«Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell'attesa della tua venuta.» Al cuore della celebrazione eucaristica, queste parole ricordano al cristiano un elemento costitutivo della sua identità di fede: l'attesa della venuta del Signore. «Il cristiano», ha scritto il cardinale Newman, «è colui che attende il Cristo.»
del 01 gennaio 2002
«Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta.» Al cuore della celebrazione eucaristica, queste parole ricordano al cristiano un elemento costitutivo della sua identità di fede: l’attesa della venuta del Signore. «Il cristiano», ha scritto il cardinale Newman, «è colui che attende il Cristo.» Certo, nei tempi del «tutto e subito», dell’efficacia e della produttività, in cui anche i cristiani appaiono spesso segnati da attivismo, parlare di «attesa» può rischiare l’impopolarità e l’incomprensione totale: a molti infatti «attesa» appare sinonimo di passività e inerzia, di evasione e de- responsabilizzazione. In realtà il cristiano, che non si lascia definire semplicemente da ciò che fa, ma dalla relazione con il Cristo, sa che il Cristo che egli ama e in cui pone la fiducia è il Cristo che è venuto, che viene nell’oggi e che verrà nella gloria. Davanti a sé il cristiano non ha dunque il nulla o il vuoto, ma una speranza certa, un futuro orientato dalla promessa del Signore: «Sì, verrò presto» (Apocalisse 22,20). In realtà «attendere», a partire dalla sua etimologia latina (ad-tendere), indica una «tensione verso», «un’attenzione rivolta a», un movimento centrifugo dello spirito in direzione di un altro, di un futuro. Potremmo dire che l’attesa è un’azione, però un’azione non chiusa nell’oggi, ma che opera sul futuro. La Seconda lettera di Pietro esprime questa dimensione affermando che i cristiani affrettano, con la loro attesa, la venuta del giorno del Signore (2 Pietro 3,12).
La particolare visione cristiana del tempo, che fa del credente «un uomo che ha speranza» (cfr. 1Tessalonicesi 4,13), «che attende il Cristo» (Filippesi 3,20; Ebrei 9,28), che è definito non solo dal suo passato ma anche dal futuro e da ciò che il Cristo in tale futuro opererà, dovrebbe diventare una preziosa testimonianza (o, forse, controtestimonianza) per il mondo attuale dominato da una concezione del tempo come tempo vuoto che evolve in un continuum che esclude ogni attesa essenziale e ingenera quel fatalismo e quella incapacità di attesa tipici dell’uomo moderno. Venir meno a questa dimensione significa pertanto non solo sminuire la portata integrale della fede, ma anche privare il mondo di una testimonianza di speranza che esso ha diritto di ricevere dai cristiani (cfr. 1Pietro 3,15). L’uomo è anche attesa: se questa dimensione antropologica essenziale, che afferma che l’uomo è anche incompiutezza, viene misconosciuta, allora il pericolo dell’idolatria è alle porte, e l’idolatria è sempre auto sufficienza del presente. La venuta del Signore impone invece al cristiano attesa di ciò che sta per venire e pazienza verso ciò che non sa quando verrà. E la pazienza è l’arte di vivere l’incompiuto, di vivere la parzialità e la frammentazione del presente senza disperare. Essa non è soltanto la capacità di sostenere il tempo, di rimanere nel tempo, di perseverare, ma anche di sostenere gli altri, di sopportarli, cioè di assumerli con i loro limiti e portarli. Ma è l’attesa del Signore, l’ardente desiderio della sua venuta, che può creare uomini e donne capaci di pazienza nei confronti del tempo e degli altri.
E qui vediamo come l’attesa paziente sia segno di forza e di solidità, di stabilità e di convinzione, non di debolezza. E soprattutto è l’attitudine che rivela un profondo amore, per il Signore e per gli altri uomini: «L’amore pazienta» (1Corinti 13,4). Mossa dall’amore, l’attesa diviene desiderio, desiderio dell’incontro con il Signore (2 Corinti 5,2; Filippesi 1,23). Anzi, l’attesa del Signore porta il cristiano a disciplinare il proprio desiderio, a imparare a desiderare, a frapporre una distanza tra sé e gli oggetti desiderati, a passare da un atteggiamento di consumo a uno di condivisione e di comunione, a un atteggiamento eucaristico. L’attesa del Signore genera nel credente anzitutto la gratitudine, il rendimento di grazie e la dilatazione del cuore che si unisce e dà voce all’attesa della creazione tutta: «La creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio [...] e nutre la speranza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione» (Romani 8,19-21). È la creazione tutta che attende cieli e terra nuovi, che attende trasfigurazione, che attende il Regno. L’attesa della venuta del Signore da parte dei cristiani diviene così invocazione di salvezza universale, espressione di una fede cosmica che consoffre con ogni uomo e con ogni creatura. Ma se queste sono le valenze dell’attesa del Signore, se questa è una precisa responsabilità dei cristiani, dobbiamo lasciarci interpellare dall’accorato e provocante appello lanciato a suo tempo da Teilhard de Chardin: «Cristiani, incaricati, dopo Israele, di custodire sempre viva la fiamma bruciante del desiderio, che cosa ne abbiamo fatto dell’attesa?».
Enzo Bianchi
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