«...mi permetto di chiederle un parere su un caso che mi è stato sottoposto da un'infermiera che lavora in rianimazione. Si tratta di una ragazzina, di 14 anni, nata tetraplegica, che è ormai in rianimazione da più di un anno. Viene molto spesso tenuta sotto sedazione, ma anche quando non è sedata non è possibile entrare in relazione con lei in nessun modo. Se non fosse attaccata al respiratore morirebbe... La sospensione della ventilazione meccanica sarebbe un atto eutanasico, oppure la prosecuzione della stessa ventilazione è accanimento terapeutico?».
del 01 gennaio 2002
Gentile Professoressa Navarini,
mi permetto di chiederle un parere su un caso che mi è stato sottoposto da un'infermiera che lavora in rianimazione. Si tratta di una ragazzina, di 14 anni, nata tetraplegica, che è ormai in rianimazione da più di un anno. Viene molto spesso tenuta sotto sedazione, ma anche quando non è sedata non è possibile entrare in relazione con lei in nessun modo. Se non fosse attaccata al respiratore morirebbe. A quanto mi ha detto questa infermiera la ragazzina soffre terribilmente e tenerla attaccata al respiratore non fa altro che prolungare le sue sofferenze in modo atroce. La ragazzina non ha alcuna speranza di guarigione e per quello che capisco io la ventilazione meccanica ritarda artificialmente la morte, senza che la ragazzina riceva un reale beneficio. È semplicemente mantenuta in vita e si riesce solo a protrargli di qualche tempo la vita, a prezzo di ulteriori e dure sofferenze. In un caso del genere, fatta salva la doverosità di proseguire alimentazione e idratazione, la sospensione della ventilazione meccanica sarebbe un atto eutanasico, oppure la prosecuzione della stessa ventilazione è accanimento terapeutico?
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Caro dottore,
purtroppo i pareri sui casi clinici sono sempre colmi di 'se'e di “forse”, perché ogni situazione è unica, e l'applicazione dei principi richiede informazioni estremamente particolareggiate, che non sono disponibili in questa sede. Vi sono aspetti nella descrizione del caso che potrebbero far pensare all’accanimento terapeutico, cioè alla somministrazione di terapie sproporzionate, ovvero 'in-utili' e anzi gravose sui due versanti della valutazione oggettiva e soggettiva. Un’analisi attenta per quanto possibile con gli elementi dati, tuttavia, permette di individuare nella sospensione del sostegno vitale in questo caso alcuni punti che si spiegano solo in un’ottica eutanasica. 1. L’imminenza della morte. Una premessa dell’accanimento terapeutico è che la persona sia morente. Non è chiaro se questa sia la condizione della ragazzina, dato che da più di un anno è in rianimazione. Se la condizione è stazionaria, indipendentemente dalla sua gravità e dal dolore che comporta, non si può definire accanimento terapeutico l'uso del respiratore. Si veda in questo senso la Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’ eutanasia Iura et bona (1980): 'Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati [corsivo mio], è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi' (cap. IV).
2. L’interruzione della terapia. La nozione di accanimento terapeutico presentata dalla “Iura et bona” autorizza a non iniziare trattamenti che appaiono inutili e anzi gravosi per il paziente e a interrompere terapie che hanno deluso le speranze riposte in essi (ibid.). Quando la ragazzina, più di un anno fa, è stata posta sotto ventilazione c’erano evidentemente indicazioni e motivazioni per farlo. Non si puntava alla guarigione, che si sapeva impossibile, ma al mantenimento e al supporto di funzioni vitali altrimenti in crisi. Perché ora tali motivazioni verrebbero meno? Non siamo di fronte all’ennesimo tentativo di rianimazione in un paziente terminale, o al processo degenerativo nella fase estrema del cancro al polmone. Qui abbiamo una quattordicenne che grazie alla ventilazione meccanica può respirare. Per lei il respiratore è essenziale alla sopravvivenza, e toglierlo equivarrebbe a causarne direttamente la morte.
3. L’efficacia del trattamento. Nel giudizio di proporzione-sproporzione devono intervenire in primo luogo considerazioni oggettive, che stabiliscono l'inefficacia terapeutica o palliativa del trattamento. Qui l'efficacia c’è, ed è data dal fatto che attraverso la ventilazione meccanica la paziente ha i benefici della respirazione. In linea di principio il respiratore non è dunque un trattamento sproporzionato, perché più che 'prolungare' la vita la conserva, prevenendo la dispnea e la conseguente morte per soffocamento. Nella valutazione dell'efficacia, non rientra solo il 'successo tecnico' dell'operazione - con la ventilazione respira, senza non respira - , ma il miglioramento del quadro clinico (valore terapeutico) o delle condizioni generali (valore palliativo). Nel nostro caso la ventilazione meccanica non ha certamente valenza terapeutica, ma è un trattamento che migliora le condizioni generali, ovviando all’insufficienza respiratoria.
4. La gravosità del trattamento. In secondo luogo occorre valutare la gravosità del trattamento per la paziente. L'eventuale inefficacia è una condizione necessaria ma non sufficiente per dichiarare l'accanimento terapeutico: occorre infatti tenere presenti anche le motivazioni concrete del paziente/morente, che potrebbe essere pronto a morire (ad “arrendersi alla morte”, come dice la psicologa palliativista Marie De Hennezel) o potrebbe “volere ancora un po’ di tempo”, per ragioni personali e non sindacabili (ricevere gli ultimi sacramenti, riconciliarsi con qualcuno, sistemare i suoi affari, fare testamento, salutare i suoi cari o altro). Nel caso di questa ragazzina, incapace di comunicare, conviene considerare l’elemento soggettivo della gravosità partendo dalle sue attuali condizioni di sofferenza.
5. Le sofferenze atroci. È difficile valutare in modo corretto se davvero la ragazzina “soffra in modo terribile”. Il fatto che spesso sia sedata indica che esiste una modalità, già praticata, di rispondere efficacemente a quel dolore, e che dunque la situazione può essere gestibile. Non c’è modo di sapere che cosa desideri la paziente, ma nel dubbio due devono essere gli orientamenti: si deve optare per l'alleviamento delle sofferenze fisiche attraverso cure palliative adeguate, poiché solo un esplicito consenso dell'interessato può giustificare l'eroica sopportazione del dolore; si deve optare per la vita, cioè ritenere che ognuno desideri mantenere la propria vita anche quando gravemente compromessa. D’altra parte, pur in presenza di sofferenze atroci, non si potrebbe usare la morte come mezzo per alleviarle. È quanto dice la definizione di eutanasia dell’enciclica Evangelium Vitae (1995), riprendendo quasi esattamente quella della Iura et bona : l’eutanasia è “un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore [corsivo mio]” (n. 65).
6. Il controllo del dolore. I mezzi per lenire le sofferenze esistono, ad esempio attraverso l’aumento della sedazione e dell'analgesia, e sono leciti anche nel caso in cui anticipino indirettamente la morte (un'eventualità sempre più rara con i progressi della farmacologia). Osservava già papa Pio XII, nel Discorso ad un gruppo internazionale di medici del 24 febbraio 1957, che “la soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici … è permessa”, poiché, “in questo caso… la morte non è voluta o ricercata in alcun modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace” ( Iura et bona, cap. III). Ciò su cui sono chiamate ad intervenire le cure palliative rettamente intese sono i sintomi che si accompagnano alla fase terminale di malattia, primo fra tutti il dolore (cfr. C. Navarini, Cure palliative al bivio: eliminare la sofferenza non il sofferente, ZENIT, 22 novembre 2004).
Oltre a somministrare i farmaci adeguati, bisognerà cercare di rimuovere per quanto possibile le cause fisico-psichiche del dolore, ad esempio sostituendo terapie o trattamenti troppo gravosi con altri meglio tollerati. Non è chiaro se al momento, nel caso in esame, il respiratore sia fonte di ulteriori sofferenze per la piccola paziente: probabilmente è stata sottoposta a tracheostomia, dunque non ha i maggiori disagi correlati al tubo endotracheale; inoltre non è stata riportata la presenza di ulcerazioni o altro che possano complicare l’efficacia o la proporzionalità costi-benefici della ventilazione.
7. La “fatica” di vivere. Il problema dunque non sembra essere tanto la ventilazione, ma la vita stessa della ragazza, con il suo lungo carico di fatica e di dolore. Mi chiedo però quanto questa prostrazione per la condizione di fatica e di pena sia imputabile alla ragazza e quanto a chi la circonda. Gli psicologi dicono che in simili circostanze ci si può ingannare: si vorrebbero ad un certo punto sospendere i trattamenti di sostegno vitale perché “il paziente non ce la fa più”; in realtà, sono coloro che lo assistono “a non farcela più”, e a subire la forte tentazione di decidere, al posto del paziente, che in simili condizioni sia preferibile la morte. In alcuni casi è eticamente lecita la richiesta di un paziente che, gravato di una serie di problemi legati all’imminenza della morte, chiede di “essere lasciato morire in pace”, senza tubi e aghi, a casa propria, circondato dall’affetto dei familiari. In questo caso, però, la ragazza non ha espresso alcuna richiesta simile, e, soprattutto, proprio la sospensione della ventilazione sarebbe fonte di ulteriore dolore – la “fame d’aria” – per quanto di breve durata perché rapidamente seguita dalla morte. Per ovviare a tale ultimo dolore la piccola andrebbe posta sotto sedazione, esattamente come si può fare – e in parte si sta facendo – ora. Dunque perché farlo?
8. L’onerosità. Dopo gli altri aspetti, è lecito considerare l'onerosità del trattamento per il paziente, i suoi famigliari e la società. Per valutare questo punto occorrerebbero maggiori informazioni sul tipo di dispositivo e di convenzioni sanitarie utilizzati per la ventilazione. In generale, il mantenimento in vita mediante respiratore non risulta sproporzionatamente impegnativo dal punto di vista economico-assistenziale. Talora si fanno confluire con troppa foga le considerazioni economiche nel concetto di “futilità medica”, perdendo di vista il bene delle persone. Inoltre, nel mondo occidentale il fatto che i trattamenti di sostegno vitale possano sottrarre personale e risorse ad altri pazienti più bisognosi è per lo più teorico, dal momento che la ventilazione meccanica rientra ormai a buon diritto nelle 'terapie ordinarie', che ogni struttura sanitaria è in grado di assicurare senza costi o rischi eccessivi. Usando le parole della Iura et bona , si tratta di uno 'dei mezzi normali che la medicina può offrire' (cap. IV), di cui, precisa la Dichiarazione, “è sempre lecito accontentarsi”, rinunciando eventualmente ad altri trattamenti o terapie sperimentali, rischiosi, gravosi che presentano poche o nessuna probabilità di miglioramento delle condizioni di salute.
9. La straordinarietà dei mezzi. È importante precisare che, “in mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio” ( ibid. ); tuttavia, “è anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi”. La ventilazione meccanica non rientra in questa categoria di mezzi – sperimentali e rischiosi – ma, come già osservato, nelle “cure normali dovute all’ammalato in tali casi”, almeno finché non si rivela uno strumento di provata inefficacia, gravosità e onerosità.
10. L’artificialità dei mezzi. Per chiarire ulteriormente la questione potrà giovare il confronto fra due modelli di dichiarazioni anticipate di volontà diffusi parecchio tempo fa negli Stati Uniti, ma ancora attuali quanto alla differenza di impostazione etica sottostante. L’Associazione degli Ospedali Cattolici USA, nel 1974, ha redatto la Christian Affirmation of Life, in cui si afferma: “Se non potrò avere parte attiva nelle decisioni riguardanti il mio futuro e se non ci sarà una ragionevole aspettativa della mia guarigione dalle condizioni di invalidità fisica o mentale, richiedo che non vengano utilizzati mezzi straordinari per prolungare la mia vita”. Con parole solo apparentemente simili, la Società Americana per l’Eutanasia, nella sua proposta di testamento di vita, dice: “Se dovesse insorgere la situazione in cui non esiste la ragionevole aspettativa della mia guarigione dalle condizioni di invalidità fisica o mentale, richiedo che mi si lasci morire e che non mi si tenga in vita con mezzi artificiali o eroici ”. Mentre non può considerarsi un mezzo straordinario, la ventilazione meccanica è certamente un mezzo artificiale di mantenimento in vita.
Conclusione: la proporzionalità dei mezzi. Mi sembra alquanto dubbio che la continuazione della ventilazione meccanica in questo caso possa definirsi accanimento terapeutico, perché tale trattamento non è inutile in quanto previene efficacemente la dispnea, non si può provare che sia eccessivamente gravoso per la paziente, (e comunque il dolore può essere lenito), e non è di norma particolarmente oneroso, se confrontato con i due aspetti precedenti. Al contrario, l’unico possibile esito della sospensione del trattamento sarebbe la morte della ragazza per dispnea, senza che tale abbreviamento della vita consenta in alcun modo una migliore “preparazione alla morte”. In circostanze come questa è tuttavia possibile commettere errori di valutazione, e compiere in buona fede scelte sbagliate. Occorre allora estrema chiarezza riguardo all' intenzione nei confronti del/della paziente: si deve sempre sospendere o non intraprendere un trattamento perché evidentemente sproporzionato, favorendo così condizioni migliori di preparazione alla morte ineluttabile e imminente, non per 'porre fine alle sofferenze', o per l'incapacità dei familiari o dei curanti di sopportarne le pene. La valutazione di proporzionalità dei mezzi usati, in definitiva, è il risultato di un giudizio ponderato che tiene conto di molteplici fattori: “si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che si ci può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali” (Iura et bona, cap. IV). Sempre, tuttavia, tale giudizio deve muovere dalla volontà onesta e fedele di difendere il valore sacro e inviolabile della vita umana.
Claudia Navarini
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