Celebrare Don Bosco significa per noi accogliere la Grazia dell'amore educativo. “L'espressione felice: ‚ÄòBasta che siate giovani perché io vi ami assai” fu la parola, e, prima ancora, l'opzione educativa fondamentale del Santo”.Ho proposto, da educatore, una riflessione agli educatori. Condividerla coi nostri compagni di viaggio; completarla, con diretto riferimento ai giovani con cui operiamo, tradurla in itinerari concreti e graduali è un ulteriore suggerimento che Don Bosco ci dà.
del 31 gennaio 2005
     EDUCARE È SPERARE
 
Che sia diventato più difficile educare, che ci sentiamo tutti più impari al compito è parola ed esperienza comune. La fragilità e la sconnessione delle agenzie educative, il ritmo vorticoso dei cambiamenti culturali, il pluralismo contraddittorio, la diffidenza verso l’adulto e la vacuità di troppi modelli indotti dai media, hanno reso la situazione più delicata e dato fiato all’invocazione che chiede più educazione e più strumenti educativi.
A questo, s’è aggiunta negli ultimi decenni una crescente marginalità sociale delle generazioni più giovani, legata anche a fenomeni demografici (si è calcolato che i diciannovenni – che erano un milione nel 1985 – saranno, nel 2005, non più di 560.000). Anche da un punto di vista elettorale, i pensionati sono più corteggiati dei giovani, ai quali gli stadi, la discoteca, o il branco (nel peggiore dei casi)  non sono certo sufficienti per sentirsi vivi e civilmente significativi.
Per questo, “forse mai come oggi – ricorda Giovanni Paolo II – educare è diventato un imperativo vitale e sociale insieme”. E “mai come oggi, il mondo ha bisogno di individui, di famiglie e di comunità che facciano dell’educazione la propria ragion d’essere e ad essa si dedichino come a finalità prioritaria, alla quale donano senza riserva le loro energie, ricercando collaborazione e aiuto”[1]. É vivo il bisogno di punti di riferimento, si guarda a nuove esperienze educative, si ricercano segni di speranza. Se Don Bosco è guardato con simpatia dal popolo italiano, fino a diventare uno dei santi che sente più “suoi”, è soprattutto perché viene colto come un uomo di speranza. Il che è un sicuro lasciapassare, in un mondo come il nostro, tentato, se non proprio dalla disperazione, quanto meno dallo scoraggiamento o da atteggiamenti dimissionari nei confronti dei propri ruoli educativi.
La speranza vera, nota G.Marcel, ha sempre un accento profetico e si pone come una “memoria del futuro”[2] Se ottimismo e pessimismo sono solidamente radicati nell’”Io”, la speranza trae le sue radici dal “Tu”. Nel quale ci sono i giovani, e i loro educatori, e, soprattutto, Dio, che è capace di fare nuove tutte le cose, ben al di là dei nostri calcoli e delle nostre attese.  “Io spero in te, per noi”: così G.Marcel enuncia la speranza. E sembra quasi definire la fiducia con cui – ricalcando la speranza umana e teologale di Don Bosco - guardiamo ad ogni singolo giovane ed alla sua educazione, come ad un dono di Grazia, per la salvezza del mondo.
Mettiamo in comune alcuni “sentieri di speranza educativa”, sui quali incamminarci con fiducia. Li individuiamo con uno sguardo “sinottico” dato ai giovani ed a Don Bosco. Li indichiamo per un approfondimento, in dialogo coi giovani e con gli educatori.
 
 
1. AMARE “A MISURA DI RAGAZZO”
 
Quando parlava di “amore  educativo”, Don Bosco usava per lo più il termine “amorevolezza”, che costituisce il “supremo principio”[3] del suo metodo educativo.
Era per Don Bosco un assioma spesso ripetuto e pazientemente insegnato: “Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati”[4]. Egli sapeva che, spesso, l’amore è grande e generoso nel cuore degli educatori, ma aveva sperimentato anche che questo non basta ad ottenere i frutti sperati. E ne aveva la riconferma ogni giorno. Occorreva non solo che ci fosse amore reale, non solo che venisse anche espresso, ma che fosse espresso in un linguaggio che il giovane può intendere. Per essere vero “amore educativo”, è dunque necessario che esso apprenda l’arte, creativa e paziente, di vestirsi di “segni intelligibili”. Per dirla in forma più incisiva: è il ragazzo che “detta” – se così si può dire – il linguaggio dell’amore. Non perché l’educatore obbedisca ai capricci dell’educando, ma perché l’educando diventi capace di comprendere che, anche le cose “difficili” che gli vengon richieste, sono guidate dall’amore.
Uno dei modi con cui gli educatori possono esprimere questo amore leggibile, anche in famiglia, è “che amino ciò che piace ai giovani”, che planino – almeno qualche tempo ogni giorno – dentro il loro piccolo pianeta, “perdendo tempo” con loro e per loro, tornando ragazzi e piccoli coi piccoli, prendendo più sul serio le cose che, per loro, son serie. Se l’”atterraggio” è felice, non sarà poi impossibile chiedere ai giovani di levare lo sguardo verso il Cielo, sospingendolo fino a Dio. Insomma “Don Bosco ha intuito che prima che il fanciullo dica di sì a Dio è necessario che l’educatore dica di sì alla fanciullezza”[5].
L’amore educativo, in ambiente di scuola, sa trasformarsi, , in “amore didattico, quando riesce ad esprimere “particolare sollecitudine per gli allievi più fragili, accompagnati con “carità affettuosa” da  un docente, che conosce “il rannicchiarsi, il farsi piccino coi piccoli”, che accetta “il costringimento alla chiarezza, alla semplificazione, all’oggettività, allo sminuzzamento”, “per far imparare a tutti quel che si è ben preparato”[6]
Si tratta dello stessa finezza d’amore, che illumina la relazione fra gli sposi, quando si cerca di far felice l’altro, intuendone i giusti sentieri, ed ottenendo il risultato d’essere felici in due.
 
 
2. EDUCARE A MISURA DI ADULTO
 
In questi ultimi decenni, con riferimento ai giovani, si è scritto di “orfani di genitori viventi”, di “generazione senza padri”, ecc. per sottolineare l’emergere vistoso di un problema educativo: l’abdicazione dell’adulto ai ruoli educativi che gli competono. Quando non si verifichi addirittura il “rovesciamento” delle posizioni, con adulti che rivaleggiano con gli adolescenti, imitandoli nel vestiario, nel linguaggio, o addirittura nello stile di vita. In questo senso si è indicata l’adolescenza come la stagione più “invidiata” della vita (da parte degli adulti, naturalmente!).
Oggi, si torna a parlare, a questo proposito, di “asimmetria educativa”, per sottolineare che il rapporto fra educatore ed educando non è un rapporto fra pari, ma fra diversi, fra un adulto ed un giovane, cui spettano diversi compiti educativi. La “simmetria educativa”, al contrario, si creerebbe in presenza di adulti, che, rinunciando normalmente al loro ruolo adulto, assumessero atteggiamenti complici e permissivi, tendenzialmente deresponsabilizzanti.
Don Bosco ama parlare degli educatori come di “padri fratelli ed amici” dei loro figli ed allievi, suggerendo un ritmo d’incontro a due tempi. Il primo tempo è quello dell’”amico-fratello”, che si incontra “alla pari”, e genera “familiarità” e la gioia di sentirsi vicini ed amati. Il secondo tempo è quello della “paternità”, che suggerisce confidenza ed apre la strada all’ educazione. Il primo tempo definisce una relazione simmetrica, il secondo tempo una relazione asimmetrica. Se si cancella il primo tempo, si cade nel rischio dell’autoritarismo educativo; se si elimina il secondo, il rischio è quello di cadere nel qualunquismo e nel fallimento educativo.
Don Bosco diceva ai suoi ragazzi “Chiamatemi sempre Padre, ed io sarò felice”[7].  Ripensando all’antico oratorio, il suo interlocutore apre la porta ai ricordi: “Si ricorda di quei begli anni? Era un tripudio di Paradiso, un’epoca che ricordiam sempre con amore, l’amore era quello che ci serviva di regola e noi per lei non avevamo segreti”. L’amore educativo non bandisce la regola, ma la chiama. Non crea deresponsabilizzazione, ma confidenza. Non fa dell’adulto un complice omertoso, ma un collaboratore. E diviene il punto di partenza di un processo, che è tutto in positivo: la familiarità tiene vivo l’ amore, l’amore crea confidenza, la confidenza genera trasparenza, la trasparenza fonda ed accompagna il cammino educativo.
L’adulto descritto da Don Bosco è proprio l’opposto del dimissionario:”Sia tutto a tutti, pronto ad ascoltare sempre ogni dubbio o lamentanza dei giovani, tutto occhi per sorvegliare paternamente la loro condotta, tutto cuore per cercare il bene spirituale e temporale di coloro che la Provvidenza gli ha affidati”. Qui l’adulto è pienamente coinvolto, capace di ascolto e di parola, interiormente mobilitato a ricercare ed a far conoscere “il bene”.
Ma c’è un educatore adulto, che, come Don Bosco, ha una marcia educativa in più. E’ il prete. Giovanni Paolo II – da grande amico dei giovani, quale egli è – lo invita a non disertare questa frontiera: “La mente e il cuore di Don Bosco possono suggerire anche ai sacerdoti le forme adatte da seguire. La gravità della posta in giuoco esige un’accresciuta presa di coscienza, sulla quale saremo giudicati dal Signore. I giovani tornino ad essere la cura principale dei sacerdoti. Ne va di mezzo l’avvenire della Chiesa e della società”[8]
 
 
3. DARE RAGIONE ALL’EMOZIONE
 
Gustata dai giovani, ricercata dagli anziani, enfatizzata dai media, oggi l’emozione è protagonista. “Provare emozioni” è, per molti, il top delle attese. “Liberare le emozioni” è un’assioma importante della psicodinamica. Ma, non mancano i pericoli, se il Prof. Giuseppe De Rita, reduce dal recente convegno romano sulla comunicazione, definiva i giovani (o meglio un gruppo fra loro) “prigionieri delle proprie emozioni, prigionieri del presente”[9]            Ci sono emozioni “energetiche”, che sprigionano energia, positiva o negativa, dentro o fuori di noi (come l’ira, o l’istintivo impulso che muove a solidarietà) ed emozioni “scariche” (come la noia e l’abulia). La sfida è fra il “gestire le emozioni”, e il “lasciarsi gestire” da loro. C’è anche il rischio di accumulare nei meandri della personalità un magma informe e pericoloso di emozioni, spesso inconsce, rimosse, bloccate, o, comunque irrisolte.
Don Bosco enunciava il principio “ragione”, come irrinunciabile orizzonte della pedagogia. Esso, nei confronti del mondo emozionale dell’adolescente, è coefficiente che aiuta a trasformare l’emozione, integrandola col pensiero, progettuale e critico, e provocandola a fare i conti col “principio realtà” e con la concretezza della vita. E’ compito della ragione – stimolata dalla sagace presenza dell’educatore - valutare di “quale emozione” si tratta. Mentre l’adulto dispone di una certa scala di valori, magari minima, faticosamente costruita nel corso della vita, nella quale l’emozione si inquadra, il giovane, al contrario, può trovarsi più “disarmato”, a rischio di lasciarsi portare dall’onda di emozioni buone o indifferenti, ma anche di essere travolto nel gorgo di emozioni distruttive. La nostra esperienza di vita (e, talora, anche l’amara cronaca giudiziaria) ci mostra il rischio che dell’emozione si faccia tutta la realtà, una realtà tutta popolata di illusioni e di fantasmi, da cui la vita vera resta intrappolata e tradita.
Il principio “amorevolezza” invita a riconoscere un secondo elemento di equilibrio emozionale: quello della relazione personale, individualizzata, che se, per un verso è stata definita la “password” essenziale per entrare nel mondo dell’adolescente, per un altro verso è, per quest’ultimo, il ponte più normale ed essenziale per agganciare la realtà. Piace agli adolescenti incontrare adulti “alla pari”, attraverso relazioni orizzontali (che non escludono però la verticalità dell’asimmetria educativa, ricordata sopra). Piace ad essi incontrare adulti, che sentono vicini, come gli “animatori” dei loro giuochi e dei loro campiscuola, ai quali riservano una viva simpatia ed un’accoglienza cordiale. Dentro una relazione positiva, anche temi ostici e “tabù” possono essere affrontati, con speranza di successo.
Don Bosco educava anche in termini di “temperanza”, intesa come vigilanza interiore, tesa a raggiungere l’equilibrio, attraverso una vita sobria e misurata, che non esclude la mortificazione. E’compito di questa virtù consentire a tutti, ma specialmente agli educatori, quell’uguaglianza di umore, quell’autocontrollo sereno di ogni inclinazione possessiva o morbosa, che accompagnano relazioni oblative e mature. 
Quando l’emozione entra in dialogo con la ragione, quando essa insorge in un giovane non ignaro di autodisciplina e di apertura alle relazioni, allora la vita è strappata alla frammentazione ed alla dispersione, e può maturare in progettualità e fedeltà vocazionale, che sono indici della persona adulta.
 
 
4. EROGARE “ENERGIA CONTENTA”
 
Succede anche agli adulti di essere scarnificati dallo stillicidio di cattive notizie, che viene ammannito dai media, dai giornali, dai telegiornali. A maggior ragione ne soffrono i giovani, che abbisognano di sole schietto, più che di ammassi d’ombre e di penombre, di orizzonti di speranza più che di scoraggianti profezie di troppo numerose Cassandre.
Ogni educatore è chiamato a tenerne conto. Come Don Bosco, esso sa assumere un volto umano, incoraggiante e sereno. Il Servo di Dio Mons. Vincenzo Cimatti, cui più tardi toccò l’ardua missione di fondare la presenza salesiana in Giappone (1926), aveva ben compreso Don Bosco, del quale riproponeva l’esempio e del cui sistema preventivo fu intelligente cultore. Nelle sue Lezioni di pedagogia - destinate ai futuri maestri, che frequentavano la scuola normale di Valsalice (Torino), ove egli fu a lungo insegnante - evidenziava con forza che il maestro (e l’educatore) non può indulgere a “musonerie o eccessive austerità. La vita ha i suoi dolori e i suoi piaceri (…), questo è vero, ma è pur vero che tutti nel nostro operare abbiamo anche bisogno di energia contenta, allegra, non noiosa, antipatica, opprimente”[10]. Esprimeva così con efficacia lo stile educativo del Santo di Valdocco, che era stato una vera centrale di energia contenta. E d’una tal forza da riuscire a trasformare in energia contenta anche l’esperienza della croce e del dolore, tanto che chi lo conosceva bene e lo vedeva più contento del solito era portato ad esclamare: “Deve avere dei guai seri, oggi, Don Bosco, visto che si mostra così contento”.
“Il sorriso di Don Bosco – notava don Alberto Caviglia – è mezza la sua pedagogia”. Esso aveva alla sua radice l’accoglienza gaudiosa della bellezza e della positività del creato, la speranza nell’uomo espressa dalla lunga tradizione dell’umanesimo cristiano, la fiducia nelle risorse pasquali che la Chiesa metteva a disposizione del giovane e di ogni comunità educativa. “Si dia ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento. La ginnastica, la musica, la declamazione, il teatrino le passeggiate – prosegue Don Bosco nel suo trattatelo sul sistema preventivo – sono mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina, giovare alla moralità e alla sanità”.
Questa convinzione pedagogica era venuta consolidandosi con la precoce e lunga frequentazione dei ragazzi, attraverso un servizio reso a giovani poveri, cui per settimane non brillava la luce di un sorriso, e nell’acuta intuizione del cuore giovanile, che, per esprimere le sue potenzialità, abbisogna di gioia come la primavera ha bisogno del sole. Il giovane, che già si sente lambito da un mare di fragilità, rifugge istintivamente da chi intende scaricargli addosso ondate di pessimismo. Ciò è particolarmente delicato nell’ambito familiare, dove è richiesta una vera “ecologia” del linguaggio, in modo che l’adolescente possa respirare serenità e speranza di vita. La “pedagogia della festa” è un dono di Dio, ancor prima di essere un’invocazione dell’uomo. Essa chiede di saper rompere sapientemente la routine – lavorativa, scolastica, familiare – con momenti caratterizzati da più serena letizia e più ampia partecipazione.
 
 
5. “PROPORRE A TUTTI CON CONVINZIONE” “LA MISURA ALTA DELLA VITA CRISTIANA ORDINARIA”[11]
 
“La carità e la dolcezza di S.F.di Sales mi guidino in ogni cosa”, si propone Don Bosco, in occasione della sua ordinazione sacerdotale. Egli guarda al santo savoiardo come a colui che ha portato ad un alto grado le virtù relazionali, che sono decisive per un pastore d’anime. Ispirato dallo stesso santo, sceglie anche il motto programmatico cui resterà fedele tutta la vita: “Da mihi animas caetera tolle”. In un suo quadernetto ci fa un’ulteriore confidenza. 'E' pia credenza – scrive Don Bosco - che il Signore conceda infallibilmente quella grazia, che il nuovo sacerdote gli domanda celebrando la prima messa: io chiesi ardentemente l'efficacia della parola, per poter fare del bene alle anime. Mi pare che il Signore abbia ascoltato la mia umile preghiera'[12]. L’orientamento che egli intende dare alla sua vita sacerdotale conferma dunque la traiettoria percorsa sino ad allora con grande fedeltà e che egli traduceva in un facile slogan, coi suoi figli e collaboratori: Salve, salvando, salvati. 
La sua vita sarebbe stata dunque una diaconia educativa per la salvezza, specialmente dei giovani più poveri. E i cammini educativi da lui impostati – e caratterizzati da un’amorevolezza in cui fioriva la carità e da una ragione illuminata dalla fede – avrebbero fatto parte del tracciato di un itinerario di salvezza. L’incontro con la Chiesa e la sua storia, l’approfondimento della fede attraverso la catechesi, una vita sacramentale convinta ed assidua, la scoperta del Vangelo come “buona notizia”, che nutre un clima di allegria e di speranza, un itinerario di crescita umana coniugato con la crescita cristiana orientavano il cammino dei giovani verso una seria maturazione della fede.
In tutto questo, Don Bosco non giocava al ribasso – né con se stesso, né coi giovani – proponeva la mèta più ambiziosa, con una parola che indicava l’adesione plenaria alla fede e che, allora assai più di oggi, avrebbe potuto intimidire: la parola santità. E, per giunta, sosteneva che essa era facile ed alla loro portata. E corredava l’affermazione con le veloci ed accattivanti biografie di Domenico, Michele, Francesco: i ragazzi santi di Valdocco. E realizzava un clima educativo, che aveva l’ambizione di togliere ad essi ogni complesso di inferiorita' nell'essere cristiani, in un mondo che non li avrebbe accolti con applausi: 'Siate uomini e non frasche (...). Fronte alta, passo franco nel servizio di Dio, in famiglia e fuori, in chiesa e in piazza'. E suggeriva che quello doveva restare l’atteggiamento, anche quando avessero cambiato  condizione di vita, o fossero saliti a prestigiosi ruoli sociali: 'Un villanello che abbia fede - dice don Bosco ai suoi ragazzi - che bacia e ribacia nella sua capanna un crocifisso, mi innamora; ma un professore un capitano un magistrato, uno studente, che, al tocco della campana, recita con la famiglia l'Angelus, il De Profundis per i suoi morti, questi dico m'impone e mi entusiasma'[13]
      In questi anni, si sono moltiplicate in Italia le ricerche sul “Pianeta Giovani”. Da esse risulta invariabilmente che ragazzi, adolescenti e giovani, che sono in grado di imboccare un cammino di fede dispongono di formidabili risorse per dare senso alla vita e trovare sostegno nelle inevitabili difficoltà. Ma pochi imboccano il cammino da soli. Ci vuole gente che ve li accompagni. Col coraggio e la perseveranza, che vengono dalla convinzione che non possiamo fare un dono più grande alla loro vita, né alla società ed alla Chiesa.
      E’ appena da sottolineare che la “misura alta della vita cristiana” è proposta ai giovani, anzitutto, dal vigore della testimonianza dei loro educatori. Ad essi Giovanni Paolo II propone Don Bosco come colui che “realizza la sua personale santità mediante l’impegno educativo”, notando che “tale interscambio fra “educazione” e “santità” è l’aspetto caratteristico della sua figura[14]
 
 
6. EDUCARE ALLA MONDIALITA’, SPAZIO DELLA SOLIDARIETA’
 
Anche quando si trovò a lavorare stabilmente a Valdocco, Don Bosco non circoscrisse mai il suo lavoro agli stretti limiti di quel territorio. Ma continuò a spaziare entro orizzonti più vasti. Quello della sua Chiesa particolare, che lo vedeva in contatto con Mons.Fransoni, anche durante il suo esilio. Quello della Chiesa universale, che lo spinse a prendere precocemente contatto con Roma, durante la crisi del 1949, mandando al papa, esule a Gaeta, l’obolo di solidarietà dei suoi ragazzi. Quello dei più urgenti problemi del territorio e della società torinese, che lo vide in prima linea con un gruppo di suoi ragazzi (fra cui il Beato Michele Rua e il Card. Cagliero), in occasione del colera del 1854, che nella zona fra Borgo S.Donato e Borgo Dora aveva assunto particolare virulenza.
Non minore era stata l’attenzione da lui dedicata all’orizzonte missionario Durante gli anni del Convitto, egli aveva iniziato lo studio della lingua spagnola ed accarezzato il progetto di unirsi agli Oblati di Maria Vergine. Aveva seguito con interesse gli Annali della Propagazione della fede, di cui si era servito anche per le Letture Cattoliche. Aveva intrattenuto rapporti di amicizia coi redattori torinesi del Museo delle Missioni cattoliche, che faceva conoscere nei suoi scritti.
Durante il Concilio Vaticano I, più di un Vescovo si era rivolto a lui per fondazioni, infiammando in lui un entusiasmo missionario, che non si era mai sopito. Negli stessi anni, uno dei suoi sogni singolari aveva riorientato il corso dei suoi pensieri. Si vide ripetutamente Don Bosco pensoso, accanto al mappamondo, scrutare attentamente le regioni missionarie della Chiesa, alla ricerca di qualche indizio, che gli facesse luce. Tutto maturò nella prima spedizione missionaria dei salesiani nel 1875 e delle Figlie di Maria Ausiliatrice nel 1877[15] (e da allora, fino ad oggi, si sono succedute 132 spedizioni missionarie, con un totale di missionari/e inviati/e al mondo, che si aggira sui 13.000).
É interessante notare come Don Bosco abbia valorizzato tali eventi, trasformandoli in straordinarie occasioni di animazione educativa e di promozione vocazionale, dentro e fuori Valdocco, con una preparazione accurata ed intensa. Nella predica di invio, Don Bosco commentò la parola evangelica “Ite in mundum universum“. Lasciò ai missionari venti ricordi di cui il primo recitava: “Cercate anime, ma non danari, né onori, né dignità”. Fu quella un’occasione di cui Don Bosco seppe far tesoro per quel lancio internazionale della sua Congregazione - che solo un anno prima (1974) aveva visto l’approvazione definitiva delle Costituzioni – che proseguì incessante fino alla sua morte (1888).            Da allora l’apertura alla mondialità, la missionarietà, l’estendersi della solidarietà a livello internazionale sono elementi integranti della proposta educativa di Don Bosco, ed uno dei punti di forza e di attualità dell’opera sua. Il diffondersi del volontariato missionario giovanile, la crescita del laicato missionario, il sorgere di ONG, altamente qualificate a livello civile ed ecclesiale, impegnate a “globalizzare la solidarietà” rendono disponibili nuove proposte a cui i giovani rispondono con inattesa prontezza e con entusiasmo. Dalle nazioni più secolarizzate d’Europa ai popoli emergenti, l’orizzonte della mondialità – in qualcuna delle varie forme possibili – stimola la costante disponibilità dei giovani a pagare di persona e risveglia la loro perdurante capacità di entusiasmarsi per cause nobili e grandi. E’ un’esperienza, che può essere ulteriormente esplorata, valorizzata e proposta ai giovani più adulti.  L’intuizione profetica di Giovanni Paolo II nell’istituire le GMG (Giornate Mondiali della Gioventù) ha colto nel segno, indicando la direzione di un cammino.
 
Ho proposto, da educatore, una riflessione agli educatori. Condividerla coi nostri compagni di viaggio; completarla, con diretto riferimento ai giovani con cui operiamo, tradurla in itinerari concreti e graduali è un ulteriore suggerimento che Don Bosco ci dà. Non a caso, infatti, i suoi numerosi “Regolamenti” attirano l’attenzione degli studiosi del sistema preventivo, che vi vedono lo sforzo di dare concretezza operativa ai principi del suo metodo, ed una risposta più mirata ai bisogni dei suoi destinatari.
Celebrare Don Bosco significa per noi accogliere la Grazia dell’amore educativo. “L’espressione felice: ‘Basta che siate giovani perché io vi ami assai” fu la parola, e, prima ancora, l’opzione educativa fondamentale del Santo”[16]  Lo stesso amore – che è dono dello Spirito Santo – viene continuamente effuso nella storia, perché la speranza nei giovani trovi nell’impegno educativo della Chiesa un fondamento solido e diffuso.
 
Giovanni M. Fedrigotti[1] ” Juvenum Patris, 17 
[2] Cf TROISFONTAINES R., De l’existence a l’etre. La Philosophie de Gabriel Marcel, Louvain-Paris 1968, Nauwelaerts 1968, pp. 173-204.
[3] Cf BRAIDO P., L’esperienza pedagogica di Don Bosco, Roma, LAS 1988, p.131 e ss.
[4] Cf BOSCO G., Lettera da Roma del 10 maggio 1884, in Don Bosco educatore (a cura di P.Braido), Roma, LAS 1992, pp.347-388.
[5] PADELLARO N., Il messaggio educativo di Don Bosco, Torino, SEI 1930, p.21.
[6] Cf CAVIGLIA A., Don Bosco e la scuola, in Bollettino Salesiano, giugno 1929.
[7] CERIA E:, Memorie Biografiche di S.Giovanni Bosco (MB),. XVII, p.175.
[8]Juvenum Patris, 20.
[9] Cf DE RITA G., Il vivere come flusso, in Note di Pastorale Giovanile, 36 (2002) 9, p.29.
[10] CIMATTI PROF V., Lezioni di pedagogia, vol 2°, Torino, Libreria Editrice internazionale 1911, p. 76.
[11] Cf Novo Millennio Ineunte, 31.
[12] LEMOYNE G.B., MB .I, p.519. 
[13] Cf LEMOYNE G.B., MB VIII,166.
[14] GIOVANNI PAOLO II, Juvenum Patris, 5 
[15] Cf STELLA P., Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol 1°Vita e Opere, Zurigo, PAS-Verlag 1968, pp.167-186. DESRAMAUT F. Don Bosco en son temps, Torino, SEI 1996, pp.948-975. CERIA E:, Annali della Società salesiana, vol.1°, Torino, SEI 1961, pp.245-266.
[16]  Juvenum Patris, 4. 
don Giovanni Fedrigotti
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