Destinazione paradiso

È nella nostra natura umana credere a qualcosa di indimostrabile perché siamo noi stessi, ontologicamente, degli eventi inspiegabili. La vita è un prodigio, un atto di fede rinnovato. E la storia dell’arte, è la manifestazione di un’unica, infinita, domanda: cosa ci facciamo qui?

In una caverna buia, circa cinquantamila anni fa, degli uomini come noi disegnavano la sagoma di un bisonte sulla parete rocciosa delle caverne. Fuori, probabilmente, il cielo ringhiava tutta la sua inafferrabile ferocia, dei lampi illuminavano a giorno i nostri spauriti antenati, ricordandogli la loro miserabile condizione di umani: gettati nel mondo senza un perché. Davanti a una tale terrifica situazione, con l’aiuto di peli ferini e pesti di pigmenti terrosi incisero le sagome di grandi animali in movimento, come a dire: “Bestia - diversa da me ma a me in certe cose simile - io ho paura di tutto questo, proprio non me lo so spiegare, nessuno riesce a dirmelo, allora da oggi tu sarai per me ciò che ha senso, il più grande, più forte e più importante degli esseri e nella tua natura superiore io crederò”. Circa cinquantamila anni fa in una caverna buia, se non proprio la religione, l’essere umano inventava il “sacro”.
E non c’è da stupirsi se a distanza di tutti questi anni, dopo ere e millenni, siamo ancora qui a disegnare un uomo con i baffi e la barba bianchi che ci sorveglia dall’alto tra le nuvole, a fare pellegrinaggi, a segnarci la fronte e ad inginocchiarci, o semplicemente a chiudere gli occhi ed esprimere un desiderio davanti alla scia di una “stella cadente”. È nella nostra natura umana credere a qualcosa di indimostrabile perché siamo noi stessi, ontologicamente, degli eventi inspiegabili. La vita è un prodigio, un atto di fede rinnovato.
E la storia dell’arte, dalla pittura parietale a Rothko, è la manifestazione di un’unica, infinita, domanda: cosa ci facciamo qui?
 Ma credere in qualcosa non è soltanto la soluzione che noi uomini abbiamo trovato per non cadere nella follia, nel buio pesto e muto dell’universo senza risposte, è anche la necessità di avere fede nelle cose piccole e banali del quotidiano affinché la vita faccia il suo corso. Dobbiamo credere nelle abilità di un pilota che ci permetta di volare su di un siluro di latta, sani e salvi, da una parte all’altra del globo; nell’efficacia che una pillola, la cui formulazione ci è ignota, ci faccia passare un male altrimenti inguaribile; nell’amore di nostra madre che da bambini non ci lasci per sempre in un supermercato; o, semplicemente, dobbiamo credere che allo scattare del rosso tutte le macchine si arrestino per farci attraversare. Crediamo ogni giorno e siamo chiamati a farlo per vivere.  Ma non è sufficiente. Affinché la nostra anima non sia in pena e la nostra condizione terrestre una tortura dobbiamo credere anche ad un futuro, che sia migliore del presente. Dobbiamo avere la possibilità di proiettarci in una condizione per cui tutte le fatiche e le sofferenze dell’uomo - che non ha scelto di stare sulla terra - abbiano un senso, una giustificazione, uno scopo.
I giapponesi lo chiamano ikigai, i buddisti reincarnazione, i cristiani parlano di eterna beatitudine. Tutte finalità che giustificano la vita e danno un significato alla morte. Ma quando lo “scopo ultimo” scompare, a cosa bisogna credere? Se l’aldiqua prende il posto dell’aldilà, se la tecnica sostituisce Dio, se all’esistenza degli uomini viene sottratto il significato del loro stare sulla Terra, perché bisogna vivere?  Il rischio è sprofondare nell’angoscia della nostra insensatezza e di trovare palliativi che ci sollevino da tanta inquietudine. Così, dopo il canto del cigno del Cristianesimo, noi occidentali abbiamo preso in prestito altre spiritualità da popoli lontani e le abbiamo riadattate in una forma  più smart e confortevole. Yoga, meditazione trascendentale, pratiche olistiche, pop-buddismo, sedute sciamaniche fuori città e aperture chakrali popolano ormai da un decennio il nostro immaginario, un menù a cui attingere in casi di spossatezza, stress, crisi coniugali e mal di schiena da scrivania. Se un tempo la spiritualità serviva a preparare i cuori alla morte che verrà, oggi ci si ricorre per sopravvivere alla vita che c’è già.
Anche per i meno spirituali sono previste salvezze prêt- à-porter. Possono, infatti, fare sempre affidamento su altre pratiche e credenze come l’astrologia, il karma, la lettura dei tarocchi, il manifesting per cercare le risposte ai propri dolori o affrontare le piccolezze del quotidiano.  Non credere a qualcosa di irrazionale, di invisibile e non dimostrabile sembra impossibile anche per l’uomo più laico. E lo sappiamo bene noi italiani che abbiamo cosparso di magia, rituali, esoterismi l’intera penisola e ne abbiamo fatto sapienza popolare e cultura. Dal dopoguerra ad oggi, numerosi registi nostrani sono stati influenzati dal magico e dal mistico. Primo fra tutti Fellini che dell'irrazionale non solo ne ha fatto una cifra stilistica nei suoi film, ma l’ha utilizzato come lente attraverso cui osservare il mondo. “Il cinema mi ha risucchiato, ma io volevo fare il mago” confidò al suo assistente alla regia, Filippo Ascione. In Fellini e gli incontri paurosi, articolo raccolto nei Misteri di Italia, Buzzati racconta come il regista riminese abbia condotto un viaggio alla scoperta di medium, curatori, uomini che si credevano animali, per acquisire una visione fantastica e un’aura surreale da trasporre nei suoi film - Giulietta degli spiriti in primis. Ma alla magia poetica si affianca anche il realismo contemplativo di Vittorio de Seta che ha documentato il quotidiano dei pastori, pescatori e contadini in cui i canti, la ritualità, la devozione verso la natura costruiscono un mondo perduto di incanto e di piccoli miracoli.  Ovviamente se si parla di magia e di italianità, non si può non avere a che fare con la superstizione. Ne è un esempio quella rocambolesca di Totò, che la utilizza come strumento di sopravvivenza per scongiurare i mali della vita. Perché superstiziosi lo sono tutti. Lo sono i ricchi, che devono preservare la loro condizione agiata, e lo sono i poveri che devono venerare la dea bendata con la speranza di scongiurare la miseria. I mali e la sfortuna, si sa, non fanno distinzioni di classe. Lo ha capito bene Vanna Marchi, che ha intercettato e messo a valore la necessità degli uomini sofferenti e soli di credere a tutto, persino al nulla. Rituali per il malocchio, numeri fortunati per vincere al Superenalotto, ma è possibile credere ancora a tutto questo? Sì, eccome. Basti pensare come poco più di quarant’anni fa la politica abbia fatto ricorso alla magia, in una delle pagine più nere della nostra Storia. Ricordiamo infatti la rivelazione fatta da Romano Prodi nel 1978, il quale aveva scoperto il luogo preciso dove le Brigate Rosse avrebbero tenuto prigioniero Aldo Moro, più  precisamente a Gradoli, un paesino sul lago di Bolsena. In una seduta spiritica tenutasi fuori Bologna, il futuro presidente del Consiglio aveva invocato gli spiriti per interrogarli sul rapimento di Moro. Nonostante la rivelazione fosse stata presa seriamente dai partecipanti alla seduta e dalle autorità, la polizia purtroppo non trovò nulla a Gradoli. O meglio, si sbagliò. Il covo delle BR nonché l’abitazione del brigatista Mario Moretti, carceriere e inquisitore di Moro, si scoprì essere in via Gradoli, sulla strada che porta a Viterbo. La magia è anche interpretazione.
 
Ma se mettessimo per un attimo da parte le ragioni culturali della storia magica del nostro paese, il business della superstizione, il folclore ancora vivente delle processioni e le fandonie degli astroinfluencer, e ci chiedessimo cosa sia, in verità, la spiritualità, cosa potremmo rispondere? La spiritualità di cui tutti parlano, in effetti, esiste? E se esiste, come si manifesta? Com’è fatto un essere umano “spirituale”? A noi del Bestiario in questi mesi di ricerca, incontri, viaggi e studi intorno a questo argomento, ci è parso di percepire una visione individualistica, egocentrica e narcisistica della spiritualità, oggi. Sembra proprio che essere spirituali non significhi più avere, in effetti, uno spirito nobile, grande, sensibile, ma piuttosto uno spirito “pulito”, performante, autogiustificativo e che trova il suo fine solo nel proprio benessere. Pulire i propri chakra, trovare il proprio centro, stare bene con se stessi sono formule che sentiamo ripetere ogni giorno e che sembrano far parte della stessa ricetta con cui la nostra società impasta noi individui, allenati interiormente a sopportare le necessità e le regole sempre più stringenti della macchina capitalista.
Allo stress del lavoro asfissiante opponiamo i trattamenti ayuverdici, ai ritmi insostenibili delle città lo yoga, all’ingiustizia degli stipendi e alla competizione nei rapporti sociali, la mindfulness.  Toppe esistenziali a buon mercato per sopravvivere senza lamentarsi, e continuare a produrre per il progresso delle nostre evolute società, in cui è lo stesso mercato a creare il problema e ad offrirci i rimedi.  Chissà se invece, paradossalmente, la tanto menzionata spiritualità non si trovasse fuori da noi, nelle pause che ci concediamo da noi stessi, dai nostri obiettivi, dai nostri business plan quotidiani, e non fosse invece una forma di generosità non affettata, guidata da un senso comunitario, per una comunione di essere umani e non di clienti e consumatori.
Ma queste sono solo domande, perché noi del Bestiario non abbiamo risposte. Sappiamo solo che il nostro esercizio spirituale quotidiano è continuare a far vivere questo immenso altare di carta, tempio mobile e scostante dei nostri dubbi, religione senza Dio, senza salvezza per noi e senza pretese di salvare qualcuno.

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editoriale del prossimo numero del Bestiario (https://www.ilbestiariorivista.it/prodotto/destinazione-paradiso/) di Carlotta Maria Correra e Andrej Chinappi

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