La vita è relazione con Dio e con gli altri. Come la morte. Ciascun essere umano è stato donato a se stesso da una madre e un padre, dalle relazioni familiari e sociali che lo formano, educandolo ad abitare il mondo. La vita parte comunque e sempre da questo "dono a perdere", anche se...
Fino a quando si dovrà assistere a quell’ignobile operazione sul tema del "fine vita", quella che continua a coinvolgere strumentalmente la morte del cardinale Martini? C’è da augurarsi che il rispetto prenda il sopravvento e che il silenzio sopravanzi sulle troppe scomposte parole. La risposta di Corrado Augias ("la Repubblica" del 15 settembre scorso) a una lettera sull’argomento merita però una precisazione, non certo sui tentativi di "usare" Martini per propagandare l’eutanasia già ben affrontati su queste pagine, ma su una "digressione" che il giornalista compie all’interno del suo argomentare. Riporto le sue parole sulla possibilità di chiedere di essere uccisi: «[…] Capisco che la risposta sia no per chi ritiene che la vita non sia altro che "un dono di Dio". Anche se la dizione è comunque impropria perché il donatore si spoglia del bene che dona, meglio sarebbe allora chiamarla "un prestito di Dio" […]».
Non è solo una digressione, però. L’idea del credente, che suppone di avere un dono, che invece è un prestito, ha una funzione precisa all’interno del discorso: serve infatti a delimitare seccamente i due fronti: chi ha fede vada per la sua strada – continua Augias – chi non l’ha, deve avere la libertà di muoversi come crede. Di fronte a questa secca alternativa, sembra non esserci più spazio per argomentare ulteriormente. Provo, comunque, a chiarire quella "digressione", che si apre su di una questione su cui il giornalista sembra avere le idee confuse … Dio, dunque, – a suo vedere – non dona la vita: se mai la presta, perché poi se la riprende.
Innanzitutto: ciascun essere umano è stato donato a se stesso da una madre e un padre, dalle relazioni familiari e sociali che lo formano, educandolo ad abitare il mondo. La vita parte comunque e sempre da questo "dono a perdere", anche se la gratitudine per il dono segna il legame che continua nel tempo tra donatore e destinatario del dono. Il dono insomma non provoca separazione e distacco, ma – se mai – partecipazione e relazioni affettive anche in ambito sociale; dentro la logica del dono non si insinua l’asettico regno della "libertà individuale", ma l’ambito interpersonale che genera condivisione e solidarietà.
Donare, ad esempio, il proprio tempo a un altro, per dirla con Jacques Derrida, non significa entrare nella dinamica mortifera dello scambio o del prestito, qualcosa di circolare che ha un’andata e un ritorno, perché in tal caso il dono scompare. Il dono invece resta dono – argomenta ancora Derrida – quando c’è una «eccedenza», un surplus che si sottrae al cerchio del dare-avere e aspira all’ambito della libertà. "Mi dai cinque minuti?": donare il proprio tempo è sottrarsi all’individualismo dello scambio e del prestito, con la consapevolezza che quei cinque minuti regalati non potranno mai essere restituiti…
E con Dio come funziona? Allo stesso modo. Il credente, che si sente creatura, data e voluta dal suo Creatore, percepisce la sua esistenza come partecipazione alla vita di Dio, ben sapendo che la sua fede, più che possesso esclusivo della verità, si alimenta nel riconoscimento del punto di vista di Dio sulla sua storia. Dio si interessa al mondo, così che l’uomo di fede si interessa dell’interesse di Dio sul mondo. Il Creatore non "getta" gli uomini sulla terra, abbandonandoli al loro destino, né decide cinicamente la loro sorte, riprendendosi la vita data in prestito.
Quello che Dio ha donato a tutti gli uomini, non solo ai credenti, non se lo riprende più: offre gratuitamente il suo tempo eterno, regalandolo senza risparmio, così che l’esistenza di ciascuno, non più destinata alla mortale finitezza, partecipa alla sua infinità, alla vita eterna. Questa è l’eccedenza del dono, che Derrida intravede, ma che poi perde per strada.
Il credente, con timore e fatica, vede la propria fine terrena come gesto di affidamento a Dio; non si tratta in tal caso di amare la vita malata, la sofferenza a tutti i costi, la vita morente, ma di amare la vita malgrado sia segnata da sofferenze e da morte, perché sa di essere parte della vita che continua nell’amore di chi resta e nell’attesa dell’esistenza, mai tolta, ma eternamente viva. In questa ottica, anche la propria morte, più che scelta autonoma della libertà individuale, può diventare, come la vita, un dono. Con buona pace di Augias.
Paola Ricci Sindoni
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