Per migliorare la scuola bisogna alleggerirla degli indecenti, premiare i docenti e aiutare gli in-docenti a ritrovare smalto...
Caro prof, non sono più una studentessa delle scuole superiori da ormai due anni - frequento il secondo anno di università, facoltà di Scienze Politiche a Bologna - ma vorrei raccontarle i 5 anni migliori della mia vita.
Per mia fortuna sono capitata in una classe che fin da subito è stata unita e che è riuscita a trovare un suo equilibrio. Eravamo in 24, 17 ragazzi e 7 ragazze. Ci sentiamo ancora e ogni tanto (salvo impegni) ci incontriamo anche se siamo sparsi per l’Italia e per il mondo. Grazie tecnologia!
Ma non è stato tutto rose e fiori, abbiamo dovuto affrontare i nostri problemi con alcuni professori. Sì, perché alcuni di loro arrivavano in classe, aprivano il registro, firmavano e poi giocavano con il cellulare per tutto il tempo. Altri nel bel mezzo dell’anno scolastico prendevano un mese di ferie e lasciavano a poveri, giovani e inesperti sostituti il compito di insegnarci qualcosa. Ovviamente, e mi dispiace dirlo, io perdevo il «filo» e quando il professore tornava dovevo studiare il doppio. C’erano poi insegnanti che invece di chiamarci con i nostri nomi o cognomi utilizzavano dei nomignoli, a volte offensivi, e altri che credevano di essere preparati quando invece dovevamo correggerli noi.
Parliamo anche della pessima organizzazione nelle scuole: sa quanto tempo abbiamo impiegato per avere il permesso di fare una gita di 3 giorni? Due mesi. E alla fine non siamo andati neanche nella città che volevamo. Oppure di tutte quelle circolari che non ci sono mai arrivate e che si sono perse nei meandri oscuri della segreteria… è normale che la segreteria sia aperta solo 3 giorni alla settimana per 2 ore? Beh, nella nostra scuola lo era. Vogliamo parlare delle due ore di ginnastica alla settimana? La maggior parte del tempo le utilizzavo per studiare e, ammetto, la colpa è anche mia... ma mai una volta che il professore mi abbia invogliato a partecipare ad una partita di pallavolo.
Le ho detto che avrei parlato dei 5 anni migliori della mia vita e lo sono stati grazie ai compagni, ma anche a quei professori che sono ancora per me fonte d’ispirazione. Che mi hanno sostenuta, mi hanno fatto credere in me stessa, mi hanno invogliata a studiare, perché non c’è nulla di più bello di imparare e conoscere cose nuove. Li ringrazio ancora perché, durante la maturità, sono stati un sostegno per tutti noi, con messaggi d’incoraggiamento, gruppi di studio e tanto altro.
Caro prof, la lista dei vorrei è lunghissima, ci sono tantissime cose da cambiare nella scuola. Vorrei più professori così, motivati, vorrei più ore per scienze, musica, geografia (guarda mai «L’Eredità»? Mi è capitato di sentire che Trento si trova in Puglia...). Vorrei scuole più sicure, vorrei presenza e non assenza, vorrei rispetto per tutti. Vorrei più contatto con il mondo del lavoro (mai sentito parlare del sistema scolastico svizzero?), vorrei vedere la faccia degli studenti di oggi soddisfatta. Mi sono dilungata troppo forse... ma questa è la mia buona scuola.
Ale
Gentile Ale, la tua lettera (una delle centinaia che da anni ricevo sull’argomento) fa emergere un dato incontrovertibile: la scuola sono i professori, nel bene e nel male. «Ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine. È questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo». Così lo scrittore e Nobel Elias Canetti ne «La lingua salvata» definiva l’essenza della scuola: la viva voce e l’immagine dell’insegnante.
Prima ancora di qualsiasi scontro sul merito, i cui toni offuscano persino la constatazione della realtà (può mai bastare come unico criterio di merito per avanzare in carriera la sola anzianità di servizio?), riporterei il discorso a monte del merito: sulla professionalità. Per i docenti che descrivi all’inizio della lettera non si tratta di meritare o demeritare: occupano un posto indebitamente.
Ecco dove troveremmo impiego per i giovani o i precari che vogliono diventare insegnanti e si vedono sbarrare le graduatorie, perché i loro posti sono occupati da persone che non lavorano e che è impossibile allontanare (solo in questo caso vorrei il preside-sceriffo...). Sono quelli che io chiamo «indecenti».
Poi c’è la seconda categoria che descrivi: quella degli insegnanti dotati di professionalità - non parlo di carisma, che se c’è è meglio, ma che è dono che non tutti hanno - sono quelli che conoscono il mestiere e che voi ragazzi sapete riconoscere subito (perché tanta paura di essere giudicati da voi? Chiedo sempre ai miei studenti alla fine dell’anno di scrivermi che cosa ho fatto bene, che cosa male, che cosa posso migliorare e ne traggo gran beneficio), quelli che non fanno sconti, che danno più del dovuto e chiedono altrettanto, che sanno guardarvi in volto, sfidandovi a dare il meglio, riconoscendo talenti e difetti (questo volete: maestri, non compagni di giochi). Questi io li chiamo «docenti in atto»: ne ricordiamo almeno uno nel nostro percorso.
Tra le due si colloca una categoria, che io chiamo «in-docenti»: hanno professionalità ma, stanchezza, burocrazia, età, difficoltà ambientali, hanno spento il motivo per cui sono diventati insegnanti. Per questo anche se sanno, non riescono a trasmettere. Per migliorare la scuola bisogna alleggerirla degli indecenti, premiare i docenti e aiutare gli in-docenti a ritrovare smalto per evitare che scivolino nell’apatia.
Per concludere, è vero serve contatto con il mondo del lavoro, ma in modo indiretto: perché hai scelto Scienze Politiche? Perché qualcuno ti ha fatto scoprire dove si indirizzava il tuo sguardo, dove potevi impegnare il tuo talento. È mai possibile che dopo 13 anni di percorso scolastico un ragazzo non sappia verso dove guardare? Se lavorare o frequentare l’università? Quale facoltà scegliere? Io credo che orientare, non solo spiegare e valutare, faccia parte della professionalità di un docente, perché istruire ed educare non si possono separare.
Alessandro D'Avenia
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