Come educatori possiamo metterci dalla parte dei giovani per educarli alla paternità, alla maternità, alla famiglia. Possiamo anche metterci dalla parte dei genitori per esplorare a fondo il senso della coppia e della famiglia secondo il disegno di Dio...
del 14 settembre 2005
 
Ciò che si chiama il “conflitto delle generazioni” è sempre più o meno esistito. I giovani contestano e si ribellano. Gli adulti diffidano dei giovani. Il fosso della contestazione si allarga o si restringe lungo il corso dei secoli. Tutto questo sembra rientrare nella normalità che vede una generazione spingere l’altra per occupare il centro della scena ed essere protagonisti nella storia.
Ma oggi non si tratta più di un normale conflitto generazionale: è il concetto stesso di “famiglia”, di “paternità” e “maternità” che è messo in questione.
 
Un aspetto del dramma attuale
 
Nella nostra società, la famiglia, la paternità e la maternità non godono buona stampa: è il meno che si possa dire. I più adulti ricordano ciò che accadde a Parigi, in Francia e poi in tutti paesi occidentali nel famoso “maggio caldo” del ’68. L’illustre pubblicista Gérard Mendel ha dato di quelli avvenimenti l’interpretazione seguente: “Il tempo della sola fraternità orizzontale è arrivato con il rifiuto di ogni rapporto verticale con qualsiasi padre: è l’assassinio rituale del padre annunciato da Freud. Attraverso la loro contestazione virulenta, nei lanci di sassi e di bottiglie, i giovani, ben oltre i poliziotti, miravano il padre politico (De Gaulle), il padre culturale (i professori), il padre capitalista (i padroni), il padre religioso (i preti), il padre biologico (i genitori), e Dio stesso, presentato sotto il nome e la figura del Padre supremo, che suscita e protegge tutti gli altri padri”.
Questo rifiuto tragico della famiglia e della paternità, il filosofo francese Jean-Paul Sartre l’aveva espresso, poco tempo prima, in una pagina agghiacciante della sua autobiografia “Les mots” (“Le Parole”): “Non c’è padre buono, questa è la regola. Non se ne dia colpa agli uomini, ma al legame di famiglia e di paternità che è marcito. ‘Avere’ dei figli, quale iniquità! Fosse vissuto, mio padre si sarebbe coricato sopra di me in tutta la sua lunghezza e mi avrebbe schiacciato. Per fortuna è morto in giovane età, a 30 anni… Ciò che io so di lui non ha alcun rapporto con me… Abbiamo calpestato per qualche tempo, lui e io, la medesima terra, ecco tutto”.
 
Oggi, forse, manca questo aspetto conflittuale, ma assistiamo a un fenomeno ancora più preoccupante. È in atto un vero cambiamento antropologico, frutto amaro di una “devastazione” morale e culturale che ha toccato tutti i paesi dell’occidente. I drammi nelle famiglie si moltiplicano, ma l’indifferenza generalizzata verso la gioventù, espressa emblematicamente attraverso il calo dei tassi di nuzialità e di natalità, è la conseguenza logica di una crisi di fiducia verso la vita, verso il futuro, verso ciò che è nuovo e diverso. L’indifferenza è l’atteggiamento obbligato di una società che, avviandosi ad un rapido invecchiamento, si ripiega nevroticamente su se stessa, senza speranza. Ci troviamo in una società protesa a garantire la qualità della vita degli “esistenti” e degli “aventi potere” contro i rischi o le minacce di altri pretendenti alla vita. Una tale società non può che relegare i bambini e i giovani nella marginalità e nell’insignificanza. Il numero sempre più grande di famiglie divise, di padri e madri senza figli o di figli senza padri e madri, ci dice quanto sia grave, oggi, la crisi.
 
Anche nelle famiglie “normali” è molto scarso il dialogo che genera comunione, l’unico che alimenta l’amore. Il dialogo ha costituito la gioia del fidanzamento e la ricchezza che si voleva assicurare mediante il matrimonio. Ma il ritmo pressante del mondo del lavoro e la televisione rubano poco a poco lo spazio. Quel poco che rimane per conversare, gli sposi (convertiti in co-gestori della “impresa-focolare”) lo dedicano a risolvere i loro “urgenti” problemi economici, poiché i conti da pagare (a differenza del dialogo) hanno scadenze fisse e improrogabili. In questo clima spersonalizzato, il più delle volte, solo la madre salva qualcosa di autentico clima familiare; in base a quella “specie di profetismo peculiare della donna” (MD 29) di cui parlava Giovanni Paolo II, che la porta a collocarsi spontaneamente “nell’ordine dell’amore”(ib.) e che la presenta – fin dal racconto biblico della creazione – come un simbolo della chiamata alla “comunione interpersonale”, che per Giovanni Paolo II è “l’ethos fondamentale del Vangelo (cf MD 7). In questo contesto il padre – compresi molti che credono in coscienza di compiere correttamente il loro dovere – si limita ad essere il “provveditore” del focolare. Il suo dialogo è minimo. Non ha il peso vitale che dovrebbe avere sui figli. Tutto questo ha delle conseguenze psicologiche e religiose gravissime.
 
Di fronte a questa crisi della famiglia non possiamo presentarci né come spettatori cinici davanti alle disgrazie altrui, né come i salvatori di una causa persa.
Siamo coscienti di trovarci davanti a un tema molto complesso, ricco di risorse ma anche di molte problematiche. Come educatori possiamo metterci dalla parte dei giovani per educarli alla paternità, alla maternità, alla famiglia. Possiamo anche metterci dalla parte dei genitori per esplorare a fondo il senso della coppia e della famiglia secondo il disegno di Dio.
Sotto qualsiasi aspetto si affronti questa problematica, noi vogliamo collocarci come educatori. La vocazione dell’educatore è di essere pienamente padre-madre e, nello stesso tempo, pienamente figlio. Questo non deve stupirci, poiché è il cuore del mistero di Dio stesso. E se le cose stanno così, allora non c’è niente di più catastrofico che il rifiuto o le degradazioni della paternità-maternità, e niente di più importante che di imparare ad essere padre-madre per davvero, ad immagine di Dio Padre, e imparare ad essere Figlio, ad immagine di Dio Figlio.
Senza escludere altre prospettive, privilegiamo quella dell’accompagnamento mettendoci a fianco delle famiglie per aiutarle a vivere bene la loro identità e, nello stesso tempo, aiutiamo i giovani a vivere con dignità anche le situazioni familiari più drammatiche.
 
È necessario, perciò, stringere delle alleanze educative, creare sinergie, costruire ponti perché la famiglia, da “isola chiusa” nei suoi problemi, diventi una comunità educante. In questa alleanza deve essere chiaro l’obiettivo che vogliamo raggiungere insieme. Ma, per raggiungere l’obiettivo, deve essere chiara anche la fonte ispiratrice.
 
 
La Trinità: fonte ispiratrice e modello di vita in comunità
 
“All’inizio era la relazione…”. Il modello di vita in comunità tra gli umani – nella Chiesa, nella famiglia, nei conventi, nella parrocchia e nella società – è in Dio. La vera costruzione di una comunità parte da lì. Il segreto del “come vivere insieme” non è da ricercare nelle nostre riflessioni, nei nostri progetti, nelle nostre tradizioni e neppure nelle leggi: è solamente in Dio. “Non andate fuori strada, fratelli miei carissimi; ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce…” (Gc 1,16s). Quale dono più grande dell’amore? L’amore è rivelazione dei legami che si vivono nella famiglia trinitaria. Amore che si fa intrinseca esigenza di dono. Noi (Padre, Figlio, Spirito Santo) viviamo in questo modo. E siamo felici. Vi doniamo questa medesima vita, perché anche voi siate felici. Un dono che è vita perché ci fa uscire dal chiuso dell’indifferenza. Una vera comunione secondo il modello trinitario non è né fusione né confusione. Il vero amore rinforza l’altro nella sua alterità. L’amore, lungi dall’escludere l’alterità, promuove al contrario l’altro in ciò che gli è proprio e ne gioisce.
Se la Trinità è icona di ogni comunità, essa costituisce in particolare un modello per la famiglia. Perché, anche nella famiglia, l’unità nasce dalla molteplicità, senza fusione né confusione. È ciò che viene evocato già nel racconto della creazione. Dio, nella creazione, pensa già alla comunità terrestre formata dall’uomo, dalla donna e dal loro focolare. “Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” (Gn 1,26s). Dio parla al plurale: “Facciamo l’uomo…”. “A immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”. Il plurale di Dio ha il suo riflesso in una dualità sulla terra.
 
Ma è anche l’unità divina che si riflette sulla terra nell’unione tra l’uomo e la donna. Nell’unione, conservano la loro alterità. Si amano, ma non si fondono l’uno nell’altro. Ognuno conforta l’altro nella sua differenza, perché l’amore non è fusione. I metalli fondono, ma non le persone umane. Uomo e donna si accettano nella loro alterità. Amando la propria moglie, l’uomo la rende sempre più donna, e reciprocamente. Con il loro amore, i genitori rendono il figlio sempre più il loro figlio; e ogni figlio rende i genitori sempre più genitori. Un focolare è felice quando mette in pratica i consigli di Paolo: “Ciascuno di voi consideri gli altri superiori a se stesso” (Fil 2,3) e “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10).
 
Nella famiglia, come nella Trinità, esiste una fecondità interna: il figlio nasce dall’amore come un frutto naturale. La fecondità è scritta nel cerchio stesso dell’amore tra l’uomo e la donna. Ma non è un cerchio chiuso: la famiglia è aperta. Innanzitutto perché l’amore coniugale è aperto all’ospite desiderato, il figlio. Ma anche perché un focolare solidamente unito è ospitale: alla sua tavola c’è sempre posto.
Questo è l’ideale, il modello. Bisogna riconoscere che molte famiglie camminano generosamente verso questo ideale. Si tratta di incoraggiarle, di aiutarle nelle difficoltà. Altre misurano una distanza sempre più grande e sempre più dolorosa tra l’ideale e la realtà. Rimane sempre un cammino da fare: è il cammino educativo. È un cammino da fare insieme, genitori, figli, educatori.
 
 
Educatori di uomini liberi, solidali e creativi
 
Noi vogliamo educare delle personalità libere, solidali e creative. Ma le persone sono già segnate e condizionate dalle loro esperienze familiari, dai vuoti e dai limiti di quella che dovrebbe essere, in quanto “intima comunione di vita e di amore” (GS 48), “la scuola del più ricco umanesimo” (GS 52) e allo stesso tempo “la chiesa domestica” (LG 11). È nella famiglia che dovrebbero anche realizzarsi, nella fede, le prime esperienze come membri della “Famiglia di Dio”; esperienze che permetteranno a loro volta di credere che Dio stesso “è una famiglia”.
 
Le tre caratteristiche del tipo di personalità che dobbiamo educare presuppongono, in via normale, un ambiente familiare. Perciò, questo “ambiente familiare”, per quanto è possibile bisogna ricrearlo all’interno della famiglia stessa, altrimenti in altri spazi alternativi. L’obiettivo rimane sempre lo stesso: educare personalità libere, solidali, creative. È questo l’unico modo di ridare vitalità al concetto stesso di “famiglia”, “paternità”, “maternità”, che rischia di marcire.
Essere libero significa avere capacità di decisione autonoma, in base all’obbedienza alla propria coscienza (è qui il nocciolo della dignità umana: cf GS 16). Ciò suppone di essere, in un certo grado, sicuro di sé: credere che “valgo”, sono intelligente e capace di riuscire. Ora, di regola, una sana coscienza di “valere” si forma a partire dall’esperienza di essere valorizzato dagli altri. È questo il primo compito dei genitori: dimostrare al figlio, mediante il loro amore e la loro dedizione, che vale. L’apprezzamento da parte della madre è piuttosto affettivo; fa che si senta compreso e stimolato, spinto a provare di nuovo una volta perdonato. L’apprezzamento del padre comunica maggior sicurezza (egli è il simbolo del mondo esterno, sconosciuto) e provoca al rischio e al nuovo.
 
Solo colui che si sente apprezzato e sicuro di sé (cioè, con dignità e capacità di essere libero) può essere fraterno e solidale; accetta che anche l’altro vale perché amato dagli stessi genitori che lo amano. Spesso l’arrivo di un fratellino rappresenta una crisi: lo si considera un rivale: la rivalità diventa fraternità quando entrambi imparano a guardarsi avendo come punto di riferimento coloro che sono il “centro” e “l’origine” comune. Normalmente le persone egocentriche e incapaci di rapporti fraterni e solidali sono coloro che, non essendosi mai sentiti apprezzati serenamente da altri, permangono aggrappati angosciosamente alla difesa del loro “io”.
 
Da un sano rapporto filiale e fraterno nasce spontaneamente la creatività, perché l’amore esige di esprimersi rendendo dei servizi. È una forma di creatività che, non essendo mossa in primo luogo dalla preoccupazione di “dominare” ma di dimostrare amore, si può esercitare “dominando” le cose di cui si abbisogna per servire gli altri, senza convertire questi in oggetto di sfruttamento. Colui che serve per amore esplica una creatività che fa diventare “signori” tutti i fratelli.
 
 
L’educatore: autorità paterna che serve e libera  “per una vita più abbondante”
 
Il discorso sulla famiglia deve essere ricollocato all’interno della categoria “vita”.
Qui deve convergere l’attenzione, la riflessione e l’azione della comunità educante.
È un discorso particolarmente importante oggi, quando la mentalità spersonalizzante della nostra cultura tende a considerare l’universo e la società come grandi meccanismi, dimenticando che la vita è essenzialmente “organica”; come lo è anche quella “comunione” che deve irradiarsi dalla famiglia e dalla Chiesa, sotto forma di solidarietà, verso la cultura del terzo millennio. Tutto questo implica riacquistare una sensibilità per ciò che è vitale e di cui si debbono occupare propriamente gli educatori. Perché l’uomo moderno sta procedendo in senso opposto alla narrazione della creazione. Corre sempre più il pericolo di diventare “a immagine e somiglianza” delle sue creazioni predilette. Questo conduce a vivere in una “cultura delle cose” e dei “meccanismi”.
Come comunità educante dobbiamo fare una opzione fondamentale per la vita e ciò che vive. Tale opzione fondamentale deve liberare il concetto di famiglia alla radice, e la liberazione in vista della “vita in abbondanza” (Gv 10,10) che ha portato Gesù, passa attraverso il rispetto delle “leggi della vita”.
 
 
Le leggi della crescita della vita
 
Forse è su questo punto che la famiglia è più carente: non si conoscono e non si rispettano le leggi della crescita.
 
È importante, perciò, creare reti educative tra famiglia, scuola, oratorio, parrocchia, associazioni. Creando occasioni di incontro si arricchisce il capitale sociale.
Come educatori ci incontriamo con le persone già “marcate” dalla loro eredità genetica come pure dall’afflusso della famiglia dell’ambiente sociale. Il nostro compito consiste nell’aiutarle a crescere. 
 
SCHEDA 
* A questo scopo, la prima delle “leggi” di cui tener conto è la legge della lentezza.
È evidente; però ci costa rispettarla, nell’epoca del computer e del robot. Essa implica una chiamata di Dio. Se vogliamo essere educatori fecondi dobbiamo cercare di divenire “geni della pazienza”, come Dio, Padre ed Educatore.
 
* La seconda legge ci dice che la vita cresce dal di dentro all’infuori, così come germina il seme.
Questo “dentro” dell’uomo è la sua libertà. Quanto non è assunto da essa non è vera crescita ma solo appiccicatura. La libertà fa suo ciò che riesce ad unire in sintesi attorno al nucleo che percepisce come la propria identità. Tale sintesi non è un puro processo razionale. Deve arrivare ad affondare le sue radici proprio nel cuore. Di qui la necessità di motivazioni. Non si cresce in base a castighi o imperativi etici (“si deve”). La libertà e il cuore si motivano mediante ideali che “attraggono” la volontà e insieme “toccano” il cuore, come quelli che ha saputo mostrarci Gesù. Pertanto questa “legge” ci obbliga ad unire alla “genialità della pazienza” una “pedagogia degli ideali”. E ci spiega anche il perché della “legge della lentezza”: perché ogni processo di sintesi richiede del tempo; per assimilare l’elemento nuovo, sintetizzarlo con quanto c’era e lasciare poi che questa sintesi maturi, mettendo radici nella libertà e nel cuore.
 
* La terza legge ci dice che la vita cresce da una totalità organica verso un’altra: come l’albero, i cui componenti iniziali erano tutti compresi nel seme.
Ciò che “è vivo”, quindi, non cresce come un edificio cui si vanno aggiungendo altri piani o come una macchina cui si montano nuovi pezzi e ingranaggi. Questo esige che, in ogni tappa di crescita, si vadano coltivando simultaneamente tutte le dimensioni della vita umana: fisica, affettiva, intellettuale, religiosa, sociale… (naturalmente nella forma e grado che ogni tappa richiede). Il motivo è che ogni legge della vita, se non è rispettata, “si vendica”. In questo caso la vendetta opera mediante la cosiddetta “legge delle reazioni pendolari” o “della vita non vissuta”; perché succede che all’improvviso tutte le energie vitali si gettano, unilateralmente, verso i valori dimenticati o trascurati nella fase precedente.
 
* La quarta legge ci dice che la vita cresce secondo certi ritmi. 
Questa legge, senza contraddire la precedente, la completa. Ci ricorda infatti che, nonostante il bisogno di coltivare permanentemente tutte le sue dimensioni, la crescita della vita non è sempre lineare. Vi sono tappe in cui avvengono dei salti, delle accelerazioni. Il caso tipico è l’adolescenza. Il buon educatore non deve meravigliarsi di fronte a simili novità apparentemente non equilibrate; deve stare all’erta per discernere se si tratta di sviluppi organici unilaterali, tipici dell’età, o se si tratta di sviluppi disorganici e malsani. Il discernimento non è facile. Qui entra in gioco il supporto della “comunità educante” che viene in aiuto allo smarrimento della famiglia che non capisce più quel ragazzo che è “cambiato”. La comunità educante allarga il discorso e aiuta a capire che vi sono altre tappe in cui cambiamenti del genere avvengono con forza: dopo il matrimonio, dopo l’arrivo del primo figlio o al pensionamento.
 
 
La comunità della vita
 
Rivedendo le “leggi della crescita della vita” forse la nostra immaginazione ha visto con maggiore evidenza quante volte i giovani che incontriamo nelle scuole, nelle parrocchie, negli oratori si sono sentiti urtati nelle loro stesse famiglie. Vediamo anche le ripercussioni religiose che queste esperienze negative della paternità possono avere nei confronti dell’apertura all’annuncio centrale della Buona Novella di Gesù: Dio è Padre. Di fatto, l’esperienza insegna che in alcuni questa parola può determinare un netto rifiuto.
 
Al termine ci poniamo questa domanda: come diventare una comunità educante che non sostituisce la famiglia ma la ingloba in un processo di crescita?
La nostra è una società senza padre. È un padre assente, un padre che fabbrica denaro, oggetti di benessere. Seppellisce i figli di oggetti, riempie la loro bocca di slogan perché non possano gridare che hanno bisogno di lui, non delle sue rappresentazioni, non dei suoi simboli sostitutivi. Vogliono un padre magari ammaccato, non una moto nuova. Il suo sorriso, non il rumore di una play station. Un padre per vivere, un padre per crescere, un padre per diventare padre. Quanti ragazzi cercano il padre e risponde la segreteria telefonica: “Il numero da lei richiesto al momento non risponde, potrebbe essere disattivato”. Un padre disattivato è peggio di un padre morto, perché i morti hanno tempo da dedicare, un padre disattivato non ne ha. Ma, oggi, essere genitori è un ruolo sempre più difficile.
 
Quando c’è un problema mandano i figli dallo psicologo, dall’esperto, quello più bravo.
Il dramma si acuisce quando, oltre al padre, manca anche la madre. A causa della distruzione delle famiglie incontriamo tanti “orfani” alla ricerca di un padre o di una madre sostitutivi. Essere educatore, allora, si rivela come una vera vocazione: essere il “padre” o la “madre” che non hanno avuto.
 
In questa prospettiva dobbiamo rileggere il giudizio finale da parte di Gesù e del Padre. Non in base alle dotte lezioni, non per le eccellenti dinamiche di gruppo che abbiamo attivato con i giovani, ma secondo la fedeltà alla nostra vocazione di “sacramenti” del suo amore paterno. Voglia il cielo che non avvenga come nella narrazione di Matteo 25: che il Signore ci dica “Allontanati dalla mia presenza, perché ho avuto fame di paternità e tu non mi hai accolto”. E quando gli domanderemo “Quando?”, ci ricorderà molti “orfani” del nostro tempo in cui Egli si è avvicinato a noi; e noi forse abbiamo dato loro molte cose ma non quello che Cristo voleva per loro: lo stimolo, la pazienza e il perdono del nostro cuore di padri.
 
SCHEDA 
* Genitori-educatori competenti non si nasce ma si diventa.
Essere genitori ed educatori non è come avere la patente per la macchina. In altre parole, un genitore non è automaticamente padre o madre, ma lo deve diventare, e per farlo deve agire in una certa maniera. Ognuno deve diventare padre o madre attraverso una metamorfosi ben più grande di quella che da bambino, attraverso la crescita, uno diventa adolescente. Il mondo è pieno di genitori, ma pochi sono padri o madri. Il genitore è necessario per nascere, il padre e la madre sono indispensabili per vivere. La paternità o la maternità è un’acquisizione progressiva, una conquista che si esprime nella relazione con chi è generato. E si può diventare padre o madre di un figlio che non si è generato. La comunità educante ha il compito, perciò, di fare una educazione socio-affettiva per genitori e per educatori. Tutti abbiamo bisogno di crescere come educatori educati; talvolta è necessario imparare l’alfabeto stesso delle relazioni.
 
* Insieme è meglio: come promuovere il mutuo aiuto tra genitori.
L’esperienza ci dice che molti drammi familiari si consumano nel silenzio di famiglie chiuse. Ma i ragazzi che noi incontriamo ne portano i segni, talvolta ferite profonde, sul volto. Le scuole, gli oratori, le parrocchie devono essere questi osservatori speciali per venire in aiuto alle famiglie in difficoltà. È necessario perciò creare centri per le famiglie, formare gruppi di aiuto e mutuo aiuto nelle scuole, nelle parrocchie, nei ritrovi culturali, nelle associazioni, nei servizi sociosanitari.
 
  * Creare opportunità extra familiari di crescita.
È tutto il territorio che deve offrire un ventaglio di opportunità di partecipazione e di crescita. La famiglia non è una realtà che tocca solo la Chiesa, ma tutta la società. La crescita della famiglia è di una tale importanza che dobbiamo superare nella mentalità e nella prassi i parallelismi e lo spirito concorrenziale che contrappone l’ecclesiale a quello che si fa nel civile. Dobbiamo inserirci nella corrente sana, educante del territorio, sentendoci
coinvolti in una costante mobilitazione in favore delle famiglie. La nostra partecipazione deve essere creativa offrendo tutto quel potenziale educativo che abbiamo nelle associazioni sportive, ricreative e di volontariato.
 
* Costruire capitale sociale e occasioni di incontro.
Il capitale sociale non è costituito solo dalle strutture, che in genere abbondano, ma dalle persone. Le famiglie, genitori e figli, hanno bisogno di aumentare non solo le conoscenze e le competenze, ma soprattutto di costruire nuove amicizie. È questo il capitale sociale che nelle scuole può diventare apprendimento collaborativo, nelle parrocchie e negli oratori appartenenza a un gruppo. Ma tutto questo non è altro che un’isola che getta ponti, costruisce alleanze per essere una famiglia allargata che respira e fa crescere.
 
* Prendersi cura delle nuove generazioni.
La vita dei giovani deve fare i conti, oggi, con un diffuso egoismo generazionale. Molte inchieste sulla condizione giovanile rilevano l’insignificanza degli adulti per la maggioranza dei giovani. Per questi, infatti, gli adulti non sono modelli né da imitare né da rifiutare, non sono né occasione di incontro né occasione di scontro: sono solo, semplicemente, insignificanti. Questa insignificanza dell’adulto per il giovane è prodotta in gran parte dall’egoismo generazionale, cioè dall’incapacità dell’adulto di percepire i giovani come il loro futuro. Questo fa sì che gli adulti considerano i giovani solo come dei contemporanei, si limitano a “proteggerli” offrendo loro le condizioni per una vita sufficientemente agiata, ma senza alcuna vera azione tesa a rendere gli stessi giovani soggetti attivi e protagonisti della vita sociale, economica e politica. La crisi della relazione adulto-giovane si esprime in tutta la sua pienezza nella relazione figli-genitori. Questo è il cuore del problema della famiglia, questo può diventare la risorsa per la rinascita della famiglia.
 C’è bisogno di un padre e di una madre. Di un padre e di una madre che ti guardano, ti sorridono e ti dicono: “Ci   siamo noi, non aver paura”. E non importa se anche loro hanno paura e se poi devono rivolgersi al padre e alla madre che si portano dentro. Si può far coraggio agli altri pur avendo paura.
 
 
FILMOGRAFIA SULLA FAMIGLIA
 
Il valore della famiglia
 
– La vita è meravigliosa (F. Capra, 1946)
– Bellissima (L. Visconti, 1950)
– Il ferroviere (P. Germi, 1955)
– Fanny e Alexander (I. Bergman, 1982)
– La famiglia (E. Scola, 1986)
– La vita è bella (R. Benigni, 1997)
– Una storia vera (D. Lynch, 1999)
– La stanza del figlio (N. Moretti, 2001)
 
Rapporti tra coniugi
 
– Scene da un matrimonio (I. Bergman, 1973)
– The Dead (J. Houston, 1987)
– La guerra dei Roses (D. De Vito, 1989)
– Turista per caso (L. Kasdan, 1989)
– Casomai (A. D’Alatri, 2001)
 
 
Rapporti tra fratelli
 
– Rocco e i suoi fratelli (L. Visconti, 1960)
– Anni di piombo (M. von Trotta, 1981)
– Le balene d’agosto (L. Anderson, 1987)
– Paura e amore (M. von Trotta, 1988)
– Rain Man – L’uomo della pioggia (B. Levinson, 1988)
– Così ridevano (G. Amelio, 1998)
– Billy Elliott (S. Daldry, 2000)
– La meglio gioventù (M.T. Giordana, 2003)
 
Genitori e figli
 
– Indovina chi viene a cena? (S. Kramer, 1967)
– Padre padrone (P. e V. Taviani, 1977)
– Kramer contro Kramer (R. Benton, 1979)
– Colpire al cuore (G. Amelio, 1982)
– Una domenica in campagna (B. Tavernier, 1984)
– Che ora è? (E. Scola, 1989)
– Padre e figlio (P Pozzessere, 1994)
– Il giardino delle vergini suicide (S. Coppola, 2000)
– Non è giusto (A. De Lillo, 2001)
– Le chiavi di casa (G. Amelio, 2004)
 
La crisi della famiglia
 
– I pugni in tasca (M. Bellocchio, Italia 1965)
– Family Life (K. Loach, 1971)
– Gruppo di famiglia in un interno (L. Visconti, 1972)
– Alfredo Alfredo (P. Germi, 1972)
– Shining (S. Kubrick, 1980)
– Parenti serpenti (M. Monicelli, 1991)
– American beauty (S. Mendes, 1999)
– L’ora di religione (M. Bellocchio, 2002)
– Ricordati di me (S. Muccino, 2003)
 
(da CGS, Cinema Giovani Famiglia 2004)  
 
CANZONI SULLA FAMIGLIA
 
– Andrea Bocelli, A mio padre (da “Sogno”)
– Antonello Venditti, Mio padre ha un buco in gola (da “Le cose della vita”)
– Cat Stevens, Father and Son (da “Tea for the Tillerman”)
– Cesare Cremonini, Padre madre
– Claudio Baglioni, Avrai (da “Alè-oò”)
– Edoardo Bennato, Viva la mamma (da “Sembra ieri”)
– Eros Ramazzotti, L’aurora
– Fiordaliso, Il mio angelo (da “Risolutamente decisa”)
– Jovanotti, Ciao Mamma (da “Giovani Jovanotti” e “Lorenzo 90-95”)
– Jovanotti, Mario
– Laura Pausini, Mi dispiace (da “Le cose che vivi”)
– Lenny Kravitz, Thinking of you (da “5”)
– Mia Martini, Padre davvero (da “Oltre la collina”. “Una donna, una storia”, “Il meglio di Mia Martini”)
– Nek, In te (da “In te”)
– Renato Zero, No. Mamma, no (da “No, mamma, no”, “Prometeo”, “La coscienza di Zero”, “Il trapezio”)  
 
 
 
 
Articolo tratto da: NOTE DI PASTORALE GIOVANILE. Proposte per la maturazione umana e cristiana dei ragazzi e dei giovani, a cura del Centro Salesiano Pastorale Giovanile - Roma.
Giuseppe Casti
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