Un «bentornato» alla nostra amata tribù... il numero di questa volta è quasi interamente occupato da un articolo tratto da «Animazione Sociale» sulle sostanze, il loro attuale uso e la cultura che ci sta sotto... ringraziamo Raffaele per la segnalazione. Visto che rimane un po' di spazio ci prendiamo «l'autorizzazione» per qualche considerazione...
del 03 giugno 2003
 
            L’altro giorno ho sentito per telefono un confratello (di un’altra Ispettoria) conosciuto negli anni della formazione e con cui c’era un particolare «feeling». Era un po’ di tempo che non ci sentivamo e quindi la telefonata è stata abbastanza lunga e «a tutto campo». Mi intrigavano alcune sue considerazioni, nate - così si esprimeva - dopo qualche anno di pastorale e la voglia di ripensare tante cose.
La prima riflessione che faceva e che mi colpiva era questa: le nostre opere sono «equivoche». Gli chiedevo perchè e mi rispondeva rimandandomi due livelli: il primo - diceva - è lo sguardo/atteggiamento di chi ci entra; ha bisogno di un determinato «servizio» (scuola, sport, tempo libero, estate ragazzi, ecc.) e lo «acquista», come farebbe dentro un qualsiasi altro «centro» assimilabile ai nostri. E’ un segno di capacità di reggere la concorrenza del «mercato», continuava, di «esserci»; ma esprimeva anche delle perplessità proprio sulla «visibilità» del «prodotto» offerto: il fatto che in determinati ambienti sia così richiesto è «segno» di cosa? Di «prezzo» competitivo? di qualità educativa? di cos’altro? Si chiedeva ancora: l’essere in certi momenti così «competitivi» può farci pensare ad una reale testimonianza/memoria cristiana oppure no? In altre parole la sua domanda era: se il nostro «prodotto» educativo apparisse, all’esterno, «cristiano», sarebbe ancora così competitivo? Non è che, per esigenze di marketing, tale aspetto venga lasciato in ombra rispetto alle sottolineature educative lasciate «equivocamente» generiche?
Le considerazioni mi sembravano intelligenti e degne di riflessione...
Poi, sviluppando queste stesse considerazioni, si spingeva oltre, entrando in un secondo livello, e si chiedeva: cosa rimane alla gente, che è venuta a contatto, in vario modo, con i nostri ambienti e le nostre iniziative?
Detto in altra forma: cosa dice la gente di noi, chi dice che noi siamo?
Si rispondeva in questo modo: alla gente, nella stragrande maggioranza dei casi, rimane questa immagine dei salesiani: gente animata da «una grande passione educativa per i giovani» e qui, normalmente, si ferma.
Dove l’aspetto «cristiano» della faccenda non è dato per scontato (questo poteva esserlo una volta) ma non incidente, non capace di «impressionare» la memoria delle persone.
Tornava, quindi, nella sua analisi, alla equivocità delle nostre attività e anche, aggiungeva, delle nostre opere e di molti nostri atteggiamenti. Come se la passione per Dio, cioè il fatto di essere religiosi, non emergesse in maniera «visibile», «impressionabile» per la gente. Come se le forme con cui siamo soliti «presentarci» al mondo (e una volta facilmente accostabili al significato di fede) non fossero più leggibili in questo modo perchè la «cultura» delle persone è cambiata e quindi non più «sensibile» a determinati aspetti.
Inoltre, continuava, nel momento in cui si «tenta» di «ri-porre» sul tavolo alcuni contenuti decisivi della nostra opera educativa che non siano i soliti «valori» che in questo momento fanno tendenza  (quindi non solo onesti cittadini ma anche buoni cristiani), la difficoltà si fa subito sentire: con i genitori, per esempio, all’interno delle scuole oppure vi è risposta «evasiva» di chi si dice d’accordo ma, come i greci dell’Areopago, su questo ci sentirebbero volentieri un’altra volta.
Chiudeva dicendomi che «siamo troppo equivoci e in troppe cose» e ciò che rischia di sparire, di non lasciar traccia, come testimonianza, come chiave interpretativa della nostra opera, è proprio la nostra fede.
Esagerato? Depresso (ma non mi sembrava proprio al telefono)? Interessante?
                        So long!
don Loris Benvenuti, don Vincenzo Salerno
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