Cosa vuol dire credere

Io credo. Cosa diciamo quando affermiamo nella nostra professione di fede: “credo”? Credo è affidarsi a una testimonianza. Chi crede non è mai solo. Si crede sempre come Corpo di Cristo. Questo mi preserva dalla solitudine, dall'individualismo, da una fede “fai da te”, che oggi impera nella nostra cultura.

Cosa vuol dire credere

L’uomo del XXI secolo, sempre più esperto della materia e dei suoi processi, ha tradito la fede in Dio per la fede nella scienza. Eppure il discorso sulla fede può ben iniziare dalla realtà delle cose esistenti, le quali pongono domande a cui solo la fede può dare risposta.

Io credo

Cosa diciamo quando affermiamo nella nostra professione di fede: “credo”? La fede è una virtù teologale che, quale dono, mi è offerto gratuitamente da Dio e, al contempo, è un atto proprio dell’uomo. Si tratta di un atto umano – credere è profondamente umano – che supera la ragione e mi fa accogliere per la grazia di Dio una verità più grande di me, che mi supera, ma che al contempo mi dà la ragione di me e di tutto ciò che esiste. Credere è accogliere la Rivelazione di Dio, ovvero la Verità che Dio mi fa conoscere per la mia salvezza. Credere è un atto di obbedienza a Dio, mosso dalla sua grazia. Il credere non è un bisogno soggettivo, che matura in una coscienza che vede in Gesù forse la medicina ideale o l’appagamento dei propri desideri o bisogni interiori di spiritualità: questa sarebbe una fede che porta al soggettivismo. Non è fede teologale quanto piuttosto ancora un sentimento umano. Facilmente confondiamo le due cose.

La fede teologale è una virtù infusa da Dio nella mia anima mediante il Battesimo, che mi fa rispondere alla sua chiamata, al fatto cioè che Dio si fa conoscere mediante la sua Parola e i suoi insegnamenti. Questo tesoro prezioso, che è appunto la Rivelazione di Dio, è custodito dalla Chiesa e mi viene proposto in modo didattico nel Catechismo. Credere implica, perciò, conoscere il Catechismo al fine di professare la retta fede in Gesù mio Signore e, mediante la retta fede, alimentare la carità, l’amore per Lui e la speranza di possederlo un giorno nell’Eternità. Non posso pensare di amare rettamente il Signore senza conoscere la sua Parola, la sua Rivelazione, e quindi, a modo di compendio, il Catechismo dottrinale. Non c’è, né ci deve essere, una frattura tra la fede quale concetti da apprendere e fede in quanto vissuta nell’incontro personale col Signore. Si tratta di due aspetti della medesima fede: fede oggettiva (verità da credere) e fede soggettiva (atto personale di fede). Possiamo capire che una fede soggettiva, vissuta senza un contenuto oggettivo, dottrinale, presto diventa una fede illusoria e priva di fondamento nella Verità e nell’obbedienza alla Chiesa. Va piuttosto di moda oggi farsi una fede su misura, come un vestito. Purtroppo è prevalso l’aspetto soggettivo del credere contro o a discapito di quello oggettivo. Anche al catechismo spesso non si insegnano ai bambini le nozioni della fede ma a fare tanti giochi e a disegnare i cartelloni. Il motivo di fondo è che la fede non sarebbe “contenutistica” e che i contenuti, le nozioni della fede, porterebbero la stessa a inaridirsi. Evidentemente questo pregiudizio porterà il bambino, col crescere, a farsi una fede secondo la sua visione del Cristo e della Chiesa. Dobbiamo allora recuperare la vera fede e il suo rapporto armonico tra i due aspetti che abbiamo richiamato.

È razionale credere o è solo un’illusione? Credere, chiediamoci, è possibile per l’uomo del XXI secolo sempre più sofisticatamente esperto della realtà e dei processi della materia? È veramente razionale, umano, credere o si tratta di un auto-ingannarsi volgendo la mente a cose astruse e, del resto, indimostrabili?

Bisogna partire dalla realtà, dalle cose esistenti. Infatti, se osservo le cose, mi accorgo che la realtà è più grande di me. Mi rendo conto che non sono io il centro dell’universo, né la ragione di ciò che esiste, neppure la ragione di me stesso. La mia ragione non è il tutto. Questo mi dà modo di riflettere sul fatto che necessariamente debbo andare oltre il finito, oltre me stesso e oltre la mia stessa ragione. Già porsi la domanda sulla razionalità o sull’illusorietà della fede è segno che in me c’è un desiderio di capire e che questo desiderio è profondamente umano: un desiderio di trascendenza. Porsi il problema di Dio e della fede (anche l’ateo si pone il problema che poi nega) è evidenza che oltre ciò che è tangibile con l’esperienza della mia vita c’è qualcos’altro, c’è l’intelligenza umana che si apre anche al mistero: ciò che colgo in qualche modo come presenza ma che mi supera. O scelgo il mistero o il nulla. Non c’è alternativa. La fede è la scelta di Dio, del Tutto. L’unica vera alternativa al nichilismo.

Dice il grande A. Einstein: «Chi non ammette l’insondabile mistero non può essere neanche uno scienziato».

Count Kessler un giorno chiese ad Einstein: «Professore, sento dire che lei è profondamente religioso». Einstein gli rispose: «Sì, lei può dirlo. Cerchi e penetri con i limiti della nostra mente i segreti della natura e scoprirà che, dietro tutte le discernibili concatenazioni, rimane sempre qualcosa di sottile, di intangibile e inesplicabile. La venerazione per questa forza, al di là di ogni altra cosa che noi possiamo comprendere, è la mia religione. A questo titolo io sono religioso».

La fede dà una riposta di senso alla nostra vita e a tutti i problemi, anche a quelli economici che sembrano oggi avere un primato assoluto. Ci si dimentica che non si può risolvere il problema economico con l’euro. La radice della crisi è antropologica ed esistenziale. Oggi, in un momento di grande crisi e smarrimento sociali, siamo semplicemente di fronte al problema del PIL, del debito sovrano, oppure a un problema della ragione chiusa a Dio? Non è forse vero che viviamo in un mondo meno umano e tante volte disumano? È sempre più difficile nascere ed è sempre più facile morire. Si consuma ma non si produce e si importa. Col decrescere del PIL decresce anche la nostra capacità di essere uomini, mentre aumentano le disperazioni e i delitti più orridi. Viviamo una delle più grandi crisi economiche, ma che prima ancora di essere crisi dell’euro è una crisi di valori umani e cristiani. Così l’economista della Santa Sede, Ettore Gotti Tedeschi, ha riassunto il problema: «Ci troviamo di fronte a un nuovo ordine economico mondiale provocato dal crollo delle nascite in Occidente, dalla globalizzazione accelerata che ha delocalizzato troppe produzioni in Asia, dividendo il mondo tra Paesi consumatori e non produttori e Paesi produttori ma non ancora consumatori. Il nuovo scenario attuale è dovuto, in sostanza, alla crescita consumistica a debito, insostenibile, nel mondo occidentale».

Questa tremenda inversione della realtà ha a che fare con l’assenza di Dio oppure no? Sì; se riflettiamo scopriremo che sottraendo il primato a Dio e alla fede, la ragione, mettendo al centro se stessa, si autodemolisce. In tutti gli ambiti della vita umana. Il mito della ragione onnipotente diventa esperienza e risultato di un’umanità miserevole. L’inversione della fede in Dio in una fede nella scienza e nell’economia senza più Dio ha provocato la caduta miserevole dei principi primi della vita umana. L’economia si regge sui veri valori umani e l’uomo si regge solo su Dio. Se viene meno Dio, la fede in Lui, cade l’edificio umano.

Io credo in Dio. Ma credo solo in Dio

Abbiamo ripreso un’espressione del filosofo contadino G. Thibon. Con essa si mette in evidenza il rischio di credere in tutto quando non si crede in Dio, nel Dio vero. Non si può non credere. L’uomo compie atti di fede umana continuamente e durante tutto l’arco della sua giornata. Senza prestare una fede umana in ciò che non vedo non potrei più progettare la mia vita e aver fiducia nel futuro. Credere perciò è profondamente umano. L’ateo militante è anch’egli credente, ma all’incontrario: crede per demolire la fede, ma non vi riesce, altrimenti perderebbe senso anche la propria fatica.

Con un giovane filosofo francese, Fabrice Hadiadj, figlio di ebrei tunisini, convertitosi al Cristianesimo in età adulta, possiamo dire: «Il rimprovero che si può fare agli atei è quello di non essere ciò che pretendono di diventare. Un ateo è per definizione qualcuno che è “senza dio”. Egli deve sbarazzarsi di tutti gli idoli. E di conseguenza deve sforzarsi di non fare un idolo del suo proprio ateismo».

Tra gli atei militanti e i credenti che fanno di Dio una proprietà privata si collocano oggi, al dire di Benedetto XVI, gli agnostici, cioè quegli atei che in fondo sono in ricerca, quelli che sono aperti a Dio almeno e inizialmente come a uno Sconosciuto. Diceva il Santo Padre ad Assisi nell’ottobre 2011: «Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili”, dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto».

Queste persone, continua il Pontefice, «tolgono agli atei combattivi la loro falsa certezza, con la quale pretendono di sapere che non c’è un Dio, e li invitano a diventare, invece che polemici, persone in ricerca, che non perdono la speranza che la verità esista e che noi possiamo e dobbiamo vivere in funzione di essa. Ma chiamano in causa anche gli aderenti alle religioni, perché non considerino Dio come una proprietà che appartiene a loro così da sentirsi autorizzati alla violenza nei confronti degli altri».

Ci sono degli atei aperti ai valori dello spirito, ai valori eterni, che ci dicono ancora una volta che credere in Dio è l’unica vera alternativa a un profondo smarrimento di senso. Con la nostra testimonianza di fede sincera potrebbero incontrare ciò che cercano senza ancora trovare.

Credo è affidarsi a una testimonianza

La fede cattolica è basata sulla testimonianza di coloro che sono vissuti insieme con Gesù, i quali l’hanno veduto, toccato, udito e perciò lo hanno trasmesso (cf. 1Gv 1,1-3). Hanno trasmesso il Signore donando alla Chiesa, attraverso la loro predicazione e poi attraverso i Vangeli e gli altri Scritti neotestamentari, la verità storica e soprannaturale del Signore Gesù. Crediamo che Cristo ha patito, è morto ed è veramente risorto perché ci sono dei testimoni credibili, gli Apostoli, i quali hanno visto e testimoniato. A loro volta hanno dato la testimonianza suprema della vita col martirio. Agli Apostoli succedono poi i Vescovi, così la testimonianza vivente del Signore Gesù si perpetua fino alla venuta finale del Risorto. Così dobbiamo credere nella comunione con questa testimonianza vivente: questa testimonianza che si prolunga nel tempo è propriamente la Chiesa quale Corpo del Signore.

Qui è implicato il concetto di trasmissione della fede, che viene dall’alto e ci raggiunge di bocca in bocca, di cuore in cuore. Credere è riscoprire la Tradizione della Chiesa per credere con la Chiesa. La fede è possibile solo nella compagine vivente del Cristo risorto, la Chiesa, e con la fede viva del Corpo mistico del Signore. La fede è un dono che viene dall’alto e mi incorpora con i miei fratelli nella Comunità dei salvati.

Chi crede, diceva Benedetto XVI in Austria, non è mai solo. Si crede sempre come Corpo di Cristo. Questo mi preserva dalla solitudine, dall’individualismo, da una fede “fai da te”, che oggi impera nella nostra cultura. Credere oggi, in un certo senso, è più urgente che ieri: è l’unica vera ripresa del mondo in frantumi.

Che il Signore si degni di accrescere la nostra fede e col papà del bambino epilettico del Vangelo possiamo anche noi dire con umiltà: «Credo Signore, aiutami nella mia incredulità» (Mc 9,24). 

 

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