In Italia i ragazzi che abbandonano la scuola sono diciassette su cento: una percentuale fra le più alte d'Europa. Si considerano già persi: sono i primi a ritenersi dei falliti. A sedici anni!
In Italia i ragazzi che abbandonano la scuola sono diciassette su cento: una percentuale fra le più alte d’Europa. Giovedì mattina, alla Camera dei deputati, in occasione della presentazione dell’indagine conoscitiva parlamentare sulle strategie per contrastare questa dispersione, mi tornavano in mente gli studenti più riottosi e difficili. Gli indisciplinati. I ribelli. Le ultime ruote del carro. Insomma i miei preferiti.
Cosa direbbe Valerio, vagheggiavo, che entra sempre alla seconda ora pur consapevole di aver superato il limite dei tre ritardi mensili, se venisse a sapere che tanti esperti si stanno occupando di lui? Cosa penserebbe Kamal, che invece di ascoltare il professore tiene la testa dentro il cappuccio alzando lo sguardo verso la cattedra solo alle dieci, dei nuovi grandi progetti di recupero in suo favore? E Michelino, che ruba le confezioni di Cipster e le lattine di Coca-Cola inclinando la macchinetta automatica in corridoio senza mettere i soldi? E Stefano, che disegna il teschio sulla parete, firmato 666, il numero del diavolo?
Forse se la caverebbero con una pernacchia. Loro si considerano già persi: sono i primi a ritenersi dei falliti.
A sedici anni! Questo non possiamo accettarlo. Chi? Noi tutti. Docenti, politici, famiglie, semplici cittadini, padri e madri. Nel nostro Paese stiamo vivendo una crisi etica assai più grave di quella economica, perché prima o poi lo spread si abbasserà, i bilanci verranno ripianati, ma lo sconforto, il disincanto, la rabbia che decifriamo nel volto di Romoletto resteranno domande inevase, interrogativi irrisolti, ferite sanguinanti. Tuttavia, se non ricordo male, proprio lui, mentre gli leggevo un verso di Ungaretti, mi chiese: «Professore, dov’è sepolto questo poeta?». Quella domanda cadde dal cielo: meravigliosa nella sua verità lancinante. «Al cimitero del Verano!» gli risposi. «E perché non ci andiamo?» esclamò. Detto fatto. Il giorno dopo ci ritrovammo con tutta la classe a fotografarci davanti al loculo rompendo così la "finzione pedagogica" (far finta di insegnare, far finta di ascoltare) e scoprendo, allo stesso tempo, lo statuto della letteratura. È stato Romoletto a farmi capire che non dovremmo mai abbassare la guardia. Guai se lo facessimo: in quel caso saremmo noi adulti a disertare la scena abbandonando a se stessa la medesima generazione di cui invece dovremmo prenderci cura.
Giovedì, a Montecitorio, nella sala prestigiosa e un po’ esclusiva del Mappamondo, nel cuore pulsante della democrazia italiana, è risuonato più volte il nome di don Lorenzo Milani. Il quale però morì nel 1967: sono trascorsi quasi cinquant’anni da quel giorno, eppure i problemi che lui aveva sollevato, nonostante tutti i discorsi, malgrado le sperimentazioni e i reiterati tentativi di rinnovamento, sembrano essere rimasti gli stessi.
Troppi bocciati, cara professoressa. In più il mondo è cambiato: un quindicenne di oggi ragiona con una testa assai diversa da quella di un suo coetaneo di venti anni fa. È questo il motivo per cui ieri, a quell’incontro, ho raccontato la storia di Giulio. Il ripetente assoluto. Bocciato in primo liceo scientifico. Poi all’istituto tecnico. Si presentò davanti a me, al professionale per l’industria e l’artigianato, come se fosse l’ultima spiaggia.
Avesse fallito anche lì, sarebbe andato a ingrossare le fila degli sconfitti: centoquindicimila, fra i 14 e i 17 anni, che ogni anno lasciano la scuola. Giulio scriveva bene. Aveva una sensibilità sintattica superiore alla norma. Perché sui banchi questa sua dote nativa non funzionava? Un giorno lo presi da parte, gli chiesi di venire a insegnare, insieme a me, la lingua italiana ai ragazzi stranieri. Quando? Di pomeriggio. Dove? Nella chiesa di San Saba, a Roma, sull’Aventino. Avrò un voto più alto? No. Un credito scolastico? Nemmeno. Mi squadrò come se fossi un pazzo.
Ma il giorno dopo mi disse che aveva deciso di provare. Così fece per un anno intero. Era la stessa persona che stava per ritirarsi anche dal professionale? Sì. Lo scolaro che entrava fumando in classe? Proprio lui. Quello che non aveva voglia nemmeno di aprire il quaderno? Esatto. È stato Giulio a convincermi che avrei dovuto scrivere un elogio del ripetente. Ma perché aveva accettato? Una risposta me la sono data. Ed è questa: forse per la prima volta un insegnante lo aveva guardato davvero negli occhi.
Eraldo Affinati
Versione app: 3.25.0 (f932362)