Craig, 19 anni: candidato a NOBEL per la PACE da Giovani per i Giovani

“Che i bambini tornino a giocare, e lascino che gli adulti facciano gli adulti” Questa è la critica che molto spesso viene mossa a Craig Kielburger e all'associazione “Kids can free the children”. Tutto normale, verrebbe da dire. O forse no? [...]

del 10 gennaio 2003

 

Per noi, abitanti del ricco occidente, è facile ritenere che i bambini debbano fare i bambini, studiare, giocare e divertirsi, che il tempo dell’infanzia debba essere quanto più possibile spensierato. In altri luoghi invece, specialmente nel sud del mondo, la situazione è diversa: per disinteresse dei genitori, o per necessità economiche i bambini spesso sono usati, sfruttati, costretti a lavori massacranti e sottopagati, purtroppo spesso sottostanno ad abusi umilianti, e sono anche ridotti in schiavitù, ma questo silenzioso e poco visibile inferno non giunge quasi mai ai nostri occhi ed alle nostre orecchie, riempite dai frastuoni di un consumismo urlato. Nel 1995 l’opinione pubblica mondiale fu scossa dalla notizia dell’assassinio di Iqbal Masih, un bambino pakistano, venduto per pagare un debito che il padre aveva contratto, e costretto a lavorare in condizioni disumane in una fabbrica di tappeti… possiamo tranquillamente dire che fu ridotto in schiavitù: non poteva allontanarsi dal posto di lavoro (era incatenato al telaio), doveva lavorare quattordici ore al giorno tutti i giorni… dopo essere riuscito a scappare, iniziò a dar voce alle migliaia di bambini che si trovavano nelle sue stesse condizioni, a lottare per un miglioramento delle condizioni di lavoro… una specie di “sindacalista”, la cui carriera venne troncata nella maniera più violenta: con la morte.

Craig Kielburger, figlio di una coppia della ricca borghesia canadese, era bambino, dodici anni come Iqbal, quando lesse questa notizia, e ne rimase profondamente colpito, tanto che iniziò a parlare con i genitori, gli amici e gli insegnanti, tentò di sensibilizzare la gente che conosceva, di far si che le coscienze di ciascuno urlassero di sdegno. E non solo, che si dessero da fare in prima persona per cambiare le cose, con attività di sensibilizzazione, raccolta fondi, creazione di scuole e altre strutture nei paesi in via di sviluppo.

L’accoglienza che Craig ebbe in molti casi si può riassumere nel corsivo all’inizio dell’articolo, tu che hai solo dodici anni torna ad occuparti dei tuoi problemi di bambino, che alle cose serie ci pensiamo noi grandi. Ad ogni modo da caso di folklore, da “macchietta” sui telegiornali la storia di Craig e dell’associazione da lui fondata diventa un movimento di portata mondiale, capace di far pressione sui governi e sulle Nazioni Unite. Come mai?

L’intuizione è che gli stessi bambini si devono battere contro le ingiustizie, devono darsi da fare e far capire che non si aspettano che gli adulti gli consegnino un “mondo migliore” già preparato e pronto all’uso, ma che sono capaci di costruirselo da se giorno per giorno: uno degli slogan dell’associazione è infatti “change the world for and with the children”.

 

E’ proprio in virtù di questa idea, che i bambini possono e devono dare un contributo per costruire giustizia nel mondo che abiteranno, che il movimento si è espanso in tutto il mondo. Craig è forse la sua faccia più nota, perché con l’associazione da lui fondata ha ricevuto la candidatura al premio Nobel per la pace, ma proprio perchè si tratta di movimento ci sono tante figure carismatiche che ripropongono lo stesso pensiero, gli stessi ideali, e le due storie raccontate in questa pagina lo dimostrano.

A questo punto ci chiediamo se davvero tutto questo non sia un po’ “esagerato”… molti sostengono che l’idea di coinvolgere i bambini nel “governo” delle cose importanti sia controversa… togliamo l’autorità agli adulti e la diamo ai bambini? Questi ultimi sono in grado di gestire il potere che gli è stato dato? E ancora… è giusto che dei bambini siano costretti ad agire e pensare come adulti, prendendosi delle responsabilità da adulti?

 

Aspettiamo le vostre risposte…

 

Baluchistan, Pakistan. Jehanzeb Khan, dodici anni, bussa alla porta di tutte le case del suo villaggio, per chiedere agli uomini un piccolo favore. “Permetterebbe a sua figlia di andare a scuola?”

 

Tutti noi sappiamo quale ruolo fondamentale ha l’educazione, specialmente delle ragazze, nei paesi in via di sviluppo. Ma nella povera provincia del Baluchistan solo il due per cento delle donne sa leggere o scrivere, Alle altre non è data nemmeno la possibilità di imparare. Per vincere la diffidenza dei genitori, Jehanzeb e i suoi amici hanno provato tutte le strade, dall’andare porta a porta a chiedere di persona questo “piccolo favore”, al coinvolgere il movimento scout, che nella provincia è presente in maniera molto capillare.

 

Ma l’idea che le ragazze studino non è molto ben accettata dagli uomini del luogo. Allora Jehanzeb e i suoi amici devono “contrattare” quel “piccolo favore” di cui si parlava prima, offrendo in cambio altri importanti interventi, quali la costruzione di pozzi e bagni pubblici. A volte, quando i genitori non mandano le ragazze a scuola perché ritengono che la strada da percorrere sia troppo pericolosa, Jehanzeb e i suoi amici si offrono di andarle a prendere a casa, di scortarle fino alla scuola. Dove non esistono scuole femminili, si fa pressione perché quelle maschili accettino anche le ragazze.

 

Questo lungo lavoro, anche “diplomatico” da certi punti di vista, ha avuto i suoi effetti: i ragazzi hanno l’abilità, con il loro impegno, di essere la causa del cambiamento e del miglioramento delle cose per altri loro compagni.

 

“Siamo soliti dire che educare le ragazze è come innaffiare le piante, ora vogliamo che le nostre figlie diventino insegnanti, o dottori o qualsiasi altra cosa vogliano”.

 


Tratto da GxG Magazine e http://www.freethechildren.org

Di Alessio Basso

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