Visto nel suo contesto familiare contadino, Giovannino Bosco, da fanciullo e ragazzo era già un po' originale perché mostrava assieme alla voglia di studiare, l'attitudine di far spettacolo, cioè di esibirsi in pubblico. Sono doti di scaltrezza, destrezza, agilità, intuizione, ecc...
del 01 gennaio 2002
Premessa
La ricerca vuole essere un omaggio al mio “maestro” don Marco Bongioanni, grande intenditore di teatro. Lo stile narrativo sarà per aforismi e per episodi che permettono un commento orale più esteso del foglio scritto. Quest’ultimo apparirà come un notes di appunti (e virgole): pazienza!
1. Don Bosco aveva una straordinaria capacità di polarizzare l’attenzione su di sé e di mediarla verso Dio.
Visto nel suo contesto familiare contadino, Giovannino Bosco, da fanciullo e ragazzo era già un po’ originale perché mostrava assieme alla voglia di studiare, l’attitudine di far spettacolo, cioè di esibirsi in pubblico. Sono doti di scaltrezza, destrezza, agilità, intuizione, ecc. “Io ero peritissimo ad uccellare con la trappola, colla gabbia, col vischio, con i lacci, praticissimo delle nidiate. Fatta raccolta sufficiente di questi oggetti, io sapevo venderli assai bene. I funghi, l’erba tintoria, il treppio erano anche per me una sorgente di denaro”. Si ricorda infatti di lui i giochi di prestigio e il camminare sulla corda (è Patrono dei circensi), ma anche le letture serali sul fienile o nelle stalle che incantavano grandi e piccini (MB. Vol. 1 pag.28). “ Io facevo i giochi dei bussolotti, il salto mortale, la rondinella, camminavo sulle mani come un saltimbanco di professione”. Queste sue doti però lo mettevano in contrasto con il comune senso del lavoro, della fatica, con la vita dura di allora, perché apparivano dis-traenti, fuorvianti, inutili. In questo senso si capisce meglio per esempio il dissenso di suo fratello Antonio (“L’hai finita di fare il ciarlatano?”).
Già da piccolo quindi aveva una creatività originale (giocosa e imprenditrice) che lo faceva divergere dalla vita comune degli altri bambini.
Più tardi, quando sarà giovane studente-lavoratore a Chieri, arriverà anche a sfidare un artista di strada, battendolo nella corsa, nel salto e nell’arrampicata libera (sugli alberi). E anche in quella occasione c’è il pubblico che assiste, partecipa, tifa per lui: è il centro della festa. Fonda la “Società dell’allegria” di cui è il leader carismatico. Oltre al soprannome di “sognatore” avrà anche quello di “mago” che gli procurerà però qualche fastidio, perché i giochi di prestigio li faceva nella vita ordinaria e con le persone che aveva attorno.
E’ chiaro che aveva una personalità da artista, che non si vergognava, ma si trovava a suo agio quando era al centro dell’attenzione. Però non perdeva di vista la finalità, le intenzioni: far del bene, distogliere dal male, portare a Dio.
Non bisogna comunque esagerare, perché è difficile capire nella giovinezza di Giovanni fin dove arrivava la compiacenza di sé, la sua indole e dove l’amore a Dio.
C’è un episodio “negativo” che ci aiuta a capire meglio questo passaggio: quello del violino. Ce lo racconta lui stesso per mettere in guardia sui pericoli delle vacanze. Era chierico e fu invitato ad una festa paesana e insistettero perché suonasse il violino imprestato da un invitato. Mentre suona canzoni popolari nel cortile la gente inizia a ballare. Giovanni Bosco si avvilisce, perché pensa di essere la causa di un divertimento mondano. Va a casa sua e rompe il violino in mille pezzi. Non lo toccherà più anche se insegnerà ancora ad altri a suonarlo.(MB. vol I, pag. 419 e seg.)
Ecco allora i suoi propositi: “1° nell’avvenire non prenderò più parte ai pubblici spettacoli sulle fiere, sui mercati: né andrò a vedere balli e teatri:.. 2° Non farò mai più il gioco dei bussolotti, di prestigiatore, di saltimbanco, di destrezza, di corda: non suonerò più il violino, non andrò più alla caccia…” (MB vol I, pag. 372) Le sentiva contrarie allo spirito ecclesiastico, cioè non adatte ad uno che diventava sacerdote. Non c’è dubbio che l’entrata in seminario abbia determinato in lui l’addio alle scene!
Ma questo non significa la rinuncia all’artista che è in lui, piuttosto al maggior legame tra teatro-vita. Fare della propria vita un capolavoro. Per tutta la sua vita continuò ad essere “spettacolare” rispecchiando il cielo senza rinunciare alla terra.
2.Vi voglio vedere felici nel tempo e nell’eternità
Quando divenne prete e iniziò a Torino la sua vita pastorale, scelse una collocazione poco tradizionale: non parroco in una delle tante parrocchie, non precettore e maestro nella casa dei nobili (anche se passò un periodo con la Marchesa Barolo e le sue orfanelle), neppure insegnante al Convitto ecclesiastico, come lo aveva invitato don Cafasso. Diciamo che fu estroso anche in quelle circostanze. Si mise in una avventura con i ragazzi di strada che lo portò lontano. Nei primi tempi dell’Oratorio don Bosco fu sommerso dai giochi giovanili spontanei, non ebbe bisogno di ideare né di proporre novità: gli bastò liberare la creatività dei ragazzi (come quando lui era piccolo). Oratorio ambulante sui prati. Ogni trasloco diventava motivo di divertimento “Inginocchiatoi, candelieri, sedie, croci, quadri: ciascuno portava quello che poteva a mo’ di trasmigrazione popolare fra gli schiamazzi e il riso…”.
Molto teatrale è la descrizione della sceneggiata tragi-comica della fantesca e del cappellano di San Pietro in Vincoli. Dopo aver riportato il discorso diretto della donna arrabbiata, Don Bosco continua divertito: “inveiva anche una ragazza, abbaiava il cane, miagolava il gatto e canterellavano le galline; avresti detto imminente una guerra europea”. (MB II 287-288). Ironica e frutto di una rivisitazione narrativa posteriore assieme poi all’apologo dei “cavoli” degno delle battute della maschera piemontese Gianduia.
Memorabile e difficile da capire ora per noi fu la giornata di svago proposta per i giovani carcerati della Generala. A proposito: il colloquio con il Ministro degli interni Rattazzi è esattamente il canovaccio tante volte replicato a Valdocco dai ragazzi per celebrare il compleanno di Don Bosco.
Siamo alla comicità della vita, alla sceneggiata, al farsi rincorrere dalle cosche fino in chiesa e improvvisare un dialogo con il teologo Borel: spettatori i ragazzi stessi, quelli che facevano catechismo e i piccoli delinquenti sopravvenuti.
Dopo il famoso ’48 c’era fervore patriottico e Don Bosco all’oratoriano Giuseppe Brosio, ex bersagliere, permette di fondare una brigata ottenendo dal Governo 200 fucili senza canna per le esercitazioni che diventavano spettacoli applauditissimi dalla gente: una specie di “scoutismo”.
Ci sono le drammatizzazioni pubbliche, quelle nella liturgia in chiesa, quelle musicali, quelle delle passeggiate autunnali (banda musicale in testa, scenografi e attori, chierichetti, organizzatori. Entrata a piedi in paese, allestimento dello spettacolo in piazza, cena e riposo sui fienili dei cascinali. Al mattino santa messa in chiesa e poi partenza per il prossimo paese). Quello che furono i fioretti di San Francesco, per Don Bosco sono le passeggiate con i suoi giovani per il Monferrato.
“Si dia ampia facoltà di saltare, correre schiamazzare a piacimento. La ginnastica, la musica, la declamazione, il teatrino, le passeggiate sono mezzi efficacissimi per ottenere disciplina, giovare alla moralità e alla santità”. Esperienze di una portata rivoluzionaria permanente in campo educativo.
Allegria e santità è un binomio che Don Bosco consegna ai giovani, perché la vera felicità sta nell’essere in amicizia con Dio e in pace con la propria coscienza. Chi è in grazia di Dio si diverte di più, perché ha la vera gioia, sperimenta la vera libertà, la vera pace. Per don Bosco allegria e santità hanno la stessa radice: Dio. (Filip. 4,4)
3. Noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri
Per don Bosco non è possibile che un giovane autenticamente allegro non esprima anche la sua bontà spirituale (grazia). Sappiamo bene il contesto in cui la frase è riferita da Domenico Savio ad un suo compagno seduto in disparte, preso dalla tristezza dei suoi problemi. Era una terapia, una medicina spirituale.
La “Buona notte” di Don Bosco aveva questo scopo ed era fatta soprattutto di racconti, di sogni anche a puntate che avevano un diretto messaggio morale.
La lettera famosa da Roma dell’84 è praticamente una tipica buona notte: un capolavoro di pedagogia narrativa! In equilibrio tra lettera, racconto, sogno e trattato. Vedeva cioè che si stava affievolendo lo spirito iniziale, la grazia degli inizi. C’era il pericolo di dividere l’allegria dalla santità. Lo dice in termini di “animazione” del cortile, ma è chiaro che per lui cortile, casa, scuola e chiesa sono un tutt’uno.
Le biografie scritte da Don Bosco dei tre giovani, morti a 15-16 anni, Domenico, Michele e Francesco, descrivono benissimo questo itinerario di santità e allegria. Sono tre giovani molto diversi: una buona stoffa, un teppista, un montanaro eppure hanno realizzato il disegno di Dio su di loro (= santità).
Dalla creatività di don Bosco sono usciti dei commediografi come il bonario don Francesia, un drammaturgo come lo stesso biografo Lemoyne, il cabarettista Giuseppe Bozzetti, coadiutore, i comici come Tomatis, Gaslini, Reviglio, Bellìa e anche dei musici compositori come Cagliero, senza contare grandi scrittori per ragazzi.
La sua fu una “scuola” di artisti nel senso che sapeva liberare e valorizzare le capacità di ciascun ragazzo in tutte le sue potenzialità espressive compresa la religiosità, la spiritualità. Sapeva coltivare l’aspetto umano senza dividerlo da quello divino che è in ciascun figlio di Dio, anzi una cosa aiutava l’altra. Sapeva liberare la “parola” originale che è ciascun ragazzo fino a diventare “azione” (scenica) prassi, creazione.
All’epoca di Don Bosco solo la stampa era il mass-media moderno, non c’era il cinema, la televisone, internet: fondò una editrice (LDC), scrisse libri e riviste popolari e fece studiare i suoi salesiani. Adoperò il suo talento artistico nella comunicazione globale, dal rapporto personale a quello ambientale, dalla scuola al canto di chiesa, tutto tendeva al bello che è lo splendore del vero e del bene. Ma non fondò nessuna compagnia teatrale, non teorizzò nulla, non scelse nessuna corrente culturale in voga. Non fece mai l’artista come professione, pur avendo le doti, ma fu solo volutamente “dilettante”, cioè colui che amava (dal latino ‘diligo’) preferiva mettere Dio al primo posto e Dio lo usò come suo attore (ad hos = portavoce)!
Il suo sorriso appoggiava sul dolore accettato per amore, la sua allegria è la metabolizzazione dell’amaro quotidiano della vita. E insegnò ai suoi salesiani di trasformare sempre il dolore in amore, le difficoltà in trampolini di lancio, i limiti in fantasia… in pratica la santità! La vera festa ha sempre una radice nelle disavventure!
E’ il nucleo del mistero pasquale: dolore-amore. Le radici sono tutte in Gesù crocifisso, i frutti sono tutti in Gesù risorto.
In questo senso il teatro di don Bosco era pedagogia di santità.
don Paolo Baldisserotto
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