Cosa ci mostra Squid Game?

Le domande che la violenza, mostruosamente, ci rivela sono sempre domande di un mancato amore.

Da qualche giorno fa notizia la richiesta accorata e pressante della Fondazione Carolina, onlus dedicata a Carolina Picchio, la prima vittima di cyberbullismo in Italia, di “censurare” la serie Netflix “Squid Game”. Ivano Zoppi, segretario generale della fondazione, in una lettera inviata al Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza dichiara tutta la sua preoccupazione per i rischi di emulazione, da parte dei più piccoli, della violenza delle scene e della narrazione esibita come un gioco, e richiede un intervento del garante per tutelare i minori. Per lui, in questa vicenda, è evidente il “sconfitta dei parental control e la crisi della genitorialità”. Da più parti sono già arrivate numerose segnalazioni di atti emulatori tra bambini (Belgio, Inghilterra, Australia e Italia) riferibili con chiarezza alla serie Tv.

Ma “Squid Game” ha ottenuto un enorme successo: 111 milioni di visualizzazioni dopo soli 28 giorni dal suo debutto, il più grande esordio tra le serie originali Netflix, battendo il record storico degli 82 milioni di Bridgerton. A ottobre 2021 occupa il primo posto in 94 paesi nella top 10 delle serie più popolari su Netflix. Per la festa di Halloween sono in commercio gadget e giochi ispirati alla serie e il successo commerciale viene, ovviamente, cavalcato senza mezzi termini da chi lavora nel settore.

Dico subito che sono d’accordo con Anna Oliverio Ferraris, ordinario di Psicologia dello sviluppo dell’università La Sapienza di Roma: “Non so se vietare un programma inzeppato di scene di violenza sia vera e propria censura, mi sembra piuttosto una misura contro l’istigazione alla violenza, considerata anche la tendenza che molti ragazzini hanno di imitare ciò che, rivolto a loro, viene mostrato sugli schermi come ‘divertimento’”. Ma credo che dovremmo provare ad andare anche oltre lo sdegno morale e la preoccupazione educativa, che pure, in questo caso, sono necessari. La questione infatti pone almeno due domande che, poco che si abbiano alcune conoscenze delle dinamiche educative e sociali, non possiamo eludere.

Primo. L’emulazione non nasce da sola. Non è generata semplicemente dalla pura e semplice esposizione ai contenuti della serie Tv, altrimenti basterebbe fare vedere serie Tv piene di buoni sentimenti e avremmo educato efficacemente i nostri figli. Ma questo è palesemente falso. Perché l’emulazione si nutre della identificazione con i personaggi. E questa è direzionata dall’immagine, consapevole o meno, che un bambino ha di sé. Perciò se più di un milione di bambini con meno di 14 anni “spasimano” per Squid Game, significa che, a qualche livello si identificano con qualche personaggio della serie.

E questo indirizza verso uno scenario di violenza, agita o subita, da parte di questi minori ben prima di essere esposti alla serie televisiva. Perciò la domanda, davvero inquietante sarebbe: come è possibile che tanti minori vivano situazioni di violenza tali da necessitare una “proiezione” nella visione delle scene, quasi come strumento per cercare di “elaborarla” in modo distorto e poterla consumare? L’attaccamento alla visione della serie non è dato solo da una potente e accurata pubblicità, perché altre serie hanno avuto ben più “battage” di lancio, ma non sono state così apprezzate. Il suo successo, invece, si collega sia al contenuto che alla forma comunicativa con cui è confezionata, che intercetta visivamente, narrativamente ed emozionalmente i vissuti reali di chi la guarda.

Secondo. Se le cose stanno così, ad essere messi in questione non sono gli adulti che hanno responsabilità educativa su questi bambini, ma la stessa società in cui viviamo che fa da sfondo significante e rende possibile questo fenomeno sociale. I colori vividi, il modo estremo di rappresentazione delle emozioni dei personaggi, le dinamiche sociali rappresentate nella narrazione, infatti  rispecchiano l’estremizzazione violenta in cui viviamo senza rendercene conto. La vita come apparente gioco infantile e leggero che mette a rischio “appena” la vita stessa; la dinamica del controllo sistematico del gioco, operato con una violenza perfettamente richiesta dalle regole del gioco stesso; la necessità di “salvaguardare” la propria sopravvivenza come unico e pieno senso ultimo dell’agire; l’opposizione strutturale dei giocatori tra di loro come condizione generativa dell’essere nel gioco; la monetizzazione del valore della vita dei giocatori. Sono tutti elementi che rispecchiano la dinamica profonda su cui la società, ormai globalizzata, si sta costruendo.

Squid Game, perciò parla di noi, della vita, di come la stiamo pensando e sentendo e di come, perciò, ipotizziamo debba essere vissuta. Allora temo che la risposta censoria sia come minimo insufficiente, ma forse anche controproducente. Nel senso che rischia di essere un tentativo di “occultare” la strutturale violenza che, come persone, ormai accettiamo e di fronte a cui restiamo impotenti, e perciò disarmati. Meglio perciò non guardarla in faccia.

Ovviamente non va incoraggiata la visione di questa serie, ma di fatto è effettivamente impossibile garantire che i nostri figli non ne vengano a contatto, perché la pervasività e l’accesso illimitato a internet sono un caposaldo di questa società. Allora, non sarebbe meglio, oltre a limitarne fin dove si può la visione, pensare seriamente come adulti, a come noi ci rapportiamo con la violenza che abbiamo dentro? Sempre più siamo chiamati, come esseri umani prima che come educatori, a costruirci strumenti efficaci di critica ed elaborazione, per aiutarci a scovare le domande vere che si celano dentro di noi e dentro i nostri figli, e che la violenza, mostruosamente, ci mostra. Che sono sempre domande di un mancato amore: perché non mi vedi, non mi pensi, non mi ascolti? Perché non mi riconosci in ciò che sono? Perché non mi mostri la bellezza della vita? Che senso abbiamo se dobbiamo solo sopravvivere?


di 

tratto da vinonuovo.it

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