D'Avenia: “C'è l'eroismo dell'adolescenza"

Se l'apertura al mondo trova un senso a cui votarsi, lo slancio erotico si fa eroico...

D’Avenia: “C’è l’eroismo dell’adolescenza"

 

In questi anni ho ricevuto molte lettere e confidenze di ragazzi che, dopo aver letto il mio primo romanzo o visto il film che ne è stato tratto, mi raccontavano di aver deciso di donare il sangue e, se maggiorenni, di iscriversi al registro dei donatori di midollo.  

 

Sono sempre stato convinto che non ci sia età più «erotica» e quindi «eroica» dell’adolescenza: erotica perché il desiderio di aver presa sulla vita porta ad aprirsi al mondo in cerca di ciò che possa soddisfare la sete che caratterizza qualsiasi adolescente, e lo confonde per eccesso di domanda e carenza di risorse. Se questa apertura al mondo trova un senso a cui votarsi, lo slancio erotico non si ripiega su se stesso diventando narcisistico, ma si fa eroico, di un eroismo non eclatante ma appagante, si scopre di essere dono per sé e per gli altri.  

 

Un tempo il transito dall’adolescenza all’età adulta era segnato da veri e propri riti di passaggio, che segnavano la capacità di guardare in faccia il mondo e affrontarlo. Oggi questi riti sono diluiti in un acido consumistico: età in cui soddisfarli e riempirli di oggetti, quando invece è fatta per aprirsi e riempirsi di progetti, che costringano ad entrare in contatto con il mondo, senza quegli schermi che, paradossalmente, ci danno l’ebbrezza del contatto con la realtà, ma dalla realtà, come dice la parola stessa, ci schermano e a contatto c’è solo un dito della nostra mano. Ricordo ancora la prima volta che imboccai un bambino cerebroleso, in quel momento mi chiesi che cosa stavo facendo io delle mie mani, delle mie gambe, dei miei occhi perfettamente in funzione, nella vita di tutti i giorni. 

 

I ragazzi di Alba che vogliono donare il midollo al compagno, sollecitati dalla vita ferita, ci ricordano che adolescenza è il primo passo consapevole, e per questo vertiginoso, verso l’acconsentire d’esser nati, dare consenso all’assoluto involontario dell’esser qui, al fatto che la vita è data, con le sue gioie e i suoi drammi. Solo così si scopre che non siamo più in un parco di divertimenti che risponde ad ogni nostro desiderio, come per il pensiero magico e onnipotente del bambino. L’adolescente entra nella vita, perché la vita entra dentro di lui in modo nuovo e più pieno, e lo ferisce. Può quindi scegliere di ritirarsi o guardarla in faccia e chiedersi per cosa valga la pena morire, cioè vivere. Non sto parlando di masochismo sacrificale, ma proprio di affermazione piena della vita, del normale spaccarsi del seme per poter diventare rosa: se il seme non si apre e non si lascia aprire da sole, terra, acqua, accogliendo il suo destino, rimane sterile e si percepisce come «nonsenso», proprio perché non ha direzione, il suo destino non si fa destinazione. Se invece trova la ragione per rompere il guscio si lascia ferire ed entra nel mondo con la sua fioritura, e si sperimenta come dono di colori e sapori per il mondo, benché il prezzo da pagare sia una morte «apparente», perché in realtà è «più vita». Donare il sangue non è forse questo? 

 

L’adolescente coglie allora che non siamo esseri «per» la morte, ma esseri «con» la morte, da superare proprio con lo slancio della vita, che è tale quando si fa dono, cioè spazio e tempo dedicati agli altri, come questi ragazzi che donano il sangue. Gli adolescenti non provocati alla vita e dalla vita, non posti di fronte a delle ragioni per darsi, ma solo a delle proposte per consumare, non riescono a percepire la grande sfida che riempie una vita di senso: tutto il di più di vita che entra in loro è fatto per essere dato, una volta riconosciuto il seme di cui sarà fiore e frutto, come scrive Dante nel Convivio: «A l’adolescenza dato è quello per che a perfezione e a maturitade venire possa». Per cosa lottano? Per l’ultimo modello di cellulare? O per donare il sangue, per una vetta da raggiungere in montagna, per un amico da sostenere, per una passione da coltivare, per un malato da accudire? Scopriamo la nostra altezza solo quando qualcuno ci invita ad alzarci in piedi, a uscire, a prenderci cura di quello che i nostri sensi aperti lasciano entrare. Non sapremo nulla della vita se rimaniamo piegati sul nostro ombelico, riparati dietro uno schermo, accontentandoci di essere «profili» e non uomini e donne integrali. Basterebbe qualche ora in un reparto di oncologia pediatrica per ricordarsi che la vita debole e ferita è compito nostro. 

 

Alessandro D'Avenia

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