Doveva accadere che perfino Crudelia, l’abominevole cattiva di La carica dei 101, venisse risucchiata in un film dedicato alla sua formazione.
Doveva accadere che perfino Crudelia, l’abominevole cattiva di La carica dei 101, venisse risucchiata in un film dedicato alla sua formazione. Ovvero, per dirla in termini un tantino più precisi, in un prequel, la moda hollywoodiana del momento. Il successo che la pellicola sta ottenendo in tutto il mondo autorizza a provare a fare il punto sulle ragioni profonde che ispirano le grandi major cinematografiche a ritornare sui propri film (per lo più rivolti ai ragazzi, ma non solo) più amati, proponendone riprese e riscritture. Nel merito se ne sono dette di tutti i colori. C’è chi la butta sul legale. La gran parte delle pellicole in questione si ritrova, infatti, di fronte alla questione di non poco conto della scadenza dei diritti di sfruttamento commerciale; riproporne una riscrittura in questo caso garantirebbe una prolungata protezione a questi film a svariate decine di anni. Sarebbe questa, secondo alcuni, la ragione per cui classici come Dumbo, Cenerentola o Il libro della giunga sono stati trasposti in live-action, ossia con attori in carne ed ossa. C’è poi chi ne fa una questione generazionale. Riprendere questi classici sarebbe, secondo tale vulgata, un modo per mettere a frutto commercialmente un tessuto mediale ampiamente condiviso dalla generazione delle mamme e dei papà dei nuovi spettatori-bambini dell’intrattenimento globale, desiderosi di “passare il testimone” alle nuove generazioni, condividendo con i loro figli le storie e i personaggi che essi stessi avevano amato durante la loro infanzia.
Ancora, ci sono coloro che richiamano il famigerato politicamente corretto. Queste riscritture sarebbero dentro una operazione generale di ripulitura ideologica, in modo da “alleggerirli” dal peso di baci non consensuali (La bella addormentata nel bosco), stereotipi razzisti (i corvi di Dumbo) e chi più ne ha più ne metta. Si è anche detto, più prosaicamente, che riprendere successi entrati nella mitologia sia un espediente per fare soldi facili senza alcuno sforzo creativo. È questa, per esempio,l’accusa rivolta da George Lucas in persona alla nuova trilogia Disney di Star Wars, a suo dire frutto di un rimaneggiamento superficiale delle trame che finisce però per riproporre schemi narrativi copiati dagli episodi antecedenti della saga.
Si può cominciare con il rilevare come la questione delle riscritture, nel funzionamento della cultura, possa essere considerata la regola più che l’eccezione: il folklore, dalle mille fiabe senza autore passando per Omero, dai fratelli Grimm fino ai cartoon di oggi, si costituisce come riscrittura. In modo che sia proprio il fatto che un determinato testo abbia subito una qualche riscrittura a informare del suo avvenuto accesso a uno statuto mitico, di segno dei tempi. La produzione di intrattenimento della società di massa – è così assodato da apparire ovvio – si conferma come luogo di produzione immaginifica, a tutti gli effetti di miti d’oggi. E Crudelia, la cattiva, non fa eccezione. Eroina intermediale, prima di approdare al film attualmente nelle sale, è, infatti, passata attraverso un romanzo (La carica dei 101, 1956, della scrittrice inglese Dodie Smith), il celebre cartoon della Disney del 1961, un live-action (arriva nel 1996: La carica dei 101 – Questa volta la magia è vera, interpretata da un’iconica Glenn Close), una serie animata (La carica dei 101 – La serie del 1997), a cui segue nel 2000 La carica dei 102 – Un nuovo colpo di coda sempre con Glenn Close, un altro cartone animato del 2003 (La carica dei 101 II – Macchia, un eroe a Londra), per non dire della serie infinita di parodie e riprese in giro per il mondo, dal teatro alla tv. Basti dare un’occhiata generale al succedersi di queste opere per rilevare come il personaggio di Crudelia cresca di progressivamente di importanza, prendendo il sopravvento sul resto della compagnia, fino a diventarne, come, per l’appunto, nell’ultimo nato, esplicito protagonista. Crudelia, mito d’oggi.
A permetterci di delimitare ulteriormente il perimetro delle nostre riflessioni è, però, il fatto che, come si diceva, Crudelia si incarni in un particolare tipo di riscrittura, quello del prequel. Se il cinema degli anni 80 ci aveva abituato a interminabili liste di dimenticabilissimi sequel (Scuola di Polizia del 1984, arrivò addirittura 6), il cinema contemporaneo preferisce, infatti, battere la strada opposta. Tantissimi sono i titoli che hanno scelto la formula di ricostruire il passato dei personaggi più amati del cinema e dei fumetti – da Batman Begins a Smallville, da Joker a Lo Hobbit. Cosa mai possono avere in comune questi film e in che modo Crudelia si inserisce in questa tendenza? Facile: i personaggi oggetto di queste operazioni sono accomunati tutti dall’essere fortemente polarizzati. O buonissimi o cattivissimi. Già in Apocalittici e Integrati, Umberto Eco poteva lamentarsi di come fumetti come quello di Superman si caratterizzassero per il fatto di essere senza tempo, senza evoluzione, in definitiva senza storia. Ogni episodio delle sue avventure si concretizzava, infatti, come la riproposizione di un canovaccio prevedibile e ben conosciuto dai lettori (e successivamente dagli spettatori dei film da questi fumetti tratti) in cui il problema non era tanto sapere come andasse a finire (si sapeva che Superman, eroe positivo e salvifico, avrebbe, infine, vinto) ma lasciarsi sedurre dal rocambolesco della battaglia, della performance, ad ogni episodio, rinnovata contro un nuovo cattivo. Superman è Superman, e per essere tale, non si può evolvere, non si può trasformare, in quella che appare come una vera e propria condanna a ricominciare da capo.
Luca Raffaelli (2005), seguito da Andrea Tagliapietra, identifica con il termine “anti-disneyano” questo genere di scelta, ritenendo i film Disney modello invece di racconto tradizionale, fondato per l’appunto, sulla trasformazione del mondo, ottenuta attraverso una qualche prova glorificante e definitiva che impone il punto di vista ideologico dell’eroe. In effetti, da Biancaneve al Re Leone fino agli ultimi film della Pixar, siamo sempre di fronte a individui, che grazie alla loro caparbietà e talento riescono a trasformare lo stato delle cose, senza possibilità di replica. Ecco perché i pochi sequel dei film Disney seguono sempre la linea del tempo, in modo che, per dire, il Re Leone II, segni il passaggio di testimone della monarchia da vecchio Mufasa al giovane Simba, chiamato a nuove responsabilità una volta ereditato il trono del padre. Lo stesso può dirsi per le riscritture di La carica dei 101, in cui fatto salvo il live action (che comunque prevede un cambio di ambientazione e quindi un “aggiornamento” della storia), la linea temporale è ben scandita dal passaggio di testimone da Pongo e Peggy ai loro cuccioli (La carica dei 102). Tutto chiaro e condivisibile. Se non fosse che, se è vero che l’universo Disney propone storie di personaggi che, messi alla prova, realizzano se stessi e la loro visione del mondo in un orizzonte temporale, lo stesso non può dirsi dei loro avversari.
I cattivi Disney, sono cattivi e basta. Cattivi sempre e comunque. Sono anti-diseneyani, ovvero non crescono, non si trasformano e alla prima occasione sono disposti a ricominciare, come se nulla fosse, a compiere le loro malefatte rivolgendole eventualmente agli eredi delle loro storiche controparti. Personaggi come Grimilde (Biancaneve e i sette nani, 1937), Malefica (La bella addormentata nel bosco, 1959) o la stessa Crudelia (La Carica dei 101, 1961) sono cattivi senza una ragione, rappresentano un mondo ideologico in cui i valori non si discutono, in cui il problema dell’alterità non è pensabile, in cui la devianza semplicemente non è contemplata: essere contro il sistema paternalistico piccolo borghese rappresentato dagli eroi Disney significa essere squinternati, pazzi, cattivi senza (una) ragione.
E così appare Crudelia in La Carica dei 101 del 1961. La vecchia compagna di classe di Anita è bipolare (cfr. la sua acconciatura che divide in due il suo volto), isterica, fumante, minacciosa, ossessionata dalle pellicce e dai cuccioli, senza che di queste stranezze se ne dia conto e a tutti va bene così. Crudelia è la perfetta incarnazione di un’America manichea che si rappresenta dalla parte giusta della storia e che si intesta la missione di schiacciare ogni alternativa al proprio modello come aberrazione da cancellare dalla faccia della terra per il bene dell’umanità, in un lieto fine celebrato pomposamente e senza remore.
Da qualche tempo, il consenso di fronte a questo modo di procedere sta venendo meno. Sempre più spesso appaiono movimenti che contestano un tale manicheismo di fondo, invitando a rileggere la storia alla luce di una critica severa della propria condotta.
Movimenti come #metoo ma soprattutto #blacklivesmatter rappresentano solo la punta dell’iceberg di un processo di apertura verso la complessità, promosso silenziosamente a partire dagli anni 70 nei college e nelle università americane grazie a una rilettura dei testi fondamentali della scuola di Francoforte, di Marcuse e perfino di Gramsci a cui si aggiungono i “nuovi” Cultural Studies che da Anderson a Said hanno messo sotto accusa le politiche coloniali occidentali. Tali teorie sono progressivamente state istituzionalizzate nei programmi delle facoltà umanistiche e fatte proprie dalla nuova generazione di millennial, formatisi nel loro insegnamento. Adesso che i millennial stanno progressivamente diventando classe dirigente, una tale posizione critica può approdare al cuore delle istituzioni e del pubblico dibattito, sotto forma di una dirompente rivendicazione politica di discontinuità con il passato. Ciò che mi interessa sottolineare di questa evoluzione è il fatto che da alcune frange illuminate di questi movimenti sia pervenuta una richiesta di complessità, di apertura verso narrazioni plurime dei medesimi fatti, verso l’idea (semiotica) che sia il racconto a dare senso all’esperienza e che il quadro ideologico della distinzione fra buoni e cattivi non sia affatto ontologico ma frutto dell’assunzione tutta politica di un punto di vista nel racconto. E allora arriva Maleficentche si può perfino permettere, ottenendo acclamazione generale, di rileggere La Bella Addormentatadal punto di vista della cattiva.
I prequel in questa partita svolgono un ruolo fondamentale.
Perché permettono di fare un passo indietro nella storia, ricostruendo la formazione di questi cattivi, in questo modo gettando luce sull’enigmaticità della loro condotta. Il prequel si rivela, così, uno strumento politico, di inclusione dell’alterità all’interno di una narrazione comprensibile, in cui il comportamento deviante possa essere ricondotto a una razionalità di fondo, a delle buone ragioni. È grazie al prequel che la storia principale può assumere un nuovo senso, può essere vista sotto un’altra luce, in modo da far evaporare l’idea che esista un “male” ontologico tanto cara a una certa politica (ricordate l’“asse del male” di Bush?) per lasciare il passo alla “pazienza diplomatica” dell’era obamiana, rivolta a cartografare le buone ragioni di tutte le parti in conflitto in vista della loro ricomposizione in un tessuto condiviso. Di questo passo, perfino la terribile Crudelia Demon, se si va indietro nella storia (andando avanti nella scrittura, ovvero inventandole da zero un passato), si capisce che non è una cattiva “ontologica”, piatta. Ma che anche lei può accampare le sue buone ragioni, vantare una storia che meriti di essere raccontata. Prendiamo il suo strambo modo di vestire. Nel cartone animato originale del 1961 il suo look è una parte essenziale della sua matta “cattiveria”. La sua ossessione maniacale all’estetica, vista dal punto di vista paternalista e piccolo borgese della famiglia di Rudy e Anita, appare il segno inequivocabile del deficit etico che la caratterizza come cattiva. Toccherà al film mostrare come la passione per la moda della piccola Estella (non ancora rinominatasi Cruella, ovvero Crudelia) fosse perfettamente integrata nel contesto culturale progressivo e aperto della swinging London degli anni ’60, della liberazione sessuale, delle minigonne e del glam, tutt’altro che disprezzabile.
Anche la balzana predilezione per i dalmata trova nel film una spiegazione più che plausibile. Perfino i cani, come tutti i personaggi del film non sono né buoni, né cattivi, li vediamo allo stesso modo correre inferociti all’attacco di inermi e scodinzolare amorevoli, a seconda della situazione, perché è la situazione, l’altro a determinare la condotta di ognuno. Ma se la malvagità non è una passione innata, cosa spinge le donne e gli uomini a commettere atti riprovevoli? La risposta non fuoriesce dal paradigma antimetafisico della svolta alla complessità che abbiamo fin qui tratteggiato. Non è una qualità dell’animo ma un processo dinamico, una passione “narrativa” che farà (nel sequel del prequel?) di Crudelia Crudelia. La quale non mostrerà alcuna idiosincrasia specifica verso i cani, nonostante i motivi perché per avercela con loro – lo si capisce guardando il film – ci fossero tutti. A corrompere il prossimo, senza distinzione fra donne e uomini, è, piuttosto, il potere.
Cattivi si diventa, piuttosto, a poco a poco, assuefacendosi a soprassedere alla massima kantiana che chiede all’uomo di “agire in modo da trattare sempre l'umanità, così nella propria persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo”.
È la rinnovata considerazione del valore umanistico di una tale massima, innervata nell’immaginario per il tramite dello strumento narratologico del prequel, a segnare la nuova vocazione alla complessità della società americana. Come si diceva, una tale svolta richiede capacità di ascolto, apertura, sospensione del giudizio. Ma soprattutto presenza mentale: basta poco per ricadere nella trappola del manicheismo puritano, prendendo la scorciatoia di utilizzare i prequel per dire – come, per esempio, fa Maleficent – che i nostri vecchi (boomer!) avevano sbagliato tutto, dato che quelli che sembravano buoni in realtà erano cattivi e quelli cattivi buoni.
tratto da doppiozero.com
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