La scienza che organizza il consumo, cioè il marketing, condizionando gli individui condiziona anche la società e la cultura al punto di modificare il modo stesso in cui la società si esprime e concepisce se stessa?
Il consumo, cioè l’acquisto e l’uso di un oggetto per il nostro bisogno, è un gesto autenticamente libero? Intorno a questa domanda si sono spesi fiumi di parole. Non così, invece, intorno a un concetto che ne è in qualche modo un corollario: la scienza che organizza il consumo, cioè il marketing, condizionando gli individui condiziona anche la società e la cultura al punto di modificare il modo stesso in cui la società si esprime e concepisce se stessa? L’ultimo saggio di Gianni Manzone, sacerdote e docente di Dottrina sociale della Chiesa e di Etica sociale alla Lateranense, si preoccupa di indagare anche questo aspetto fondamentale nel libro, edito da Armando, Il volto umano del marketing. Un approccio etico-antropologico (pp. 256, euro 20). Attenzione però a non demonizzare l’attività di marketing in se stessa, «perché è sempre esistita ed è necessaria in quanto si pone al servizio della produzione consentendo alle aziende di diminuire il rischio imprenditoriale».
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Don Manzone, lei però nel suo libro afferma che il marketing influenza la società...
«Un tempo il marketing serviva esclusivamente per vendere il prodotto, adesso invece serve per progettarlo sulla base delle ricerche di mercato e anche per creare ambienti che possano ottimizzare la vendita dei prodotti».
Cosa intende per ambienti?
«I supermercati, i grandi magazzini sono ambienti progettati per favorire il consumo, non solo mettendo il consumatore a proprio agio: c’è musica, la luce è esclusivamente artificiale, non c’è orologio per far perdere la sensazione del tempo, i prodotti sono collocati sugli scaffali secondo criteri precisi».
In relazione a ciò che si vuole vendere?
«Ma anche in relazione alle gerarchie fra le marche. Spesso chi ha più potere, chi paga di più viene meglio esposto. Il prodotto sul quale si ha più convenienza viene meglio esposto...».
In questo senso il concetto di ambiente favorevole al consumo può essere esteso alla stessa società dei consumi.
«Il marketing è una scienza socioecomica vera e propria, che si propone di agire sulle scelte dei singoli sfruttando le simbologie che si celano dietro a ogni prodotto; progetta prodotti e ambientazioni promozionali che possano sfruttare appieno i desideri e gli istinti degli individui, ispira le strategie commerciali delle grandi compagnie. Insomma, si può dire che realizza un clima culturale, l’humus ideale e necessario per il successo commerciale dei prodotti».
A ogni prodotto corrisponde un simbolo?
«Diciamo che ogni prodotto esprime dei significati. Il marketing si preoccupa di vendere non solo il prodotto, ma anche i significati, le simbologie che rappresenta agendo sui desideri, sui sogni e sulle aspirazioni che hanno i singoli consumatori, secondo il concetto che – attraverso i prodotti che compriamo – noi esprimiamo quello che siamo. Così siamo sollecitati ad acquistare più prodotti o un prodotto piuttosto che un altro, perché il marketing è riuscito a sollecitare le corde giuste dei nostri desideri, del nostro inconscio. Compriamo anche ciò che non ci serve. È in questo modo che si crea la moda, lo status symbol...».
Più consumi e più ti senti uomo?
«Esatto. E qui subentra il vero problema antropologico e sociale del marketing: ridurre l’identità dell’uomo, il suo innato desiderio di realizzarsi, al consumo di determinati oggetti. Ridotto a pura materialità l’uomo vede messo in gioco il suo stesso destino, posto in relazione ai suoi consumi».
Un pericolo antropologico.
«Un fallimento antropologico. Se affido la mia soddisfazione al consumo di un prodotto, ne resto insoddisfatto e ho bisogno di consumare ancora. Quando capisco che quel prodotto non mi soddisfa, lo cambio. Il marketing stesso produce nuovi oggetti per soddisfare la mia insoddisfazione. Spesso con l’inganno, perché i prodotti sono solo all’apparenza diversi l’uno dall’altro. In questo modo il marketing determina ciò che dovrei essere, le mie aspirazioni, fornendo sempre nuove cose da consumare, costruendo il mio stile di vita, fornendomi una gerarchia di valori. Nei fatti il suo diventa un ruolo chiave per i cambiamenti della società. Tutto questo è molto pericoloso».
Il marketing ha quindi una responsabilità culturale tanto grande quanto sottovalutata?
«Direi che è il nuovo catechismo della nostra cultura. E gli educatori, anche all’interno della Chiesa, dovrebbero aiutare le persone a individuare uno per uno i vari messaggi che sono messi in gioco ogni volta che ci viene proposto un acquisto piuttosto che un altro. Serve uno spirito critico che aiuti a smascherare questa visione della vita ristretta ai suoi consumi».
Il marketing entra in competizione con la religione?
«È in competizione con la cultura di ogni società. Ne sfrutta i valori e i significati a fini commerciali e senza alcuna responsabilità sociale, ma al solo fine di vendere di più. Avendo l’obiettivo di forgiare al consumo la vita delle persone, il marketing entra in conflitto con la religione, che vuole aiutare l’uomo a dare un senso alla propria esistenza nella libertà e nella verità. Propone l’ottenimento della felicità attraverso l’acquisto dei beni, mentre la religione dice che i beni della terra, per quanto positivi, non determinano la felicità, per questo bisogna scoprire il vero valore delle cose che consumiamo. Inoltre...».
Inoltre?
«Promuovendo il consumo fine a se stesso si tende a realizzare l’identità umana come un fatto privato, cioè attraverso ciò che possiedo o l’oggetto che uso e non attraverso le relazioni con gli altri individui».
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Roberto I. Zanini
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