del 01 gennaio 2002
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Epilogo. Vivere il dipinto.
Quando, nell'autunno del 1983, ho visto per la prima volta il poster di Rembrandt, tutta la mia attenzione è stata attratta dalle mani del vecchio padre che stringevano al petto il figlio appena tornato. Vi ho visto perdono, riconciliazione, guarigione; vi ho visto anche sicurezza, riposo, calorosa accoglienza. Sono stato toccato così profondamente dall'immagine dell'abbraccio caloroso fra padre e figlio, perché tutto in me desiderava ardentemente essere accolto allo stesso modo in cui il figlio prodigo veniva accolto. Quell'incontro si è rivelato come l'inizio del mio stesso ritorno.
La comunità de L'Arche è diventata gradualmente la mia casa. Mai nella mia esistenza avevo immaginato che uomini e donne con handicap mentali sarebbero stati quelli che avrebbero posato le loro mani su di me in un gesto di benedizione e mi avrebbero offerto una casa. Per lungo tempo avevo cercato salvezza e sicurezza tra i sapienti e gli intelligenti, a malapena consapevole che le cose del Regno erano rivelate ai "piccoli"; che Dio ha scelto «ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti».
Ma quando ho sperimentato la calorosa e semplice accoglienza di coloro che non hanno niente di cui vantarsi e sentito l'abbraccio amorevole di persone che non facevano alcuna domanda, ho cominciato a scoprire che un vero ritorno a casa, in senso spirituale, significa un ritorno ai poveri in spirito, cui appartiene il Regno dei Cieli. L'abbraccio del Padre è diventato molto reale per me negli abbracci dei mentalmente poveri.
Aver osservato il dipinto per la prima volta facendo visita a una comunità di handicappati mentali mi è servito per stabilire una connessione che è profondamente radicata nel mistero della nostra salvezza. Si tratta della connessione tra la benedizione data da Dio e la benedizione data dai poveri. Presso L'Arche sono giunto a capire che queste benedizioni sono veramente uniche. Il grande artista olandese non solo mi ha messo a contatto con i desideri più profondi del mio cuore, ma mi ha portato anche a scoprire che tali desideri avrebbero potuto essere realizzati nella comunità dove l'avevo incontrato la prima volta.
Ora sono più di sei anni che ho visto il poster di Rembrandt a Trosly e cinque anni che ho deciso di fare de L'Arche la mia casa. Se rifletto a questi anni, mi rendo conto che le persone con handicap mentali e i loro assistenti mi hanno fatto "vivere" il dipinto di Rembrandt in modo molto più completo di quanto mi sarei potuto aspettare. La calorosa accoglienza che ho ricevuto in molte case de L'Arche e i numerosi festeggiamenti a cui ho partecipato mi hanno permesso di sentire in profondità il ritorno del figlio più giovane. L'accoglienza e il festeggiamento sono infatti due delle caratteristiche principali della vita "nell'Arca". Ci sono così tanti segni di benvenuto, abbracci e baci, canzoni, scenette burlesche e pasti gioiosi che per un esterno L'Arche può apparire come una festa di ritorno a casa che dura una vita.
Ho vissuto anche la storia del figlio maggiore. Non avevo capito veramente come il figlio maggiore fosse parte integrante del Figlio prodigo di Rembrandt finché non sono andato a San Pietroburgo e ho visto l'intero quadro. Là ho scoperto la tensione che Rembrandt evoca. Non c'è solo la riconciliazione, in piena luce, tra il padre e il figlio più giovane, ma anche la distanza oscura e carica di risentimento del figlio maggiore. C'è pentimento, ma anche sdegno. C'è comunione, ma anche alienazione. C'è il vivo calore dell'incontro che salva, ma anche la freddezza dell'occhio critico; c'è l'offerta della misericordia, ma anche l'enorme resistenza a non riceverla. Non mi ci è voluto molto a scoprire in me anche il figlio maggiore.
La vita in una comunità non elimina le tenebre. Al contrario, sembra che la luce che mi ha attratto a L'Arche mi abbia reso anche consapevole delle tenebre che sono dentro di me. Gelosia, rabbia, la sensazione di essere rifiutato o dimenticato, il senso di non autentica appartenenza - tutto questo è emerso nel contesto di una comunità che lotta per una vita di perdono, riconciliazione e guarigione. La vita di comunità mi ha iniziato alla vera lotta spirituale: lotta per continuare a muoversi nella direzione della luce proprio quando l'oscurità è così reale.
Finché ho vissuto da solo, sembrava piuttosto facile tener celato ai miei occhi il figlio maggiore. Ma il condividere la vita con persone che non nascondono i loro sentimenti mi ha subito posto intimamente a contatto proprio con lui. C'è poco romanticismo nella vita di una comunità. C'è il bisogno costante di continuare a uscire dalla profondità delle tenebre per salire sulla pedana dove ci attende l'abbraccio del padre.
Gli handicappati hanno poco da perdere. Senza inganni, mi si mostrano come sono. Esprimono apertamente il loro amore e la loro paura, la loro dolcezza e la loro angoscia, la loro generosità e il loro egoismo. Ma proprio perché sono semplicemente chi sono, penetrano attraverso le mie sofisticate difese e chiedono che io sia aperto con loro come essi lo sono con me. Il loro handicap svela il mio. La loro angoscia rispecchia la mia. La loro vulnerabilità mi mostra la mia. E mi costringono a confrontarmi con il figlio maggiore che è in me. L'Arche ha dischiuso la via per ricondurlo a casa. Gli stessi handicappati mentali che mi hanno accolto a casa e invitato a festeggiare mi hanno anche messo di fronte a quella parte di me non ancora convertita e mi hanno fatto capire che il mio viaggio era tutt'altro che concluso.
Mentre queste scoperte hanno avuto un grosso impatto sulla mia vita, il dono più grande de L'Arche è stata la provocazione a diventare il Padre. Essendo più anziano della maggior parte dei membri della comunità ed essendone anche l'assistente spirituale, sembra naturale pensare a me come a un padre. In forza della mia ordinazione sacerdotale, ne ho già il titolo. Ora devo metterlo in pratica.
Diventare il Padre in una comunità di handicappati mentali e dei loro assistenti è molto più arduo che affrontare le lotte del figlio minore e del figlio maggiore. Il padre di Rembrandt è un padre che è stato svuotato dalla sofferenza. Attraverso le molte "morti" che ha sofferto, è diventato completamente libero di ricevere e dare. Le sue mani protese non stanno chiedendo un'elemosina, implorando, esigendo, ammonendo, giudicando o condannando. Sono soltanto mani che benedicono, dando tutto e non aspettando niente.
Ora mi trovo di fronte al compito difficile e apparentemente impossibile di abbandonare il bambino che è in me. Paolo lo dice chiaramente: «Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l'ho abbandonato». È comodo essere il giovane figlio ribelle o il figlio maggiore sdegnato.
La nostra comunità è piena di figli ribelli e sdegnati, ed essere circondati da simili persone dà un senso di solidarietà. Tuttavia, più faccio parte della comunità, più questa solidarietà si rivela soltanto come una stazione di transito verso una destinazione molto più solitaria: la solitudine del Padre, la solitudine di Dio, la solitudine ultima della misericordia. La comunità non ha bisogno di un altro figlio minore o maggiore, convertito o meno, ma di un padre che viva con le mani tese, desiderando sempre di poterle posare sulle spalle dei figli che tornano. Tuttavia, ogni cosa in me resiste a questa vocazione. Continuo a restare tenacemente avvinghiato al bambino che è in me. Non voglio essere quasi cieco; voglio vedere chiaramente ciò che mi succede intorno. Non voglio aspettare che i miei figli tornino a casa; voglio essere con loro dovunque si trovino, in un paese straniero o nei campi con i servi. Non voglio starmene muto su quanto è successo; sono curioso di sentire tutta la storia e ho un'infinità di domande da fare. Non voglio stare sempre con le mani tese quando sono così pochi a voler essere abbracciati, specialmente quando i padri e le figure di padri sono ritenuti da molti la causa dei loro problemi.
E nondimeno, dopo una lunga vita come figlio, so di sicuro che la vera chiamata è di diventare un padre che soltanto benedice con infinita misericordia, senza fare domande, e che sempre dona e perdona non aspettandosi mai niente in cambio. In una comunità tutto questo è spesso terribilmente concreto. Voglio sapere ciò che succede. Voglio essere coinvolto negli alti e bassi quotidiani della vita delle persone. Voglio essere ricordato, interpellato e informato. Il fatto è, purtroppo, che sono pochi ad accettare il mio desiderio, e quelli che ci riescono non sanno bene come rispondere a esso. I membri della mia comunità, handicappati o meno, non cercano un'altra persona pari a loro, un altro compagno di giochi, nemmeno un altro fratello. Cercano un padre che possa benedire e perdonare senza aver bisogno di loro nel modo in cui essi hanno bisogno di lui. Capisco esattamente la verità della mia vocazione ad essere un padre; allo stesso tempo, però, mi sembra quasi impossibile seguirla. Non voglio starmene a casa mentre tutti escono, spinti dai loro tanti desideri o dalle loro tante rabbie. Anch'io sento questi stessi impulsi e voglio andarmene come fanno gli altri! Ma chi ci sarà in casa quando torneranno - stanchi, esausti, turbati, delusi, tormentati dai rimorsi o dalla vergogna? Chi ci sarà a convincerli che, dopo tutto quello che è stato detto o fatto, c'è un posto sicuro dove far ritorno e ricevere un abbraccio? Se non ci sarò io, chi ci sarà? La gioia della paternità è immensamente diversa dal piacere dei figli ribelli. È una gioia al di là del rifiuto e della solitudine; anche al di là dell'accoglienza e della comunità. E la gioia di una paternità che prende nome dal Padre celeste e prende parte alla sua solitudine divina.
Non.mi sorprende affatto che siano poche le persone disposte a rivendicare la paternità. I dolori sono troppo evidenti, le gioie troppo nascoste. E tuttavia, non rivendicandola, mi sottraggo alla mia responsabilità di persona spiritualmente adulta. E tradisco anche la mia vocazione. Né più né meno! Ma come posso scegliere ciò che sembra così contrario a tutti i miei bisogni? Una voce mi dice: «Non temere. Il Figlio ti prenderà per mano e ti condurrà alla paternità». So che di quella voce ci si può fidare. Come sempre, i poveri, i deboli, gli emarginati, i reietti, i dimenticati, i più piccoli... non solo hanno bisogno che io sia il loro padre, ma mi indicano anche come essere un padre per loro. La vera paternità è condividere la povertà dell'amore di Dio che nulla domanda. Ho paura di trovarmi coinvolto in tale povertà, ma coloro che già vi sono coinvolti con le loro invalidità fisiche o mentali saranno i miei maestri.
Osservando le persone con cui vivo, sia gli handicappati che i loro assistenti, vedo il loro immenso desiderio di un padre in cui paternità e maternità sono una cosa sola. Tutti hanno sofferto l'esperienza del rifiuto o dell'abbandono; tutti sono stati feriti mentre crescevano e si facevano adulti; tutti si chiedono se sono degni dell'amore incondizionato di Dio e tutti cercano un posto dove, una volta tornati, starsene al sicuro ed essere toccati da mani benedicenti.
Rembrandt ritrae il padre come l'uomo che ha trasceso le vie dei suoi figli. Solitudine e rabbia hanno forse albergato nel suo cuore, ma sono state trasformate dalla sofferenza e dalle lacrime. La sua solitudine è diventata infinita solitudine, la sua rabbia sconfinata gratitudine. E lui che devo diventare io. Lo vedo in modo chiaro come vedo l'immensa bellezza del vuoto e della misericordia del padre. Sono in grado di far crescere il figlio più giovane e il figlio maggiore che sono in me fino alla maturità del padre misericordioso?
Quando, quattro anni fa, sono andato a San Pietroburgo per vedere Il ritorno del figlio prodigo di Rembrandt, non avevo se non una pallida idea di quanto avrei dovuto vivere ciò che vidi allora. Sono stato in riverente timore nel luogo dove Rembrandt mi ha portato. Mi ha condotto dal figlio più giovane inginocchiato e scarmigliato al padre in piedi e ricurvo, dal luogo in cui si è benedetti al luogo in cui si benedice. Quando guardo le mie mani invecchiate, capisco che mi sono state date per tendersi verso tutti quelli che soffrono, per posarsi sulle spalle di tutti quelli che vengono, e per offrire la benedizione che emerge dall'immensità dell'amore di Dio.
Ringraziamenti.
Quando penso a tutte le persone che mi hanno aiutato durante la stesura di questo libro, le prime due che mi vengono in mente sono Connie Ellis e Conrad Wieczorek. Connie Ellis ha seguito tutte le fasi del manoscritto. Il suo aiuto entusiasta, scrupoloso e competente, come segretaria, mi ha non solo permesso di spostarmi nei periodi di maggior attività, ma ha continuato a darmi fiducia nel valore di ciò che stavo facendo durante i momenti di scoraggiamento. Conrad Wieczorek mi ha offerto un'assistenza indispensabile dall'inizio del libro al suo completamento. Gli sono profondamente riconoscente per la generosità con cui ha messo a disposizione tempo ed energia per curare l'edizione del testo e dare suggerimenti su cambiamenti nella forma e nel contenuto.
Molti altri amici hanno svolto un ruolo importante nella rielaborazione di questo libro. Elizabeth Buckley, Brad Colby, Ivan Dyer, Bart Gavigan, Jeff Imbach, Don McNeill, Sue Mosteller, Glenn Peckover, Jim Purdie, Esther de Waal e Susan Zimmerman hanno offerto tutti un contributo significativo. Molti miglioramenti sono il diretto risultato del loro consiglio.
Una speciale parola di ringraziamento va a Richard White. La generosità con cui mi ha offerto il suo appoggio personale e la sua competenza professionale mi hanno dato lo stimolo necessario per portare questo libro alla sua forma definitiva.
Infine, voglio esprimere la mia speciale gratitudine a tre amici che sono scomparsi prima della pubblicazione del volume. Sono Murray McDonnell, David Osler e Madame Pauline Vanier. Il sostegno personale e finanziario di Murray, l'amicizia e la calorosa risposta di David dopo la lettura del dattiloscritto e l'ospitalità di Madame Vanier durante la sua stesura, per me sono stati tutti fonte di grande incoraggiamento. Mi manca moltissimo la loro presenza, ma so che il loro amore è molto più forte della morte e continuerà a ispirarmi.
Mi riempie di grande gioia il poter pensare che questo libro è un vero frutto di amicizia e amore.
Fine libro.
Henri. J.M. Nouwen.
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