Credente nell'Evangelo, nella buona notizia, il cristiano risponde con la gioia all'evento della salvezza portata da Gesù Cristo. La gioia è dunque coestensiva alla fede cristiana; non è una possibilità, ma una responsabilità del credente.
del 01 gennaio 2002
Credente nell’Evangelo, nella buona notizia, il cristiano risponde con la gioia all’evento della salvezza portata da Gesù Cristo. La gioia è dunque coestensiva alla fede cristiana; non è una possibilità, ma una responsabilità del credente. Responsabilità che discende dall’evento pasquale con cui Dio ha resuscitato Gesù Cristo e dischiuso agli uomini la speranza della resurrezione. Tutto il Vangelo è racchiuso fra l’annuncio della grande gioia della nascita del Salvatore a Betlemme (cfr. Luca 2,10-11) e la gioia esplosa all’alba del primo giorno dopo il sabato, il giorno della resurrezione (cfr. Matteo 28,8).
Ma per comprendere cosa significhi che la vita cristiana è segnata dalla gioia occorre interrogarsi sull’esperienza umana della gioia. Se anche non riusciamo a definirla in modo esauriente, pure della gioia noi tutti abbiamo un’esperienza. È come un vertice dell’esistenza, una sensazione di pienezza in cui la vita appare nella sua positività, come piena di senso e meritevole di essere vissuta. Con Hans Georg Gadamer potremmo cogliere la gioia come rivelazione: «La gioia non è semplicemente una condizione o un sentimento, ma una specie di manifestazione del mondo. La gioia è determinata dalla scoperta di essere soddisfatti». Nell’esperienza della gioia la nostra quotidianità conosce una sorta di trasfigurazione: il mondo si dona a noi e noi entriamo nella gioiosa gratitudine: «Il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine» (Th. W. Adorno). Si è grati di essere nella gioia. La gioia è esperienza di pienezza di senso che apre il futuro dell’uomo consentendo la speranza. Essa connota un determinato rapporto con il tempo: vi può infatti essere una gioia dell’attesa (l’attesa dell’arrivo di una persona cara, l’attesa di una nascita ecc.), una gioia per una presenza, e una gioia del ricordo (o, se si vuole, il ricordo della gioia: la gioia vissuta nel passato viene ri-esperita nel ricordo e grazie ad esso). Questo è particolarmente evidente nella festa, che è la gioia di essere insieme: quando inizia e quando finisce la festa? Non è facile rispondere perché la festa esiste già nella gioia di chi l’attende e la prepara, ed esiste ancora nella gioia di chi la ricorda. Ma poi la gioia è connessa all’esperienza positiva dell’altro e dell’incontro con l’altro. È significativa la formula di saluto di molte culture: il greco chaíre (lett. «rallégrati») è augurio di gioia nel momento dell’incontro con l’altro; ma anche lo shalom ebraico (e termini affini in altre lingue semitiche) augura all’altro una situazione in cui possa sperimentare la gioia. Insomma, possiamo dire che la gioia è esperienza che coinvolge la totalità dell’esistenza umana e che emerge con forza nei momenti dell’amore (le gioie dell’amicizia e dell’amore) e della convivialità (dove il mangiare insieme è celebrazione per eccellenza della gioia di vivere e di vivere insieme).
Credo non sfugga a nessuno come queste dimensioni siano assunte e innestate in Cristo nell’eucaristia: è «con gioia» che il cristiano rende grazie («Ringraziate con gioia il Padre», Colossesi 1,12) e l’eucaristia è gioia nella memoria dell’evento pasquale rivissuto nell’oggi e atteso nel suo compimento escatologico quando verrà il Signore nella gloria. Ed è gioia, espressa particolarmente dal «bacio santo», per la comunione che la presenza del Cristo crea fra i credenti: «Vedersi insieme gli uni gli altri all’eucaristia è sorgente di una gioia traboccante» (Gerolamo). Questa gioia «in Cristo» è dunque una gioia umanissima, non dimentica delle dimensioni corporee e relazionali della stessa, e così essa culmina nel pasto eucaristico, dove il simbolo conviviale si carica, in Cristo, della dimensione di profezia del banchetto escatologico. Vi è infatti una dimensione escatologica della gioia cristiana, che si evidenzia soprattutto come «gioia anche nelle tribolazioni» (2 Corinti 7,4; Colossesi 1,24), cioè come gioia che non viene meno pur nelle situazioni di sofferenza e di contraddizione.
Questo non significa certo dire che il cristiano non conosca più tristezze o dolori che escludono assolutamente la compresenza della gioia. Ma significa che la gioia cristiana abita nel profondo del credente e consiste nella sua vita nascosta con Dio. È la gioia indicibile e gloriosa (1 Pietro 1,8-9) di chi ama Cristo e già vive con lui nel segreto della fede. È la gioia che nessuno può estirpare perché nessuno può impedire al cristiano di amare il Signore e i fratelli anche in situazioni estreme: i martiri sono lì a ricordarcelo. È la gioia a caro prezzo di chi assume la condizione di temporalità e mortalità e fa del suo ineluttabile scendere verso la morte una salita al Padre, un cammino pieno di speranza verso il Signore, verso l’incontro con Colui il cui volto tanto ha cercato nei giorni della sua esistenza. Per questo la gioia nel Nuovo Testamento è un comando apostolico: «Rallegratevi senza posa nel Signore, lo ripeto, rallegratevi» (Filippesi 4,4): essa infatti è una dimensione di cui già si può fare esperienza, ma è anche gioia veniente alla quale acconsentire, gioia piena nell’incontro definitivo, faccia a faccia con il Signore. Essendo una sua responsabilità, il cristiano deve esercitarsi alla gioia, da un lato per sconfiggere lo spiritus tristitiae che sempre lo minaccia, dall’altro perché non può privare il mondo della testimonianza della gioia sgorgata dalla fede. È la gioia dei credenti, infatti, che narra al mondo la gloria di Dio! Questo, infatti, chiedono gli uomini: «Mostri il Signore la sua gloria: e voi credenti fateci vedere la vostra gioia!» (cfr. Isaia 66,5).
Enzo Bianchi
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