Due piccole linee rosa, una di fianco all'altra, che cambiano la vita di ogni donna. Due strisce parallele che demarcano il confine esistente tra il compimento di una vocazione ancestrale e la disperazione per una vita “rovinata”. Due righette che per tante coppie realizzano un sogno o scatenano un dramma.
Due piccole linee rosa, una di fianco all’altra, che cambiano la vita di ogni donna.
Due righette che per tante coppie realizzano un sogno o scatenano un dramma, che vengono bramate a coronamento di un’attesa caparbia o paventate come una maledizione da cui fuggire.
Due strisce parallele che demarcano il confine esistente tra il compimento di una vocazione ancestrale e la disperazione per una vita “rovinata”, l’abbandono nella solitudine o, addirittura, una decisione di morte.
Due piccole linee rosa che anche nella vita di mia moglie e mia hanno accompagnato sentimenti ogni volta nuovi, inaugurando stagioni cariche di speranza ed apprensione insieme, ma accolte sempre con fiducia.
Come quella prima ed indimenticabile volta, quando sullo sticker del test di gravidanza, quelle due righette hanno dato sfogo alla mia spontanea ed esplosiva esclamazione: “Amore, sei troppo incinta!”, caricandomi di un entusiasmo incontenibile per la paternità appena scoperta, tanto da essere capace di contagiare anche la futura mamma che, in quanto forse interessata in prima persona a dover portare quella nuova vita in grembo, era più preoccupata per la responsabilità che accompagnava quella nuova presenza in lei.
La seconda volta, invece, quelle due lineette rosa erano la conferma di un’aspettativa, presa con coscienza tremebonda dopo tre lunghi anni, tempo necessario ai nostri cuori perché la ferita profonda causata da quel primogenito che ora vegliava su di noi dal Cielo riuscisse a rimarginarsi: quei due segni erano il simbolo di una speranza volitivamente rinnovata, non senza un po’ di paura, ma come un balzo nelle braccia di una Provvidenza che, pur non vedendo, sai che c’é.
E fu proprio mentre quel disegno stava compiendosi, non secondo i nostri limitati desideri, ma in un progetto di bene più grande e dolorosamente misterioso (che avremmo iniziato a comprendere solo con il senno di poi), che per la terza volta e quasi inaspettatamente, quella coppia di strisce ci annunciò che un altro figlio già aumentava il numero della nostra famiglia. Fu una benedizione vera, quella, anche se lì per lì non la capimmo, perché la gioia di quel futuro nuovo arrivo sarebbe presto andata a confortare il vuoto lasciato dalla partenza al Cielo del secondo bimbo, lenendo la nostra sofferenza e ridando vigore alla nostra speranza.
Per la cronaca: quel terzo figlio dopo cinque anni è ancora qui con noi ed è stato pure raggiunto da un fratellino (anche lui segnalato dalle sue due righine rosa), che però nel conto non è il quarto, ma il quintogenito.
Già, perché tra questi due bimbi ce ne fu uno che fu chiamato a Sé dal Padre al quarto mese di gravidanza, quando per me, che non lo portavo nella mia carne, era ancora solo poco più di un pensiero: quasi l’immagine di un figlio, la prospettiva di una presenza, ma già così radicata nel cuore da condizionare la tua vita in rapporto a lui che pur non vedi, non tocchi, e che tuttavia senti così reale nella tua rinnovata paternità.
Poiché quell’embrione, di umano, ha già tutto, a cominciare dal dna, e siccome vive non è cosa, ma persona. Perché a quell’insieme di cellule in crescendo è misteriosamente ed inscindibilmente legata un’anima creata, unica ed eterna, e che una volta venuta al mondo chiamerai figlio.
Quel figlio ancora celato nel ventre di sua madre, la cui prematurissima dipartita mi ha affranto più che quella degli altri due nati, i quali per un anno e mezzo ho almeno avuto il dono di conoscere. Questo, che abbiam chiamato Mattia, invece no: con lui non mi è stata data l’opportunità di stringerlo nel mio abbraccio, di sostenerne il peso leggero tra le palme, di coccolarlo ed accudirlo, ultimamente, crescerlo.
Quel figlio la cui mancanza ancora oggi, al solo ricordo, mi affligge l’animo così mordacemente.
Quel figlio che, forse proprio perché non nato, è stato subito dimenticato da tutti, persino dai famigliari più stretti, i quali hanno pure vissuto con noi la sua esistenza nascosta.
Quel figlio la cui perdita ha lasciato un vuoto enorme nella mia vita, riempito solo dalla riconoscente consapevolezza della grazia: la profonda compassione per quel padre Giacobbe, anche lui distrutto dalla perdita del figlio Giuseppe; la comprensione, nella propria carne, dell’angoscia del buon Pastore, che per l’amore verso la pecorella smarrita, senza esitare lascia le altre nell’alveo sicuro del recinto e non si dà pace finché con quell’una non s’è riunito; l’esperienza di comunione vera con quel Padre che agogna ad ogni singola anima e si strugge per quelle che nella loro disperazione si smarriscono, poiché non è che l’aver salvi nove figli ti pacifica per quel decimo che perdi. E la mia condizione è ancor migliore della Sua, perché per me c’è la speranza di avere un altro Santo in Cielo e pur nel ricordo sbiadito di quel figlio così caro e sconosciuto una consolazione resta: la certezza che il mio Mattia, pur non essendo qui con noi, ora sta bene, anzi, sta da Dio.
Andrea Torquato Giovanoli
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