Referendum sulla fecondazione assistita, l'intervento di Marcello Pera. «Al problema non sfugge nessuno. Pesare i diritti, anziché sforbiciarli, si deve e si può. Di fatto, il Parlamento lo fa tutti i giorni. Personalmente, ritengo che sia bene che continui a farlo anche con la fecondazione assistita. Ecco perché, se «sì» e «no» sono comprensibili, l'astensione non è un sotterfugio. È invece una pausa di riflessione morale e un omaggio alla democrazia parlamentare».
del 28 maggio 2005
Fra i tre diritti costituzionali di cui disponiamo al referendum sulla legge che disciplina la fecondazione assistita (votare sì, votare no, astenersi), il terzo, che è quello di cui personalmente mi avvarrò, sembra il più controverso. Lo si considera un inganno o uno stratagemma furbo di chi, pur non prendendo partito, decide dell’esito del referendum. Ritengo che sia vero il contrario. Astenersi in modo deliberato e consapevole non significa lavarsi le mani dei quesiti referendari, piuttosto significa conoscerli, volere che la legge resti così com’è, e soprattutto significa affidare al Parlamento il compito della sua eventuale revisione. In tutto il mondo, i temi di bioetica dividono non solo le forze politiche ma le coscienze dei cittadini. Gli stessi competenti (supposto che nelle questioni morali esistano «i competenti») hanno opinioni diverse, e le cambiano in modo rapido con il cambiamento, ancora più rapido, dei termini tecnici delle questioni.
 
In campo biomedico, viviamo tempi di accelerazione: la nostra sapienza scientifica corre ad un ritmo tremendamente più veloce della nostra saggezza morale. Conosciamo e possiamo assai più di quanto le nostre intuizioni etiche sappiano dominare. In una situazione come questa, «sì» e «no» sono risposte così approssimative e così affrettate da essere inevitabilmente inadeguate.
 
Dire «sì» ai quesiti referendari equivale a non toccare più alcunché per molti anni a venire. Ugualmente, dire «no» rende intangibile l’argomento. Ma di qui a poco si potrebbe sentire l’esigenza di tornarci sopra. Chi meglio del Parlamento può svolgere questa riflessione, anche in vista di future revisioni della legge? Dove meglio che in Parlamento si trovano persone rappresentanti di tutte le opinioni, e consapevoli di tutte le esigenze da bilanciare, che, discutendo per mesi o anni (come è accaduto da noi) alla fine riescono a trovare una soluzione di equilibrio, la quale, se non accontenta tutti, almeno scontenta il minor numero? Con i referendum in materia di bioetica - ma sarebbe lo stesso con i referendum in materia di pena di morte o di norme penali - non è in gioco un istituto della democrazia diretta; è in gioco la capacità della democrazia diretta di risolvere con l'accetta del «sì» e del «no» ciò che la democrazia parlamentare indiretta sa risolvere con gli strumenti più raffinati del confronto.
 
Si consideri la sostanza della questione della fecondazione artificiale. Il desiderio di avere un figlio produce il diritto ad averlo e questo diritto a sua volta genera la norma corrispondente. La scienza e la tecnica fanno da cortocircuito fra desiderio avvertito e diritto reclamato: si vuole, si può, dunque è giusto averlo; e la democrazia fa da cortocircuito fra diritto reclamato e diritto sancito: lo chiedono in tanti, si devono rispettare anche le minoranze, dunque è doveroso approvare una legge.
 
Ma per arrivare alla legge, si consideri quanti problemi il Parlamento ha dovuto risolvere. Quale desiderio? Di tutte le donne? Anche di quelle non più fertili per età? Anche delle donne singole? Anche fuori del matrimonio? Anche contro il consenso del coniuge o del partner? E poi, quale diritto? Assoluto? Gratuito? Ad ogni costo? E come bilanciato con altri diritti? È facile capire la complessità di questi problemi riflettendo soprattutto sull'ultima domanda. Quando si concede alla donna il diritto ad avere un figlio con la fecondazione assistita, lo si deve mettere assieme ad un bel numero di altri diritti.
 
L'elenco che segue è lungo ma incompleto: esiste il diritto alla integrità della vita del nascituro; il diritto alla tutela della persona; il diritto alla salute; il diritto all'autodeterminazione della donna; il diritto alla discendenza; il diritto alla identità del bambino; il diritto alla professione medica; il diritto alla ricerca scientifica. Un «sì» o un «no» bastano a trovare un giusto bilanciamento fra tutti questi diritti? Oppure un «sì» o un «no» da una parte provocano uno sbilanciamento da un'altra e, alla fine, un insieme incoerente? Ignoranza a parte di molti cittadini sulla materia, che pure c'è ed è diffusa, non è saggio che sia il Parlamento a trovare le coerenze migliori? Alcuni pensano di semplificare i problemi con una sforbiciata all'elenco dei diritti. Certo, se l'embrione, che con la procreazione assistita viene soppresso, non fosse né vita né persona, alla fine resterebbero solo il diritto della donna ad avere un figlio e il diritto della scienza a procurarglielo.
 
Ma una sforbiciata così radicale non si può dare. Il diritto della scienza c'è ma non è moralmente incondizionato e comunque non può essere usato con il ricatto che, se si impedisse oggi la sperimentazione sugli embrioni, non si curerebbero domani malattie gravi. Basta un esperimento mentale per comprenderlo: se uno «scienziato» dicesse che (forse) è possibile curare un terribile morbo ma facendo esperimenti su feti vivi, la scienza avrebbe il diritto di essere lasciata libera? No, la scienza è libera, ma ha libertà condizionata, allo stesso modo in cui ogni diritto nostro è condizionato dal rispetto del diritto altrui. Lo stesso vale per il diritto ad avere un figlio. Esso urta col diritto dell'embrione, che è il figlio di domani, a non essere soppresso. Dire che l'embrione questo diritto non ce l'ha perché non è persona significa mettersi nelle mani del peggiore scientismo. Certo, il ginecologo con le sue provette non vede persone quando tratta embrioni, così come non vedono persone il genetista o il biologo con i loro microscopi puntati su strie cellulari. Ma non le vedono, le persone, non perché non ci siano, semplicemente perché gli strumenti non sono adatti. La persona non si vede né si tocca, perché «persona» non è un termine empirico che denoti qualcosa. «Persona» è termine morale, filosofico, assiologico, religioso, culturale che connota qualcuno. Con la fecondazione, naturale o artificiale che sia, questo qualcuno c'è sùbito, fin dal concepimento. Perciò, fin dal concepimento, ha diritti.
 
E se li ha, devono essere rispettati e bilanciati con altri. Qui non è questione di essere laici o credenti. Sul punto, fra gli uni e gli altri non c'è differenza sensibile. Per un credente un individuo è persona perché è immagine di Dio, per un laico è persona perché soggetto di dignità, rispetto, responsabilità. Ma persona comunque, cioè qualcuno che vale, sempre anche come fine, mai soltanto come mezzo.
 
Al problema non sfugge nessuno. Pesare i diritti, anziché sforbiciarli, si deve e si può. Di fatto, il Parlamento lo fa tutti i giorni. Personalmente, ritengo che sia bene che continui a farlo anche con la fecondazione assistita. Ecco perché, se «sì» e «no» sono comprensibili, l'astensione non è un sotterfugio. È invece una pausa di riflessione morale e un omaggio alla democrazia parlamentare.
Marcello Pera
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