Don Alessio Geretti da anni organizza mostre con grandi nomi a Illegio in Friuli. Ora ne ha aperta una a Udine: «Il grande artista nasce con l'istinto di farci intuire quell'oltre che è nella materia»
«Guarda: sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: “più in là”». Sono versi da Maestrale di Eugenio Montale. C’è il mare, ci sono gabbiani in volo e un invito a guardare. Ma soprattutto c’è l’uomo che non può fare a meno di puntare lo sguardo sull’oltre, su quel sentore di infinito che, attraverso i suoi occhi, aleggia (anche se non vogliamo) su ogni visione di ciò che lo circonda. Guardi i 50 selezionatissimi dipinti dai migliori musei del mondo, esposti a Casa Cavazzini di Udine fino al 27 marzo nella mostra La forma dell’infinito e pensi proprio a quel “più in là” che ti ribolle nel cuore. E se considerare i nomi ti senti davvero in buona compagnia: Matisse, Kandinskij, Kupka, Picasso, Monet, Boccioni, Cézanne, Gauguin e poi Vedova, Hartung, Fuchs, Nomellini, Ciurlionis, Goncharova... Il curatore è don Alessio Geretti, sacerdote a Tolmezzo, nella diocesi di Udine, che insieme al parroco ha la cura anche di sette parrocchie di montagna in altrettante frazioni e comuni fra i quali Illegio, località in cui da anni organizza mostre d’arte che attraggono migliaia di visitatori. È lui stesso a sottolineare che la mostra a Casa Cavazzini «offre la possibilità di un viaggio dal mondo esterno alla profondità del cuore. L’arte, quella degna di tal nome, nasce con l’istinto di farci guardare oltre lo sguardo».
Un prete che cura e organizza mostre d’arte?
Sembra una strana maniera di vivere il sacerdozio e la dimensione pastorale, ma la vivo con convinzione perché l’arte è una sorta di intensificazione dell’umano, esprime ciò che l’uomo spera e teme nella maniera più nitida e affascinante. Esporsi al contatto con l’arte significa ritrovarsi sulla porta delle domande essenziali di ogni uomo: l’amore, il male, la morte, la fede, il senso delle cose; significa guardare al nostro essere umani senza infingimenti. E poiché teologicamente il luogo eletto dell’incontro con Dio è l’umano, credo che attraverso l’arte si possa giungere all’incontro col Volto di Dio.
In pastorale come si traduce?
Nella stagione che stiamo vivendo una parte non irrilevante dell’azione pastorale dei cristiani dovrebbe essere diretta a suscitare domande, che sono un antidoto alla strategia dell’incultura e della superficialità in cui siamo immersi il cui obiettivo è spegnere ogni domanda sul nascere. Una strategia che non confuta apertamente il Vangelo, ma se non hai domande o quelle che hai sono costantemente obliate da una sciagurata distrazione, non potrai mai prendere in considerazione le risposte. Tutte le arti, invece, creano condizioni propizie al sorgere delle domande.
L’arte ci parla di Dio?
Io ho preso sul serio quel che sosteneva Van Gogh in tante lette- re al fratello e all’amico pittore Èmile Bernard in cui parlava del legame fra arte e spiritualità sostenendo l’importanza di far vedere a chi non se ne rende conto quello che c’è oltre l’apparenza delle cose. E se vogliamo prendere sul serio questa affermazione, dobbiamo considerare che per Van Gogh fare arte era un modo per parlare di Dio e «delle dichiarazioni di Cristo riguardo all’altra metà dell’esistenza». Insomma, tutto quello che dipingeva era religioso. Allo stesso modo Kandinskij scriveva il trattato Dello spirituale nell’arte e insisteva sulla risonanza con l’anima che deve emergere dall’armonia dei colori e, poiché associava colori a suoni, dai suoni che essi producono.
L’arte come testimonianza?
Diciamo che l’arte, attraverso immagini, parole e suoni riesce a comunicare l’informazione zero, cioè che la materia non è tutto, non è solo qualcosa che si tocca, si consuma, si compra, si vende e che poi marcisce, ma ha un suo significato intrinseco, una sua profondità che va oltre l’apparente. È qui ma è proiettata altrove. E quell’altrove è nella domanda che la finitudine della materia inevitabilmente pone. Non ne dimostra l’esistenza, ma pone la domanda. Così il testimone, per quanto credibile o avvincente non dimostra nulla, ma dà da pensare. Le persone di fede possono vivere una mostra o un museo come un ritiro spirituale e chi non ha fede può trarne commozione fino alle lacrime. Se sai immergerti nell’arte o c’è chi ti guida a farlo (da sempre a Illegio per ogni opera in mostra c’è un volontario che guida alla sua scoperta fin nel dettaglio) il pensiero sull’oltre diventa inevitabile.
Quindi nel contemplare un’opera ci si può rivelare il volto di Dio?
C’è un dipinto di Fuchs in mostra a Udine, La visione di Mosè, che è in questo senso emblematico. Una piccola tempera su tavola 18 per 23 realizzata nel 1956 mentre era a Gerusalemme meditando le Scritture col desiderio di diventare monaco. Mette in scena una dettagliata visione del roveto ardente, quasi fosse un pittore rinascimentale fiammingo. Un’attenzione al dettaglio che unita alle piccole dimensioni dell’opera invita l’osservatore ad avvicinarsi, come accadde a Mosè davanti al roveto. Allo stesso tempo utilizza una sorta di dissolvenza cinematografica e, cogliendo l’attimo in cui un’immagine sparisce e l’altra appare, fa affiorare, vagamente percepibile, ma riconoscibile, un volto divino che contiene in sé l’intero disegno, generando la surreale e straniante sensazione che esista, non visto, un mistero che non comprendiamo ma che tutto comprende e che tutto spiega. Fra l’altro in quell’episodio biblico Mosè chiede a Dio nel roveto di mostrargli il suo volto ricevendo per risposta un diniego perché chi l’avesse visto sarebbe certamente morto. Da quel momento, però, per Mosè e per il popolo ebraico, inizia un percorso di vita che è anche di svelamento.
Il Volto c’è e dobbiamo imparare a vederlo?
In linea con la sensibilità contemporanea Fuchs ci dice che le folgorazioni mistiche non sono il modo abituale con cui l’uomo incontra Dio, ma si tratta di una lunga strada che richiede dedizione e paziente ricerca. In questo senso, però, l’opera d’arte è una sorta di accelerante e ci dice anche che il tempo necessario al disvelamento del volto non è una questione di quantità, ma di intensità. Serve un tempo intenso. Serve di vivere la vita con tutte le forze e con tutta l’anima. Se, nella superficialità che contraddistingue quest’epoca, viviamo al 20% possiamo passare anni e decenni sostanzialmente immobili dal punto di vista spirituale. L’arte, in quanto condensatore dell’intensità del tempo, può aiutarci.
Altri esempi?
Credo che la percezione di entrare in contatto con l’altro lato del mondo e di venire guardati dal volto di Dio si possa avere nella “Cappella nera” di Mark Rothko a Houston. Circondati da quelle gigantesche tele dipinte sulle variazioni del nero si può provare un senso di smarrimento di perdita della realtà: ma non è proprio nel buio ventre della balena che Giona scopre l’urgenza di Dio dopo averlo rifiutato in tutti i modi? È la percezione angosciosa di essere un niente che vuole tutto a portarti sull’orlo del sentire che forse qualcuno ti sta guardando. Ecco, su quel 'forse' è sospesa la nostra epoca e credo che questa sia una delle più interessanti basi per la progettazione pastorale.
Ma c’è anche un’arte, per così dire, negativa?
Se penso a Fontana, Hartung, Pollock, Vedova, Mathieu c’è un’arte che sì, propone un’immagine inquietante e al negativo della realtà, ma lo fa senza entusiasmo, nel modo in cui si annuncia al mondo una pessima notizia. Questi artisti mettono in luce disperazione e solitudine per chiedere, alla maniera di Sartre, se è vero che siamo una passione inutile e se quel desiderio di infinito che ci trafigge il cuore non sia che un inganno. Ma c’è anche una forma d’arte, sempre che lo sia, che mette in mostra gli istinti, l’irrisione del reale, la violenza fine a se stessa e, in musica, il frastuono che genera saturazione dei sensi e delle emozioni. Forme espressive che, fuor di metafora, assomigliano più alla bestialità dello stupro che alla tenerezza dell’amore... c’è tanta gente, purtroppo, che non sa che dai sensi può venire bellezza e pienezza di vita.
di Roberto I. Zanini
Tratto da avvenire.it
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