L'avere trasformato la normalità in comportamento eroico è il frutto di una società dello spettacolo che si nutre di cattivi esempi e se talvolta ne sbandiera di buoni è per la necessità di variare la trama.
Scrivo queste righe per tacitare la parte di me stesso che considera il comandante del traghetto in fiamme Argilio Giacomazzi un eroe. Nel leggere le parole che egli ha pronunciato al culmine della tragedia («Non sto molto bene, ma sarò l’ultimo a mettere i piedi fuori di qui») ci siamo commossi un po’ tutti. E la commozione ha ceduto il passo all’ammirazione quando, facendo seguire i gesti alle parole, il comandante ha abbandonato la nave soltanto dopo avere coordinato i soccorsi. Eppure non ha fatto nulla di straordinario. Come nulla di straordinario fanno i funzionari pubblici che rifiutano una mazzetta e in genere le tantissime persone che compiono ogni giorno il proprio dovere senza lasciarsi peggiorare dall’abitudine e dalla paura.
L’avere trasformato la normalità in comportamento eroico è il frutto di una società dello spettacolo che si nutre di cattivi esempi, e se talvolta ne sbandiera di buoni non è per slancio etico ma per la necessità di variare la trama. Depurata dall’enfasi retorica, la condotta coerente di Giacomazzi nell’emergenza è un inno al lavoro ben fatto. Chi ha una responsabilità non scappa. Non si tratta di una scelta epica, ma di una prassi umana che l’esistenza di tanti capitan Tremarella, non soltanto a bordo della Concordia, ha ammantato di una vena simbolica sproporzionata alle circostanze. Gli eroi sono coloro che fanno qualcosa che non sarebbero tenuti a fare. Mentre il comandante che comanda fa esattamente ciò per cui è stato scelto. Non è dunque un eroe, ma qualcuno di più socialmente utile perché più facilmente imitabile. Un uomo.
Massimo Gramellini
Versione app: 3.25.0 (f932362)