Don Bosco e la "voglia di famiglia"

Don Bosco aveva perso il padre da piccolo; in casa aveva avuto contrasti per la ostilità del fratellastro Antonio, aveva patito la fame e il freddo; eppure riconosceva che i grandi valori li aveva attinti da lì: la sapienza contadina, la sana furbizia, il senso del lavoro, la essenzialità delle cose, la industriosità nel darsi da fare, l’ottimismo a tutta prova, la resistenza nei momenti di sfortuna, la capacità di ripresa dopo le batoste, la allegria sempre e comunque, lo spirito di solidarietà, la fede viva, la verità e la intensità degli affetti, il gusto per la accoglienza e la ospitalità; tutti beni che aveva trovato in famiglia e che lo avevano costruito in quel modo, così da essere quel don Bosco che tutti ammiravano e tutti cercavano

Don Bosco e la “voglia di famiglia”

di don Giannantonio Bonato

 

Siamo quasi alla fine della vita; don Bosco è sfinito dalle fatiche e si trova a Roma per inaugurare la grande chiesa del S. Cuore presso la stazione Termini cui è annesso un orfanotrofio per i ragazzi di quel borgo (allora era una borgata della gente più povera che ci fosse a Roma).

Si fa un pranzo con le autorità e sono presenti personaggi che vengono un po’’ da tutto il mondo; tutti hanno contribuito a costruire quella chiesa e quell’orfanotrofio. Al brindisi sono parecchie le persone che prendono la parola; ovviamente ciascuno nella sua lingua di origine. Qualcuno chiede a don Bosco quale sia la lingua che ama e di più; e lui: “La lingua che più mi piace è quella che mi insegnò mia madre: perché mi costò poca fatica l’impararla e perché con essa provo maggiore facilità a esprimere le mie idee. E poi non la dimentico tanto facilmente come le altre lingue”.

 

Ecco un altro segreto per crescere e maturare: non dimenticare la lingua della propria madre; il che significa non strappare le radici dalle quali provieni; anzi, coltivarle quelle radici perché è da lì che può continuare a passare la vita.

 

Don Bosco aveva perso il padre da piccolo; in casa aveva avuto contrasti per la ostilità del fratellastro Antonio, aveva patito la fame e il freddo; eppure riconosceva che i grandi valori li aveva attinti da lì: la sapienza contadina, la sana furbizia, il senso del lavoro, la essenzialità delle cose, la industriosità nel darsi da fare, l’ottimismo a tutta prova, la resistenza nei momenti di sfortuna, la capacità di ripresa dopo le batoste, la allegria sempre e comunque, lo spirito di solidarietà, la fede viva, la verità e la intensità degli affetti, il gusto per la accoglienza e la ospitalità; tutti beni che aveva trovato in famiglia e che lo avevano costruito in quel modo, così da essere quel don Bosco che tutti ammiravano e tutti cercavano.

 

Fu talmente segnato da questa esperienza che, quando pensò ad una istituzione educativa per i suoi ragazzi non volle altro nome che quello di ‘casa’ e definì lo spirito che avrebbe dovuto improntarla con la definizione di ‘spirito di famiglia’.
E per dare l’impronta giusta alla cosa, aveva chiesto a Mamma Margherita, ormai anziana e stanca, di lasciare la tranquillità della sua casetta in collina per scendere in città e prendersi cura di quei ragazzi raccolti dalla strada, quelli che le daranno non poche preoccupazioni e dispiaceri. Ma lei andò ad aiutare don Bosco e a fare da mamma a chi non aveva più famiglia ed affetti. Altre mamme si aggiungeranno a lei mano a mano che i giovani cresceranno. Così piaceva a don Bosco: una casa sia pure anomala perché grande, una famiglia aperta perché disposta ad accogliere tutti; ma il clima doveva essere quello, fatto di spontaneità, sincerità, amicizia, aiuto reciproco, condivisione delle responsabilità, relazioni intense.
Non si matura quando si dimentica la lingua della propria madre, quando cioè ci si butta dietro le spalle tutto ciò che la famiglia ha dato e continua a dare.
C’è un momento della crescita in cui il ragazzo si rende autonomo rispetto alla famiglia; meglio, rispetto al modo con cui, da piccolo, viveva la famiglia.

 

E’ un momento delicato perché rischia di fare uno strappo che rompe tutto, nega tutto, distrugge tutto.
Non è saggio buttare via il bambino assieme all’acqua sporca del bagnetto!
La conquista della autonomia dalla famiglia è un processo naturale; ma come avviene? Con la pretesa ingenua di ripartire da zero, di inventarmi da nuovo, di costruirmi dal niente?
Ecco allora che critico tutto, sono insofferente per tutto, aggredisco i genitori, brontolo per niente, sono sempre insoddisfatto, recito il ruolo dell’emancipato, contraddico per il gusto di contraddire, insceno battaglie stupide quanto inutili, alcune volte ci trovo gusto a far soffrire chi, in fondo, non mi vuole che bene.
Dialogo, incontro, scontro sulle idee, sugli stili di vita, sulle abitudini, sulle mentalità, sono cose necessarie.
Ma attento: non buttare via quello che di valido, di vitale, di sostanzioso la famiglia ti ha dato e continua a darti.

 

Se vuoi imparare altre lingue, devi partire dalla lingua che ti hanno insegnato; se perdi quella non impari più niente.
E non avere paura, qualche volta, ad essere riconoscente!
Don Bosco teneva tantissimo a questo atteggiamento e lo manifestava con tutti e in tutte le occasioni; poteva farlo con espressioni piccole e povere; ma lo faceva sempre e con gusto. Perché essere riconoscenti significa moltiplicare la vita celebrando l’amore: un amore riconosciuto è un amore potenziato.
Quali sono i tuoi rapporti con la famiglia? Sei consapevole di attingere tanti beni che sono vitali o hai già rinnegato tutto questo? E’ un patrimonio che ti limiti a dilapidare o che contribuisci a costruire? Sai essere riconoscente in forma intelligente e simpatica? Crei attorno a te uno ‘spirito di famiglia’?
 

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