A un talk show multietnico sulla tragedia dello tsunami organizzato dalla Bbc e trasmesso anche qua, alla domanda della conduttrice «Cosa si deve fare per restituire il sorriso alle vittime dello tsunami?», un tizio con la barba e il turbante da sikh ha risposto: «Questa gente ha perso tutto, ha perso la sua fiducia in Shiva, in Gesù, in Allah. L'unica cosa che possiamo fare è dare loro pane e burro». Balla colossale. Il nipote di Sandokan venga qua a vedere la gente inginocchiata sul pavimento ancora umido di Nostra Signora di Matara, venga a vedere le candele accese da chi si è salvato e da chi prega per l'anima dei suoi defunti.
del 01 gennaio 2002
«L’hanno visto tutti quelli che si erano riparati nel coro, il primo a riferirmelo è stato un bambino di 9 anni, Dinuka Ashen Heradh, poi la signora Felicitas Fernando, poi altri: la statua della Vergine è scesa dal piedistallo, è scivolata sulle acque ed è uscita dalla chiesa. La gente piangeva, gridava: “non andartene!”. Un mio nipote ha cercato di inseguirla, ma era impedito dalle onde. Poi sono arrivate le altre due ondate, terribili, e ognuno ha cercato di salvarsi come poteva. Ho chiamato la gente nell’edificio vicino, che era resistente e aveva un piano alto. Purtroppo 20 delle 150 persone che partecipavano alla Messa sono morte, fra loro suor Bernadet Koolmayer, proprio mentre stava distribuendo l’Eucarestia ai fedeli. è svenuta alla prima onda ed è morta annegata. Io non ho mai creduto che la Vergine se ne fosse andata per sempre: ho pregato che tornasse, e il terzo giorno è stata ritrovata, quasi intatta, in una proprietà a mezzo chilometro da qui. Il buddhista che l’ha trovata ce l’ha riportata tremando per l’emozione: tutti qui venerano Nostra Signora di Matara. Sono tre volte che il mare, nel corso dei secoli, porta la santa statua sulle nostre spiagge. è un grande miracolo, ne sono certo». Le parole di padre Charles Hewawasam, il giovane parroco di Matara che è stato sorpreso dalle onde dello tsunami mentre diceva Messa nel santuario di Nostra Signora delle Vittorie in riva al mare, all’estremo sud dello Sri Lanka, sembrano echi di un mondo altro, linguaggio incomprensibile di un universo remoto. C’è una distanza incolmabile fra la visione religiosa di quello che è accaduto il 26 dicembre, largamente dominante fra la gente di qui secondo le diverse inflessioni della tradizione di appartenenza (su questa isola hanno una lunga storia tutte e quattro le maggiori appartenenze religiose nel mondo: buddhismo, induismo, islam e cristianesimo, rispettivamente 70, 15, 8 e 7 per cento) e dall’altra parte il discorso razionalista, il solidarismo efficientista della comunità internazionale amplificati dal sistema dei media globali.
I SOPRAVVISSUTI CHE CHIEDONO IL ROSARIO
A un talk show multietnico sulla tragedia dello tsunami organizzato dalla Bbc e trasmesso anche qua, alla domanda della conduttrice «Cosa si deve fare per restituire il sorriso alle vittime dello tsunami?», un tizio con la barba e il turbante da sikh ha risposto: «Questa gente ha perso tutto, ha perso la sua fiducia in Shiva, in Gesù, in Allah. L’unica cosa che possiamo fare è dare loro pane e burro». Balla colossale. Il nipote di Sandokan venga qua a vedere la gente inginocchiata sul pavimento ancora umido di Nostra Signora di Matara, venga a vedere le candele accese da chi si è salvato e da chi prega per l’anima dei suoi defunti. Venga a vedere adulti e bambini nei campi di raccolta che ostentano le loro croci e medagliette al collo, che appiccicano alle pareti delle scuole in cui sono stati ricoverati le immaginette di Shiva, di Visnù o di Ganesh, o il Sacro Cuore di Gesù, che appoggiano sui davanzali le statuette di Buddha. «Spesso la prima cosa che i sopravvissuti tremanti hanno chiesto – dice il Nunzio Apostolico mons. Mario Zenari – è stato un Rosario o un’immagine del Sacro Cuore. Per proteggersi? No, per conforto e consolazione». Davanti a un maremoto senza precedenti che causa in poche ore 35 mila morti (un po’ più della metà di quelli che hanno fatto in Sri Lanka vent’anni di crudele guerra civile fra Ltte tamil e governo della maggioranza singalese), distrugge completamente 88 mila case e ne danneggia gravemente 25 mila, lascia senza un tetto 835 mila persone, la spiegazione non può assolutamente stare in un semplice movimento catastrofico di placche tettoniche, o nella mancanza di un sistema di allerta rapida per gli tsunami nell’Oceano Indiano. «Caro amico – mi dice il gesuita padre Michele Catalano, ottant’anni al servizio dei più poveri fra i poveri, i baraccati dei canali olandesi di Colombo – davanti a questa storia del sistema di allerta il monaco buddhista sorride di compatimento. Lui sa che è solo un palliativo, una soluzione superficiale. La morte viene a causa del karma, cioè delle azioni che gli uomini hanno compiuto nel corso della vita e delle loro vite precedenti. Gli uomini non si attengono al dharma, non fanno ciò che li porterebbe all’illuminazione e infine al nirvana, ma con le loro colpe alimentano il ciclo della sofferenza e del dolore, di cui sono parte anche le catastrofi naturali. Ma per il buddhista non c’è differenza fra naturale e soprannaturale! Tutto è cosmicamente unito».
Intendiamoci: nello Sri Lanka, come in tutto il Terzo mondo, la religiosità degrada facilmente in superstizione e miracolismo fine a se stesso, o si corrompe in strumento di potere politico ed economico. Dall’indipendenza in avanti, i singalesi di Sri Lanka amano presentare il paese come la culla del buddhismo Theravada, il più puro. Ma i monaci di oggi sono in gran parte affaristi spericolati, alcuni di loro si sono buttati in politica con un loro partito (“per riportare la moralità nella politica”, naturalmente) con risultati tragicomici: sono stati malmenati in parlamento per aver votato il candidato dell’opposizione anziché quello governativo. Il popolo buddhista, come pure gli indù tamil e una piccola parte dei cristiani e dei musulmani, è più preoccupato degli yaka, i diavoli che perseguitano gli esseri umani (e si rivolgono ai sattara, gli stregoni, per cacciare il malocchio), che di percorrere la strada che porta all’illuminazione.
Esistono almeno due luoghi sacri dove si può parlare a ragione di sincretismo religioso, in nome del bisogno umano di ottenere grazie divine: il festival indù di Katagarama e la chiesa cattolica di Sant’Antonio a Colombo. Quest’ultima, vista dall’esterno è una normale chiesa portoghese, dentro sembra un tempio indù per il modo in cui i visitatori (molto spesso non cattolici) porgono offerte votive alla statua di sant’Antonio e ad altre immagini. A Matara accade la stessa cosa in maniera più contenuta.
Ma doverosamente premesso questo, non c’è dubbio che qui ci troviamo di fronte a persone che guardano ai fatti grandi e piccoli della vita come a manifestazioni del divino o di una dimensione di moralità cosmica, lontani in ogni caso anni luce dal razionalismo secolarista umanitario che è la spina dorsale della solidarietà made in Onu, Bbc e Vip dei governi mondiali. Ed è facile restare sgomenti.
LA FUCILATA DEL CASTIGO
Alla scuola coranica di Galle, la località maggiormente colpita nel sud (5 mila morti nel distretto, paesaggi da dopo bombardamento), parlo con uno degli insegnanti. Non sono davanti ad un fondamentalista: la scuola ospita 1.200 alluvionati di tutte le etnie e religioni, che espongono tranquillamente i loro simboli (uno dei fatti più incoraggianti nella tragedia è sicuramente che templi, chiese e moschee hanno aperto le porte ai senzacasa senza distinzione di affiliazione religiosa). Mi viene mostrata con orgoglio una famiglia di cristiani tamil, sorridenti nonostante la disgrazia. Qua dentro i musulmani non portano la barba e le donne non hanno il velo davanti al volto. I precetti e i rituali islamici vengono insegnati in inglese. Giustamente la Protezione civile italiana ha donato quattro grandi tende all’associazione musulmana Nabaviyya perché vi sistemino gli sfollati che attualmente occupano le aule della scuola. Ma quando chiedo ad Amfer Kader qual è il suo giudizio di musulmano sulla tragedia, la risposta è una fucilata: «Ho detto a tutti che questa è la punizione di Dio per i loro peccati». Ma è una fucilata anche la risposta di padre Catalano: «No, non è un castigo di Dio. L’avete chiamata onda assassina, ma quell’onda era il grande abbraccio di Dio che porta in Paradiso tutti i suoi figli». O il racconto di un episodio da parte di mons. Zenari, che ha visitato tutto il paese: «A Thalayaddy, nella diocesi di Jaffna, nel nord tamil, la marea ha invaso i locali della parrocchia mentre il viceparroco preparava i canti coi bambini. Lui si è salvato aggrappandosi ai rami di un albero mentre tutto intorno a lui crollava. Dei venti bambini non ne è scampato nemmeno uno: “stavano cantando, e ora cantano in Paradiso”, dice la gente».
Certo, di solito i discorsi non sono questi. Religiosi e missionari preferiscono sottolineare le conseguenze positive della disgrazia, il bene che è venuto e che sta tuttora venendo dal male. Dice Chryso Pieris, il superiore provinciale dei gesuiti: «La reazione della gente è stata splendida. Hanno raccolto cibo, l’hanno cucinato e distribuito alla gente nei campi per sfollati. Hanno raccolto vestiti e medicine per loro. Tutto questo è avvenuto spontaneamente, senza ordini dall’alto, com’era tipico della nostra cultura prima della colonizzazione britannica, che ha introdotto la pesantezza burocratica che lei può notare in tanti aspetti della nostra vita pubblica. E la solidarieta internazionale è davvero commovente. Questa disgrazia ha fatto accendere la luce divina che c’è dentro ad ogni uomo, e questa è la cosa veramente importante». Tutto vero, e si può e si deve aggiungere dell’altro: molti degli scampati devono la loro sopravvivenza al coraggio e alla generosità di vicini e parenti, che hanno rischiato la vita permettere in salvo persone già ferite o in grave difficoltà. Una storia particolarmente toccante arriva dai dintorni di Batticaloa, sulla costa orientale: una famiglia di indù ha messo in salvo i cinque figli su di una pianta, ma alla fine non c’era più posto per loro sull’albero; sono morti travolti dalle acque dopo aver messo in salvo tutti i figli.
RAZZIE, FURTI, STUPRI
Ma non bisogna cadere nella retorica. Oltre alla solidarietà, la disgrazia ha portato a galla il peggio che c’è nell’uomo e ha creato problemi socio-politici di ardua soluzione. La stampa scritta e notiziari radiofonici hanno parlato di furti e violenze nei campi degli sfollati, con una serie di reati che vanno dallo spaccio di droga agli abusi di vario tipo sui bambini. Ho incontrato persone vittima dello tsunami che hanno subito furti e razzie di oggetti di valore nelle loro case o in strutture come locali parrocchiali e uffici.
Particolarmente oscura e inquietante la vicenda del treno fra Colombo e Galle, investito dalle acque nei pressi della cittadina di Malawenna. Le onde hanno fatto deragliare le dieci carrozze e la motrice e le hanno scagliate contro le case intorno, in un raggio di 100 metri dalla linea ferroviaria, le cui rotaie sono state sollevate da terra e incurvate come si vede solo nei cartoni animati. Sulla scena del disastro sono state recuperate 1.200 salme, appartenenti ai viaggiatori e agli abitanti del villaggio. Ebbene, notiziari radiofonici, testimonianze di scampati e almeno un reportage televisivo descrivono uno scenario raccapricciante, con alcuni residenti del villaggio che muoiono per essersi attardati nella razzia del treno prima dell’arrivo della seconda onda, soccorritori che mettono le mani nelle tasche delle vittime (ripresa televisiva), poliziotti che vengono sostituiti dall’esercito perché non impediscono i furti ma anzi vi partecipano, e infine soggetti che abusano sessualmente di donne che si trovavano sul treno. Il governo ha reagito a questo ed altri episodi schierando l’esercito (più affidabile della polizia) a guardia della maggior parte dei 700 campi e centri per gli sfollati.
BEATI GLI SFOLLATI
La solidarietà con le vittime dello tsunami ha già innescato, come conseguenza non intenzionale, conflitti fra poveri: i baraccati di Moratuwa, sud di Colombo, che non sono stati colpiti dalle onde perché abitavano un po’ più in là hanno inscenato una protesta per ricevere lo stesso trattamento dei loro sfortunati vicini, che secondo loro tanto sfortunati non sono stati, perché ora hanno il tetto di una scuola sulla testa e ricevono cibo e assistenza sanitaria gratuita. Il governo li ha accontentati prima concedendo loro di ricevere pasti presso il campo dei rifugiati (ho assistito alla scena, che si svolgeva in un clima di crescente tensione coi soldati sempre più nervosi), poi istituendo un sussidio per loro. Il problema si riproporrà se il governo vorrà dare applicazione al decreto recentemente votato: d’ora in poi sarà vietato costruire a meno di 300 metri dalla costa; solo si potranno ricostruire le case crollate, ma non quelle a meno di 100 metri dalla riva. Se davvero il governo aiuterà seriamente gli sfollati, in gran parte poveri e poverissimi, a costruire le loro case secondo la norma, qualche altro milione di poveri chiederà di essere trattato nella stessa maniera. Nello Sri Lanka la povertà assoluta riguarda il 22 per cento della popolazione, molta della quale vive nelle piantagioni dell’interno.
PERDONO E RICONCILIAZIONE
Effettivamente la spiegazione “ecologica” (ecologia dell’ambiente e dello spirito insieme) che i buddhisti danno della catastrofe dello tsunami ha un certo fascino. Ce la riporta padre Lasantha Abrew, un brillante gesuita di Kandy: «I buddhisti dicono: “Vedete, abbiamo ragione noi. Abbiamo sempre detto che ogni azione produce effetti inevitabili nel corso del tempo, ed è quello che è successo. La speculazione edilizia per l’industria turistica, la prostituzione infantile, l’alcolismo diffuso, la corruzione politica ci hanno portato lo tsunami perché sono azioni cattive e quindi destinate a portare qualcosa di molto cattivo”».
Ma il rigore buddhista non esercita lo stesso fascino su tutti: «Sono nata buddhista, ma ora non ho religione. Non ho un nome o un’immagine a cui rivolgere le mie preghiere, ma prego ovunque posso, nelle chiese e nei templi, per avere quello che il buddhismo non può darmi perché in esso non esiste: il perdono e la riconciliazione». Thushari è nativa dello Sri Lanka, ma è andata a vivere in Austria. è tornata per aiutare le vittime dello tsunami, ma soprattutto per fare pace con la propria famiglia. «Nel buddhismo non ci sono perdono e riconciliazione perché il male fatto è irreversibile. Ma questo inaridisce i rapporti nelle famiglie e nella società. In singalese la parola “riconciliazione” non esiste». Eppure è proprio di riconciliazione – con Dio, con noi stessi e con gli altri – e non solo di benedetta solidarietà, che abbiamo bisogno davanti a un’enormità come quella del 26 dicembre. E allora bisogna arrendersi al miracolo di Matara, così come lo spiega padre Charles: «Quando guardo alla storia dell’uomo, vedo che tutto ciò che di grande esiste c’è perché qualcuno si è sacrificato. Anche nelle famiglie, i figli diventano uomini grazie al sacrificio dei genitori. Dio si è sacrificato per noi, Dio Padre e la Vergine Maria hanno sacrificato il proprio figlio per noi. Allo stesso modo, tutti questi poveri morti sono morti per noi, per il cambiamento del nostro cuore e del mondo. La solidarietà fra i sopravvissuti, la riconciliazione fra tamil e singalesi, fra americani e musulmani, l’unione di tutti i popoli del mondo per portare aiuto, sono i primi frutti di quel sacrificio. Nostra Signora è scesa fra le acque per condividere il sacrificio di chi moriva e il patimento di chi è sopravvissuto, ed è tornata per accompagnare me e tutti nella nostra missione di convertire noi stessi e il mondo». Piangete pure, amici, come se fosse il Venerdì santo: sono tutti morti per la nostra salvezza.
Rodolfo Casadei
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