Non è vero che penso sempre a H. Il lavoro e la conversazione lo rendono impossibile. Ma i momenti in cui non penso a lei sono forse i peggiori. Perché allora, anche se ne ho dimenticato la ragione, tutto è velato da una vaga sensazione di errore, di difetto.
del 01 gennaio 2002
Non è vero che penso sempre a H. Il lavoro e la conversazione lo rendono impossibile. Ma i momenti in cui non penso a lei sono forse i peggiori. Perché allora, anche se ne ho dimenticato la ragione, tutto è velato da una vaga sensazione di errore, di difetto. Come in quei sogni dove non accade nulla di spaventoso nulla che valga la pena raccontare il mattino dopo a colazione - ma dove l’atmosfera e le cose sanno di morte. Così ora. Vedo le bacche del sorbo che stanno volgendo al rosso e per un attimo non so perché proprio queste bacche debbano mettermi addosso tanta tristezza. Sento suonare una pendola e il suono non ha più quel qualcosa di sempre. Che cos’ha il mondo? Perché è diventato così piatto, così meschino e consunto? Poi mi ricordo.
Questa è una delle cose che mi fanno paura. Lo strazio, i momenti di follia notturna, passeranno un po’ alla volta, com’ è nell’ ordine della natura. Ma che verrà dopo? Solo questa apatia, questa mortale piattezza? Arriverà il momento in cui non mi chiederò più che cosa ha trasformato il mondo in un vicolo grigio perché troverò normale il suo squallore? Il dolore si acqueta dunque in una noia soffusa di una vaga nausea?
Emozioni, emozioni, sempre emozioni. Proviamo invece con la riflessione. Dal punto di vista razionale, la morte di H. quale nuovo fattore ha introdotto nel problema dell’universo? Quali ragioni mi ha dato per mettere in dubbio tutto ciò a cui credo? Che ogni giorno accadano cose del genere, e peggio, lo sapevo, e credevo di averlo messo in conto. Ero stato avvertito - mi ero avvertito - che non dovevo fare assegnamento sulla felicità terrena. Ci erano state persino promesse sofferenze. Rientravano nel programma. Ci era stato detto persino: «Beati quelli che piangono» e io l’avevo accettato. Non ho nulla che non fosse nei patti. Certo, è diverso quando accade a te e non agli altri, nella realtà e non nella fantasia. Sì, ma per un uomo sano di mente la differenza deve essere così grande? No. E non lo sarebbe per un uomo la cui fede fosse stata vera fede, la cui partecipazione alle pene altrui fosse stata vera partecipazione. La risposta è fin troppo chiara. Se il mio castello è crollato al primo colpo, è perché era un castello di carte. La fede che «aveva messo in conto queste cose» non era fede ma fantasia. Metterle in conto non era vera partecipazione umana. Se mi fosse veramente importato, come credevo, dei dolori del mondo, non sarei poi stato travolto dal mio. Era una fede immaginaria che si trastullava con gettoni innocui con sopra scritto «malattia», «sofferenza», «morte», «solitudine». Credevo di avere fiducia nella corda, finché è venuto il momento di sapere se essa mi avrebbe retto. Ora che deve reggermi, scopro che la mia fiducia non esiste.
Nel bridge, mi dicono, si deve giocare a soldi, «altrimenti il gioco non è serio». Qui è la stessa cosa, a quanto pare. La dichiarazione - Dio o nessun Dio, Dio buono o Sadico Cosmico, vita eterna o il nulla - non è seria se non c’è una posta di qualche valore. E fino a che punto sia seria lo si scopre solo quando le puntate diventano paurosamente alte, quando si capisce che la posta in gioco non è un pugno di gettoni o di monetine, ma la nostra intera ricchezza. Niente che sia meno di questo può scuotere l’uomo (non, almeno, un uomo come me) dalle sue riflessioni meramente verbali e dalle sue convinzioni meramente immaginarie. Per farlo tornare in sé, il colpo deve prima rincretinirlo. Solo la tortura tira fuori la verità. Solo con la tortura egli riesce a scoprirla.
E io devo sicuramente ammettere (H. mi ci avrebbe obbligato con una o due stoccate) che, se il mio era un castello di carte, lo si doveva abbattere al più presto. E solo la sofferenza poteva farlo. Ma in tal caso il Sadico Cosmico ed Eterno Vivisezionatore diventa un’ipotesi non necessaria.
Quest’ultima annotazione vuole forse dire che sono incurabile, che quando la realtà manda in pezzi il mio sogno mi avvilisco e ringhio sotto il primo shock, e poi, con pazienza idiota, comincio a ricomporne i frammenti? E così sempre? Tutte le volte che il castello crollerà, io tornerò immancabilmente a rimetterlo insieme? È questo che sto facendo ora?
In effetti è probabile che quello che, se avverrà, io chiamerò «ripristino della fede» non sarà altro che un nuovo castello di carte. E per scoprirlo dovrò aspettare il prossimo colpo... magari la diagnosi di una malattia senza scampo nel mio corpo, o una guerra, o la mia rovina professionale per qualche tremendo errore. Ma qui sorgono due domande. In che senso può essere un castello di carte? Nel senso che le cose a cui credo ora sono solo un sogno, o nel senso che io sogno di credere ad esse?
Quanto alle cose a cui credo ora, perché i miei pensieri di una settimana fa dovrebbero essere più attendibili di quelli, migliori, di adesso? Mi pare di essere, in generale, più sano di mente adesso che non allora. Perché le disperate elucubrazioni di un uomo intontito (ho detto che era come aver battuto la testa) dovrebbero essere più credibili?
Perché non contenevano pietose illusioni? Perché l’essere tanto orribili le rendeva molto più probabilmente vere? Ma è possibile sognare di veder realizzate le proprie paure, oltre che i propri desideri. E poi, erano davvero così ripugnanti? No. In un certo senso mi piacevano. Riconosco persino che c’era una lieve riluttanza ad accettare i pensieri di segno opposto. Tutto quel parlare di un Sadico Cosmico non veniva tanto da una riflessione, quanto dall’odio. Ne ricavavo l’unico piacere possibile per chi è tormentato: il piacere di restituire i colpi. Erano solo vituperi, insulti, «dire in faccia a Dio quello che pensavo di Lui». E naturalmente, come in tutti gli insulti, «quello che pensavo» non significava quello che ritenevo fosse la verità, bensì solo quello che ritenevo L’avrebbe offeso di più (e con Lui i Suoi adoratori). Sono cose che non si dicono mai senza un certo gusto. Ci si toglie «il peso dallo stomaco», e per un po’ si sta meglio.
Ma lo stato d’animo non dimostra nulla. È chiaro che il gatto, sotto il bisturi, brontolerà e soffierà, e cercherà di mordere. Ma la vera questione è se chi opera è un vivisezionatore o un veterinario. Gli insulti del gatto non servono a scoprirlo.
Quando penso alle mie sofferenze, riesco a vedere in Lui il veterinario. Più difficile è quando penso alle sofferenze di lei. Che cos’è il dolore della mente di fronte a quello del corpo? Checché ne dicano gli sciocchi, il corpo può soffrire venti volte di più della mente. La mente ha sempre qualche via di fuga. Nel peggiore dei casi, il pensiero intollerabile ritorna continuamente, ma il dolore fisico può essere letteralmente ininterrotto. Il dolore spirituale è come un bombardiere che vola in cerchio e sgancia le sue bombe ogni volta che passa sull’obiettivo; il dolore fisico è come il fuoco di sbarramento in una trincea della Grande Guerra: ore e ore senza un momento di tregua. Il pensiero non è mai statico; il dolore fisico spesso lo è.
Ma che genere di amante sono, se in cima ai miei pensieri, molto prima di lei, metto la mia afflizione? Anche quel folle grido: «Ritorna!», l’ho lanciato pensando a me. Non mi è mai venuto in mente di chiedermi se un tale ritorno, ammettendo che fosse possibile, sarebbe un bene per lei. lo la rivoglio come ingrediente della restituzione del mio passato. Potevo augurarle qualcosa di peggio? Tornare indietro, dopo aver conosciuto la morte, e in un momento futuro dover ricominciare daccapo a morire? Stefano è detto il protomartire. Ma a Lazzaro non è toccato di peggio?
Comincio a capire. Il mio amore per H. era assai simile per qualità alla mia fede in Dio. Ma non voglio esagerare. Se nella fede ci fosse solo immaginazione, o nell’amore solo egoismo, questo lo sa Dio. lo no. Può darsi che ci fosse qualcosa di più; soprattutto nel mio amore per H. Ma né amore né fede erano quello che io credevo. C’era molto, in entrambi, del castello di carte.
Che importa come evolve questo mio dolore, o quel che io ne faccio? Che importa come la ricordo o se la ricordo? Nessuna di queste alternative allevierà o accrescerà i suoi tormenti passati.
I suoi tormenti passati. Come so che sono tutti passati? Non ho mai creduto mi è sempre parso sommamente improbabile - che un’anima, anche la più fedele, possa attingere d’un balzo la perfezione e la pace non appena cessato il rantolo della morte. Cominciare a crederlo ora sarebbe un’illusione doppiamente assurda. H. era un essere meraviglioso: un’anima diritta, scintillante e temprata come una spada. Ma non era una santa perfetta. Era una peccatrice sposata a un peccatore: due pazienti di Dio, non ancora guariti. So che non ci sono solo lacrime da asciugare, ma anche macchie da grattare via. La spada sarà resa ancora più scintillante.
Ma senza farle male, mio Dio! Senza farle troppo male! Già le spezzasti sulla ruota il corpo che essa vestiva, mese dopo mese, settimana dopo settimana. Non basta ancora?
La cosa terribile è che, sotto questo aspetto, un Dio perfettamente buono non incute meno paura di un Sadico Cosmico. Più siamo convinti che Dio ci fa soffrire solo per guarirci, meno credibile ci sembra che implorare di non far male serva a qualcosa. Un uomo crudele lo si potrebbe corrompere, potrebbe stancarsi del suo infame passatempo, potrebbe avere la sua parentesi di misericordia, come un alcoolizzato ha le sue parentesi di sobrietà. Ma mettiamo invece di avere a che fare con un chirurgo che ha a cuore solo il nostro bene. Più sarà buono e coscienzioso, più sarà inesorabile nel tagliare. Se cedesse alle suppliche, se interrompesse l’operazione prima della fine, tutto il dolore provato fino a quel momento sarebbe stato inutile. Ma è credibile che questi estremi di tortura siano necessari per noi? Ebbene, la scelta è presto fatta. Le torture ci sono. Se non sono necessarie, allora o Dio non esiste o è malvagio. Se c’è un Dio buono, allora queste torture sono necessarie. Perché, se non lo fossero, nessun Essere anche solo moderatamente buono potrebbe mai infliggerle o permetterle.
In un caso o nell’altro, non si scappa. Che cosa vogliono dire quelli che proclamano: «Non ho paura di Dio, perché so che è buono»? Non sono mai stati da un dentista?
E tuttavia non lo si può sopportare. E allora si balbetta: «Potessi prendere su di me le sue sofferenze, o almeno le peggiori, o una parte». Ma è un’ offerta non si sa quanto seria, perché non c’è posta in gioco. Se tutt’a un tratto lo scambio diventasse veramente possibile, allora, per la prima volta, scopriremmo se parlavamo sul serio. Ma viene mai concesso?
A uno è stato concesso, ci dicono, e io scopro di poter ora nuovamente credere che Egli ha fatto in nostra vece ciò che in tal modo si può fare. Al nostro balbettare, Egli risponde: «Tu non puoi e non osi. lo potevo e ho osato».
È accaduta una cosa del tutto inattesa. Stamattina presto. Per una serie di ragioni, in sé niente affatto misteriose, mi sentivo il cuore più leggero di quanto non mi succedesse da settimane. Prima di tutto, è probabile che mi stia riprendendo dalla pura prostrazione fisica. L’altro ieri, poi, sono stato in movimento per dodici ore di fila, una stancata salutare, cui è seguito un sonno più lungo e più profondo del solito; e dopo dieci giorni di cielo basso e grigio e di umidità calda e immobile, è tornato il sole e si è levata una brezza leggera. E all’improvviso, proprio nel momento in cui il dolore per H. era meno forte, ho avuto di lei un ricordo vivo come non mai. Anzi, qualcosa di meglio (quasi) di un ricordo: è stata un’impressione istantanea, incontrovertibile. Dire che è stato come un incontro sarebbe troppo. Eppure aveva una qualità che quasi induce a usare quelle parole. E stato come se l’attenuarsi della pena avesse rimosso una barriera.
erché nessuno mi ha mai detto queste cose? Come sarebbe stato facile essere ingiusto con un altro nella stessa situazione. Avrei detto forse: «Ne è venuto fuori. Ha dimenticato sua moglie», mentre la verità sarebbe stata: «La ricorda meglio perché ne è in parte venuto fuori».
Questo il fatto. E credo di potergli dare un senso. E impossibile vedere bene quando,gli occhi sono offuscati dalle lacrime. E impossibile, il più delle volte, ottenere ciò che si vuole se lo si vuole troppo intensamente; o almeno, è impossibile trarne il meglio. «Facciamo una bella chiacchierata» è una frase che garantisce il silenzio generale. «Questa notte devo assolutamente dormire» è il preludio a ore di veglia. Le bevande più buone sono sprecate quando la sete è furibonda. Che sia quindi l’intensità stessa del rimpianto a far scendere la cortina di ferro, a darci l’impressione di fissare il vuoto quando pensiamo ai nostri morti? Chi chiede (o perlomeno, chi chiede con troppa insistenza) non ottiene. Forse se lo preclude.
Con Dio, forse, è lo stesso. A poco a poco ho cominciato a, sentire che la porta non è più sprangata. E stato il mio delirante bisogno a sbattermela in faccia? Forse, quando nell’anima non hai nulla se non un grido di aiuto, è proprio allora che Dio non può soccorrerti: sei come uno che annega e non può essere aiutato perché annaspa e si aggrappa alla cieca. Forse le tue stesse continue grida ti rendono sordo alla voce che speravi di sentire.
Però è stato detto: «Bussate e vi sarà aperto». Ma bussare significa dare pugni e calci alla porta come un invasato? E anche: «A chi ha sarà dato». Dopotutto, a chi non ha la capacità di ricevere, neanche l’onnipotenza può dare. Forse il tuo stesso smaniare distrugge temporaneamente questa capacità.
Perché con Lui si può sbagliare in mille modi. Una volta, anni fa, quando non eravamo ancora sposati, H. fu assillata per tutta una mattina, mentre si occupava del suo lavoro, dall’oscura impressione che Dio, per così dire, le stesse «gomito a gomito», sollecitando la sua attenzione. E naturalmente, poiché non era una santa perfetta, pensò che si trattasse, come sovente accade, di qualche peccato di cui non si era pentita o di qualche noioso dovere. Alla fine si arrese (so anch’io come si continua a rimandare in questi casi) e Lo affrontò. Ma il messaggio era: «Voglio darti qualcosa», e di colpo fu piena di letizia.
Credo di cominciare a capire perché nel dolore di un lutto ci si sente come sospesi, in tensione: è per la frustrazione di tutti quegli impulsi che erano diventati abitudini. Pensieri, sentimenti, azioni, tutti, costantemente, avevano come oggetto H. Adesso il loro bersaglio non c’è più. Continuo a incoccare una freccia per forza di abitudine; poi mi ricordo, e devo mettere giù l’arco. Quante strade portano il pensiero a H. Ne prendo una, ma ora è sbarrata da un posto di blocco insormontabile. Quante strade un tempo; e ora, quanti culs-de-sac.
Perché una buona moglie racchiude in sé tante persone. Che cosa non era H. per me? Era mia figlia e mia madre, mia allieva e mia maestra, mia suddita e mia sovrana; e sempre, a mantenere tutte queste cose in soluzione, mio sodale, mio amico, mio camerata, mio compagno fidato. Mia amante, ma al tempo stesso tutto ciò che qualsiasi amico uomo (e ne ho di eccellenti) è stato ed è per me. Forse di più. Se non ci fossimo innamorati, saremmo rimasti ugualmente insieme per sempre, scandalizzando tutti. Questo volevo dire quella volta che la lodai per le sue «virtù maschili». Ma lei mi mise subito a tacere, chiedendo mi se mi sarebbe piaciuto essere lodato per le mie virtù femminili. Ben rintuzzato, cara. Però c’era qualcosa dell’Amazzone, qualcosa di Pentesilea e di Camilla. E tu, non meno di me, eri lieta che ci fosse. Eri lieta che io lo riconoscessi.
Salomone chiama la sua sposa «sorella». Potrebbe una donna essere pienamente moglie se all’uomo, per un attimo, in uno stato d’animo particolare, non venisse quasi da chiamarla «fratello»?
«Era troppo perfetto per durare»: questo sono tentato di dire del nostro matrimonio. Ma lo si può intendere in due modi. Può essere un’espressione di cupo pessimismo: come se Dio, accortosi che due delle Sue creature erano felici, le avesse subito interrotte («Basta! Finitela!»). Dio come la padrona di casa che durante un cocktail separa due ospiti che danno segno di aver cominciato una conversazione troppo seria. Ma potrebbe anche voler dire: «Aveva raggiunto la sua perfezione. Aveva realizzato ciò che era implicito in esso, e quindi non c’era motivo di prolungarlo». Come se Dio avesse detto: «Bravi, questo esercizio l’avete imparato proprio bene. Sono molto contento. Ora siete pronti per affrontare il prossimo». Una volta che sappiamo risolvere le equazioni di secondo grado e ci proviamo gusto, l’insegnante non insiste e passa ad altro.
Perché noi abbiamo imparato qualcosa e abbiamo raggiunto qualcosa. Nascosta o esibita, c’è una spada che separa i sessi, finché un matrimonio totale non li riconcilia. È nostra arroganza definire «maschili» la schiettezza, la lealtà e la cavalleria quando le vediamo in una donna; è loro arroganza descrivere come «femminili» la sensibilità, il tatto o la dolcezza di un uomo. Ma, del resto, che poveri frammenti deformi di umanità devono essere gli uomini solo uomini e le donne solo donne, per rendere plausibili i sottintesi di tale arroganza. Il matrimonio sana questa frattura. Uniti, i due diventano pienamente umani. «A immagine di Dio Egli li creò». In questo modo, con un paradosso, questo carnevale di sessualità ci porta al di là del nostro sesso.
E poi uno dei due muore. E noi lo vediamo come un amore interrotto; come una danza arrestata a metà giravolta, o un fiore con la corolla miseramente strappata: qualcosa di troncato, e quindi privo della sua giusta forma. Ma è così? Se, come non posso fare a meno di sospettare, anche i morti sentono i tormenti della separazione (e questa potrebbe essere una delle loro pene purgatoriali), allora per entrambi gli amanti, e per tutte le coppie di amanti, senza eccezioni, la perdita dell’altro è una parte universale e integrante dell’esperienza d’amore. Essa segue il matrimonio con la stessa normalità con cui il matrimonio segue il corteggiamento o l’autunno l’estate. Non è un troncamento del processo, ma una delle sue fasi; non è l’interruzione della danza, ma la figura successiva. Noi siamo «tratti fuori di noi» dall’amata fin tanto che essa è qui. Poi viene la figura tragica della danza, nella quale dobbiamo imparare a essere ugualmente tratti fuori di noi, anche se la presenza corporea è stata tolta, dobbiamo imparare ad amare Lei, e a non ripiegare sull’amore del nostro passato, o del nostro ricordo, o del nostro dolore, o del nostro sollievo dal dolore, o sull’amore del nostro stesso amore.
Guardando indietro, vedo che solo poco tempo fa mi tormentava l’idea del mio ricordo di H. e di una sua possibile falsificazione. Per non so quale ragione (l’unica che mi venga in mente è il misericordioso buonsenso di Dio) ho smesso di preoccuparmene. E la cosa straordinaria è che, da quando ho smesso di preoccuparmene, lei mi viene incontro dappertutto. Venire incontro è un’espressione troppo forte. Non intendo nulla di lontanamente simile a un’apparizione o a una voce. E non intendo nemmeno un’esperienza fortemente emotiva legata a un momento particolare. E piuttosto come una sensazione discreta e tuttavia massiccia che lei sia, ora non meno di prima, una realtà con cui devo fare i conti.
«Fare i conti» è forse un’espressione poco felice. Viene in mente una donna dispotica, bisbetica. Come dire meglio? Forse «potentemente reale», oppure «ostinatamente reale»? E come se questa esperienza mi dicesse: «D’accordo, tu sei felicissimo che H. sia ancora una realtà. Ma ricorda che lo sarebbe comunque, ti piacesse o no. Le tue preferenze non sono state prese in considerazione».
A che punto sono? Allo stesso punto, credo, di un vedovo d’altro genere che alla nostra domanda si fermerebbe un istante e, appoggiandosi alla vanga, risponderebbe: «Che volete? Non bisogna lamentarsi. Certo che è dura senza di lei. Ma, come si dice? sono tutte prove». Siamo arrivati allo stesso punto, lui con la sua vanga e io, che ora non sono molto bravo a scavare, col mio strumento. Ma è chiaro che il «sono tutte prove» deve essere capito nel modo giusto. Le prove non sono esperimenti che Dio fa sulla mia fede o sul mio amore per saggiarne la qualità. Lui, questa, già)a conosce; ero io che non la conoscevo. E piuttosto una chiamata in giudizio, dove Dio fa di noi gli imputati e al tempo stesso i testimoni e i giudici. Lui l’ha sempre saputo che il mio tempio era un castello di carte. L’unico modo per far sì che lo capissi anch’io era di buttarlo giù.
Venirne fuori così presto? Ma queste sono parole ambigue. Un conto è dire che un paziente sta venendone fuori dopo un’operazione di appendicite, altro è dirlo dopo l’amputazione di una gamba. In questo caso o il moncone si cicatrizza o l’uomo muore. Se si cicatrizza, il dolore atroce e incessante finirà; il paziente dopo qualche tempo ritroverà le forze e sarà in grado di muovere i primi passi sulla sua gamba di legno. N e sarà «venuto fuori». Ma per tutta la vita, probabilmente, il moncone ogni tanto gli farà male, forse molto male; e lui sarà sempre un uomo con una gamba sola. Non avrà modo di dimenticarlo. Tutto sarà diverso: fare il bagno, vestirsi, sedersi e alzarsi in piedi, persino stare a letto. Tutto il suo modo di vivere sarà trasformato. Dovrà dire addio a piaceri e ad attività che prima dava per scontati. E anche a certi doveri. lo per ora sto imparando a muovermi con le stampelle. Forse tra un po’ mi daranno una gamba di legno. Ma bipede non lo sarò mai più.
Però non posso negare che in un certo senso «mi sento meglio», e subito provo una sorta di vergogna, e l’impressione di avere per così dire l’obbligo di proteggere, coltivare e prolungare la mia infelicità. L’avevo letto nei libri, ma non avrei mai immaginato di sperimentarlo di persona. Sono sicuro che H. non approverebbe. Mi direbbe di non fare lo stupido. E lo stesso, ne sono convinto, farebbe Dio. Che cosa c’è dietro?
In parte, certo, la vanità. Vogliamo dimostrare a noi stessi che siamo amanti speciali, sublimi, eroi tragici: che nello sterminato esercito di chi ha subìto un lutto non siamo semplici fanti che affrontano pazientemente una lunga marcia. Ma questo non spiega tutto.
Credo che ci sia anche una confusione. In realtà noi non vogliamo il prolungarsi dello strazio iniziale: chi lo vorrebbe? Vogliamo un’altra cosa, di cui il dolore è un sintomo frequente, e poi scambiamo il sintomo per la cosa. L’altra sera ho scritto che la perdita della persona amata non è il troncamento dell’amore coniugale, bensì una delle sue fasi normali, come la luna di miele. Quello che vogliamo è vivere bene e fedelmente il nostro matrimonio anche in questa fase. Se fa male (come è inevitabile), accettiamo la sofferenza come sua parte necessaria. Non vogliamo sfuggirvi, se il prezzo è l’abbandono o il divorzio. Uccidendo il morto un’altra volta. Noi eravamo una carne sola. Ora che è stata tagliata in due, non vogliamo far finta che sia una e integra. Saremo sempre sposati, sempre innamorati. E perciò continueremo a sentir male. Ma questo male - se sappiamo capire noi stessi - non lo cerchiamo apposta. Meno lo sentiamo, meglio è, purché il matrimonio resti intatto. E se gioia può esserci nel matrimonio tra morto e vivente, tanto di guadagnato.
Tanto di guadagnato. Perché, come ho scoperto, l’abbandono al dolore, invece di legarci ai morti, ce ne distacca. Questo mi diventa sempre più chiaro. E proprio nei momenti in cui la pena è meno forte (al mattino, per esempio, quando entro nell’acqua del bagno) che H. invade di colpo la mia mente nella sua piena realtà, nella sua alterità. Non, come nei momenti peggiori, scorciata, resa patetica, resa solenne dalla mia cupezza, ma così come essa è, come è davvero. Questo fa bene, e tonifica.
Mi tornano in mente (ma non saprei citare nessun esempio) tutte quelle ballate e quei racconti popolari dove i morti vengono a dirci che il nostro pianto gli fa in qualche modo del male, e ci pregano di smettere. Sono storie nelle quali forse si cela una profondità che non sospettavo. E in tal caso, la generazione dei nostri nonni andava in una direzione completamente sbagliata. Tutti quei riti di cordoglio (magari per la vita) - visitare le tombe, celebrare gli anniversari, lasciare la camera da letto vuota esattamente come la teneva «lo scomparso», non pronunciare mai più il suo nome oppure pronunciarlo in tono speciale, e magari (come faceva la regina Vittoria) ordinare che ogni sera venissero preparati i suoi vestiti per la cena - erano una sorta di mummificazione. Che rendeva i morti ancora più morti.
O forse, inconsciamente, lo scopo era proprio questo? Forse qui entra in gioco qualcosa di molto primitivo. Assicurarsi che i morti restino ben morti, impedire loro di tornare di soppiatto tra i vivi, è una preoccupazione centrale del pensiero selvaggio. Bisogna ad ogni costo tenerli «giù». Certo, tutti quei riti sottolineano il loro stato di morti. E forse questo risultato non era in realtà così sgradito, non sempre almeno, come credevano i ritualisti.
Non ho nessun diritto di giudicarli, però. Le mie sono solo supposizioni, e farei meglio a risparmiare il fiato per la mia minestra. Il mio programma, comunque, è chiaro: mi volgerò a lei quanto più spesso potrò in letizia. Magari salutandola con una risata. Meno la piango, mi sembra, più le sono vicino.
Un programma esemplare. Purtroppo non è realizzabile. Stanotte si sono riaperti gli abissi infernali del dolore, fresco come nei primi tempi: le parole folli, le proteste rabbiose, i sobbalzi dello stomaco, l’irrealtà da incubo, l’orgia di lacrime. Perché nulla resta «giù», nel dolore. Si è appena emersi da una fase, che ci si ritrova al punto di partenza. E poi ancora, e ancora. Tutto si ripete. È un girare in tondo, il mio, oppure oso augurarmi che sia una spirale? .
Ma se è una spirale, sto salendo o scendendo?
Quante volte (sarà per sempre?) dovrò contemplare sbigottito questo vuoto immenso come se lo vedessi per la prima volta, quante volte dovrò dire: «Solo adesso capisco ciò che ho perduto»? La gamba viene amputata una, dieci, cento volte. E sempre uguale ritorna il primo morso del coltello nella carne.
Dicono: «Il codardo muore molte volte». Anche la persona amata. L’aquila di Prometeo non trovava a ogni pasto un fegato nuovo da straziare?
Clive Staples Lewis
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