Mettiamo caso di essere un grande cantante! Avere un grande successo e i concerti sono sold-out. Ma per un fischio all'orecchio tutto cambia...
Mettiamo caso di essere un grande cantante! Mettiamo caso anche di avere un successo non da poco e in continuo rilancio sul grande pubblico italiano! Mettiamo caso addirittura che una famosissima etichetta voglia un contratto con noi. Mettiamo caso, per assurdo, che cominci un merchandising ufficiale con il nostro nome e i primi grandi concerti nei palazzetti! Mettiamo caso però...che dopo uno dei tanti concerti si cominci a sentire un fischio all’orecchio...vabbè sarà il volume alto dell’impianto troppo alto. Andrà via andando a dormire. Mettiamo caso poi che la nostra intelligenza nello scrivere testi di spessore venga premiata e valorizzata, e mettiamo caso che comincino i concerti in tutta Italia sold-out e si intraveda la possibilità di concerti all’estero! Mettiamo caso che addirittura ci mettessimo a scrivere un libro per raccontare la nostra storia, il nostro successo. Ma mettiamo caso...che quel fischio all’orecchio ritorni. Mettiamo caso che anche solo indossare delle cuffie per comporre, ascoltare e lavorare stia diventando fastidioso e doloroso. Forse sarebbe meglio fare una visita. Mettiamo caso che il dottore non sembri cosi entusiasta dalla analisi: “Lei ha l’acufene. È cronico e incurabile”.
Questa è la storia di uno dei cantautori più interessanti del panorama hip-hop italiano: Caparezza. Siamo nel 2015. Michele Salvemini, in arte Caparezza, comincia a sentire questi strani fischi all’orecchio. Vive una vera e propria crisi. Non vuole più scrivere. Non vuole più cantare. Si lascia andare. Urge una scelta per capire che direzione far prendere alla sua vita.
Descriverà questa malattia come un LARSEN (suono stridente provocato dal microfono puntato verso la cassa), fastidioso e inevitabile.
“Mi rivolsi ad uno specialista|Che mi disse c'è una sola cura|Come prima cosa nella lista|Parla con l'orecchio, chiedi scusa|Poi compresse, flebo doppie|RM, ecodoppler|Ecodiete, ecatombe|Larsen indenne, era stalker […] So come ama Larsen e so com'è ammalarsene|So che significa stare in un|cinema con la voglia di andarsene|Contro Larsen, l'arsenale|Non pensavo m'andasse male|Solo chi ce l'ha comprende quello che sento nel senso letterale|E poi non mi concentro, mi stanca|Sto invocando pietà, Larsen|Il suono del silenzio a me manca|Più che a Simon e Garfunkel|Nel cervello c'è Tom Morello che mi manda feedback|Hai voluto il rock? Ora tienilo|Fino alla fine”
(“Larsen – La tortura”, da Prisoner 709)
Nell’eloquente videoclip di questa canzone Caparezza usa l’immagine di un colibrì gigante che, con una eterna e inquietante presenza, riesce a far immedesimare lo spettatore con il suo male e il suo stato emotivo. Un male incurabile che non fa altro che perseguitare lui, la sua vita, la sua passione, tutte le scelte fatte finora. Per non parlare di quel “fino alla fine” con cui Caparezza conclude la canzone che a noi non può non ricordare Giovanni 13,1: un dolore che diventa rassegnazione o un dolore che diventa amore?
Questa canzone è contenuta nel suo 7° disco, dal titolo “Prisoner 709”. Quello proposto da Caparezza è un vero e proprio viaggio interiore nell’inferno della sua mente, dei suoi dolori e (quindi) dei suoi amori. Perché questo “709” nel titolo? In un’intervista dirà: “È un album sulla mia prigionia. Il ruolo centrale in questo cd lo riveste lo zero, che ha la forma del disco e che rappresenta la scelta tra una parola di 7 o di 9 lettere. 7 e 9 sono due poli. 709 sta per Michele – 7 lettere – o Caparezza – 9.”
Il rapper si sente imprigionato in un corpo non più suo, in un lavoro che non riesce più a portare avanti, in una vita costruita sulla sabbia (Mt 7,26), che non solo sta cedendo, ma che non gli permette di riconoscersi più allo specchio, paragonandosi addirittura a chi soffre di prosopagnosia (non riuscire a riconoscere i volti).
“Non ho figli col grembiule nello scuolabus
Quando ascolto i miei coetanei sembrano più grandi
È il vissuto che fa l'età non i compleanni
Io che mi comporto ancora come i loro pargoli
Tra le mani gli album e non riesco a completarli”
(“Prosopagnosia – Il reato”, da Prisoner 709)
Un album dai suoni cupi, fastidiosi e completamente opposti con quelli del classico (giudicato superficiale e cantante di tormentoni) Caparezza (Fuori dal Tunnel, Vieni a ballare in puglia…). Un album, Prisoner 709, che si chiude con un finale aperto in una rassegnata accettazione. Cosa fare di questo dolore? Come abitare questa prigione? Che scelta fare? Fuggire? Su quale roccia costruire la vita?
“Si tratta ancora di me ma non è lo stesso
Di riposo non ce n'è, qua non è l'ostello
Faccio un ulteriore passo, non dello Stelvio
Via da questo umore basso, livello sterco”
(“Prosopagnosia – Il reato”, da Prisoner 709)
Nonostante la malattia continui a condizionare la vita di Michele, lui si sente provocato e continua a scrivere musica per conoscersi interiormente e per un giorno “scegliere” cosa fare della sua vita. L’ultimo album pubblicato nel 2021 si chiama “Exuvia”, prendendo il nome della pelle secca e indurita dalla quale gli insetti fuoriescono facendo la muta. Caparezza in questo disco sembra cominciare a mostrare i passi fatti, immergere l’ascoltatore nell’abisso dei suoi pensieri per raccontare la sua scelta, vuole fare la muta sfruttando questa crisi. Il disco è una vera e propria continuazione del precedente, infatti inizia con la fuga di Michele dal carcere di “Prisoner 709”. Una fuga che ha il sapore di un cammino (El Sendero) capace di riconoscere da cosa scappare (Fugadà), reimparando a meravigliarsi (Il Mondo dopo Lewis Carrol), riflettendo sugli effetti del tempo che passa (Zeit!) e facendo i conti con una lettera che la morte stessa scrive a Michele (La Certa).
Il cuore dell’album però è la traccia di metà disco, la n°9: “La scelta”:
L’autore si pone in davanti a un bivio: due figure che nella vita hanno saputo (e dovuto) prendere una scelta coraggiosa, soprattutto per le situazioni avverse che hanno vissuto. Una scelta in cui ci si gioca la vita.
Caparezza racconta di come si Beethoven che Mark Hollis hanno dovuto fare una scelta nel momento in cui la loro vita si è trovata provocata. Con non poca sofferenza ognuno a modo proprio ha fatto la propria scelta, chi la musica e chi gli affetti familiari.
Ludwig van Beethoven (talento musicale incredibile, autore delle composizioni più belle e famose del mondo e della storia, sordo fin da giovane, zero affetti, è solo, rapporto difficile con il padre) o Mark Hollis (Frontman dei “Talk Talk”, famosissima band anni 80-90, carriera assicurata, una famiglia a casa con un figlio che ha bisogno del padre)? Michele si pone in questo dubbio. Qui la muta della sua pelle comincia a indurirsi, pronta per il suo spiccare il volo. Al centro del suo disco, della sua fuga dal carcere si chiede cosa davvero conta nella sua vita. Dov’è il suo tesoro (Mt 6,21)?
"O Mark o Bee
Casa e famiglia o canzoni e le prove
O con i figli o tra i corni e le viole
Mi dico giocati il jolly, per dove? O Mark o Bee"
Tutti prima o poi avremo a che fare con il dolore e la sofferenza. Per quanto questo ci spaventi è inevitabile. Il mondo ha un modo (alle volte poetico) di abitare il dolore, di sopportarlo, di ignorarlo, spesso con la rabbia, con l’ingordigia e con la solitudine. La novità assoluta del Cristianesimo sta proprio qui: non c’è dolore che sia voluto o abbandonato da Dio.
Chiara Corbella Petrillo ce lo insegna. Chiara nasce a Roma nel 1984 e dopo alcuni anni di fidanzamento carico di fede si sposa con Enrico nel 2008. Arrivano le prime grandi prove per i due giovani sposi: due gravidanze, a distanza di un anno, che portano Maria Grazia Letizia e Davide Giovanni a morire poco dopo aver ricevuto il battesimo in sala operatoria. I funerali di entrambi vengono vissuti nella pace rendendo Enrico e Chiara consapevoli del loro compito di accompagnare queste creature “fin dove potevamo”. La terza gravidanza arriva presto, anche se, una settimana dopo aver scoperto di essere incinta, Chiara si accorge di una lesione alla lingua. Col fondato sospetto che si tratti di un tumore, il 16 marzo 2011 Chiara affronta durante la gravidanza un intervento per asportare la massa sulla lingua. Accertato che si tratta di un carcinoma alla lingua Chiara sceglie di rimandare le cure per non far male al bambino che porta in grembo. Francesco Petrillo nasce il 30 maggio 2011. Finalmente il 3 giugno, con lo stesso ricovero del parto, Chiara affronta la seconda fase dell’intervento iniziato a marzo. Tornata casa, non appena le è possibile comincia chemioterapia e radioterapia ma il tumore si estenderà comunque. Nel Marzo 2012 si scopre che la malattia è terminale.
Dirà Enrico: “La mia è una storia bellissima perché la malattia e la morte non hanno avuto l’ultima parola, non hanno avuto il potere di farci credere che quello che ci stava accadendo fosse una disgrazia. Abbiamo vissuto l’esperienza dei ladroni crocifissi insieme al Signore.
Solamente loro hanno il coraggio di parlare con Gesù. Siamo stati consolati da un Dio appeso insieme a noi e ci siamo sentiti sempre amati”.
In questa testimonianza Enrico racconta come Chiara ha abitato il dolore insieme a Cristo: “era la notte del 12 giugno quando abbiamo celebrato l’ultima messa insieme. Il Vangelo diceva: siete la luce del mondo e il sale della terra. Chiara era bellissima, era luminosa, era felice e ha salutato dicendo “vi voglio bene a tutti”. Da tempo mi suonava nel cuore quella frase del Vangelo che dice: infatti il mio gioco è dolce e il mio peso è leggero. Ma mentre vedevo il corpo di Chiara consumarsi non riuscivo ad accogliere questa dolcezza, e allora l’ho chiesto a Chiara. Era circa le sette del suo ultimo mattino, era davanti al tabernacolo e le ho chiesto: “Chiara ma è davvero dolce questa croce come dice il Signore?”. Lei mi ha sorriso e con un filo di voce mi ha risposto: “sì Enrico, è molto dolce”.
Chiara morirà il 13 giugno 2012, e per molti è già santa.
Abitare il dolore non è facile eppure Dio ha scelto anche questo come luogo della Sua Presenza e della Sua Consolazione, asciugando ogni lacrima (Ap 21,4) e donando grazia a chi fa spazio ad un giogo dolce (Mt 11,30). Non sappiamo se il buon Caparezza si sia solamente rassegnato ad accettare questa malattia, ma speriamo che la sua exuvia lo porti ad aprire il cuore e la mente a una scelta che, come dice Enrico Petrillo, “lascia spazio alla grazia”.
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Articolo di: Antonino Mazara sdb
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