introdurre un assegno per gli autonomi e i disoccupati che replicasse il più possibile quello dei dipendenti, anche se i due benefit sono legati a due redditi diversi, uno all’Isee, l’altro al reddito familiare Irpef.
L’assegno nato il 4 giugno, e che se ne andrà il 31 dicembre, mantiene dunque la promessa del via dal primo luglio, ma gli ostacoli da superare per arrivare al vero Assegno unico e universale sono molti. Il primo pro- blema è rappresentato dall’eccessiva progressività. Se infatti la cifra per i redditi più bassi è significativa, quasi 170 euro al mese, con due stipendi di poco superiori ai 1.500 euro mensili l’importo già scende attorno ai 50-60 euro a figlio, per azzerarsi oltre i 70-80mila euro lordi per i dipendenti e ai 50.000 Isee per gli autonomi. Da qui si capisce che prima di parlare di «rivoluzione» bisognerà trovare risorse aggiuntive, a prescindere dall’incorporazione nell’importo dell’assegno del valore delle detrazioni. La curva che cala così rapidamente al crescere del reddito andrà infatti corretta se si vorrà allineare il benefit italiano ai suoi cugini europei. Il principio per cui ciascun figlio ha diritto a una dote minima di importo dignitoso, che può salire per i più poveri, al momento continua ad essere ribaltato, se si guardano le cifre.
Il compromesso trovato dai tecnici del ministero dell’Economia e delle finanze regge bene, oltre ad avere il pregio della semplicità. Ma la curva che cala rapidamente al crescere del reddito andrà corretta se si vorrà allineare il benefit italiano ai suoi cugini europei
La famiglia, in questo senso, si merita più dei 6 miliardi stanziati, se si pensa che questa è la stessa cifra spesa per aumentare di 20 euro il «bonus» fiscale per i dipendenti con redditi medi. Le politiche familiari e nataliste si distinguono da quelle sociali proprio per essere universali. E al momento l’universalità della misura è garantita solo dal fatto che – finalmente, questo va riconosciuto – l’assegno arriva a categorie finora escluse. I figli sono cioè messi tutti sullo stesso piano se si parla di categorie di lavoratori, tuttavia non c’è ancora universalità nel senso di una misura che riconosca una base comune uguale per tutti i figli, anche quelli del ceto medio. Il lavoro da fare, insomma, tecnico e politico, è tanto. Con l’assegno-ponte il governo sembra aver chiarito che, in ogni caso, l’1% non avrà nulla. Il nodo da sciogliere è se riuscirà ad avere abbastanza anche il 20% dei contribuenti.
Un dato da considerare, non irrilevante, riguarda l’infedeltà fiscale. La Corte dei conti, nell’ultima relazione sui redditi degli italiani, ha ricordato che l’evasione Irpef ammonta a 35 miliardi, e sarebbe una beffa se l’assegno, per inseguire un principio di equità formale, finisse per avallare un’iniquità sostanziale diventando una misura che preleva da chi paga le tasse per dare molto anche a chi non le paga. I modelli virtuosi in Europa, in termini di politiche familiari, prevedono un assegno uguale per tutti i figli, un bonus molto più alto per i veri poveri, e un sistema fiscale che si può anche sostituire all’assegno e premia chi paga più tasse e ha figli a carico. Dall’assegno-ponte alla rivoluzione per la famiglia non manca molto, ma il salto di qualità non è scontato.
di Massimo Calvi, tratto da avvenire.it
Powered by Froala Editor
Versione app: 3.25.0 (f932362)