La testimonianza di Milena, infermiera nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Schiavonia, ci richiama la presenza di Simone di Cirene accanto a Gesù. Un amore silenzioso, che non fugge, che affronta l’impotenza, che rimane fino alla fine
La testimonianza di Milena, infermiera nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Schiavonia, ci richiama la presenza di Simone di Cirene accanto a Gesù. Un amore silenzioso, che non fugge, che affronta l’impotenza, che rimane fino alla fine
Siamo in guerra? Così dicono. Noi sanitari siamo definiti in “trincea”, ma per rispetto di chi la guerra, quella vera, l‘ha vissuta in prima persona, io non la definisco così.
Eppure in rianimazione siamo “al fronte”, o meglio, “di fronte” ai contagiati più gravi, in questa sfida professionale e umana. Alienante, surreale ma tremendamente reale.
L’ansia che precede il turno è quotidiana, notti insonni o disturbate da incubi, poi varco la porta dell’ospedale e quello che mi ha svegliato nel sonno diventa realtà.
Mi vesto con una tuta di nylon che ricopre il mio corpo dalla testa alle caviglie, poi i calzari, il primo paio di guanti, maschera facciale filtrante, cuffia, secondo paio di guanti, maschera chirurgica, occhiali e visiera. Secondo la procedura sei pronta.
Sei pronta?
Non riesci a riconoscere i tuoi colleghi di sempre, si vedono solo gli occhi, e ti rendi conto di non averli mai guardati cosi nel dettaglio; fatichi a sentire perché il cappuccio di nylon e la cuffia attutiscono i suoni; fatichi a parlare perché la maschera facciale ti preme sul viso e ad ogni inspiro si appiccica alla bocca.
Arrivo vicino ai pazienti, li prendo in carico, cerco di conoscerli leggendo la cartella clinica, cerco di ricordare il loro volto, segnato dai dispositivi medici e provato dalla malattia; me ne prendo cura e svolgo tutti i doveri professionali. Continuando a sperare che le terapie sperimentali portino miglioramenti.
Si lavora tutti ininterrottamente, muovendosi goffamente in un “formicaio” di sagome bianche, non si mangia e non si beve, e speri che non ti scappi la pipì. Andare in bagno è un privilegio.
Devi ignorare il dolore al naso, alle guance, la bocca secca, la sete, il sudore che prude scendendo dal collo e giù per la schiena, perché non hai tempo per una pausa, non puoi asciugarti, non puoi grattarti, altrimenti ti contagi. Vai avanti, sempre, perché i tuoi pazienti hanno bisogno di te, sono instabili.
Il livello di sopportazione fisica è al limite.
Siamo vestiti con una“armatura” per evitare il contagio, ma lo scudo per il cuore non ce l’abbiamo.
Mi trovavo insieme all’anestesista quando siamo andati da una signora giovane a comunicarle che la terapia con l’ossigeno non aveva dato i suoi benefici e che avrebbe dovuto essere intubata e trasferita in rianimazione. Disperazione. Per quanto tempo mi tenete intubata? Non lo sappiamo signora. Mi fate le terapie? Sono sperimentali signora. Una video chiamata a casa, un saluto disperato alla figlia e al marito, da parte sua un addio “vi voglio bene, forse morirò”. Il medico dietro alla sua testa con l’ossigeno, io al suo fianco, con tutti i dispositivi necessari alla procedura e la sua mano nella mia. La morsa allo stomaco.
Com’è difficile lavorare con gli occhi pieni di lacrime. Il limite di sopportazione emotiva è stato sfondato.
La fatica non finisce con la fine del turno, il naso ti fa male per ore, torni a casa con i lividi, sia sul viso che sul cuore. Ti aspetta un’altra notte piena di brutti sogni. La sofferenza dei contagiati e dei loro famigliari è disarmante, non si possono vedere né toccare, e quindi una parola, una carezza la facciamo noi, noi infermieri. Noi, perché da soli non siamo niente ma insieme siamo una grande squadra.
Anche quando sopraggiunge la morte, i famigliari devono rimanere distanti dai propri cari. Solo una telefonata del medico che comunica la notizia, non li rivedranno mai più. Noi siamo lì, vicino a loro, quando la medicina non riesce a salvare, noi restiamo li, continuiamo a prendercene cura, fino agli ultimi istanti.
Il nostro lavoro non è cambiato, quello che facciamo ora lo facevamo anche prima del Covid-19 e lo faremo anche dopo. Ci prendiamo cura delle persone nella malattia. Non siamo eroi, non siamo angeli. Siamo infermieri. Ora, sicuramente, è molto più difficile.
E’ il virus della solitudine, noi cerchiamo di ridurla.
Milena
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