Forever... così i tifosi portano incisa sulla sciarpa la propria dichiarazione d'amore perenne, senza ma e senza se... Ma vale anche per la famiglia?
del 04 gennaio 2006
La spirale del silenzio
 
I mass-media la ridicolizzano la famiglia presentandola in una crisi senza via d’uscita; e, nello stesso tempo, concedendo spazi e simpatia e riflettori e gloria ad ogni altro genere di legame, dalle coppie di fatto alle unioni omosessuali.
La politica la lusinga quando ha bisogno di voti, esprime anche nobili dichiarazioni d’intenti ma alla fine non sa mai trovare le risorse adeguate per sostenerla.
Tempi grami per la famiglia. La famiglia dei cristiani, quella per sempre. Anche e soprattutto a partire da questo suo forever: lo scriviamo all’inglese, perché così i tifosi portano incisa sulla sciarpa la propria dichiarazione d’amore perenne, senza ma e senza se. Citiamo i tifosi e il calcio non a caso: cambiare lavoro è un titolo di merito (e la fidelizzazione del dipendente verso l’azienda? Ieri una virtù, oggi un vizio); cambiare moglie o marito una iattura, ma purtroppo può capitare e la riprovazione sociale d’un tempo – che pochi per la verità rimpiangono, essendo spesso stata figlia di vuote convenzioni, di vana apparenza, se non d’ipocrisia – è svanita; davvero riprovevole è soltanto, ormai, cambiare la squadra del cuore. Chi la cambia – riconosciamolo! – non è un individuo affidabile. Ma la moglie o il marito, bah, son cose che càpitano: non facciamone una tragedia.
 
 
Spot contro la famiglia
 
Certe paginate di giornale, certi spot televisivi, certi titoloni… L’immagine di famiglia ne esce a pezzi. E tutto fanno venir voglia, tranne che metter su famiglia.
«Una volta si diceva che il matrimonio è la tomba dell’amore. Secondo una nuova teoria, il matrimonio è anche la tomba di ogni forma di genialità creativa, una gabbia, una trappola, una scelta che tarpa le ali a ogni uomo d’ingegno, lo mette in pantofole, lo intorpidisce, lo frena. Vero? Falso?». Così il 26 ottobre 2003 esordiva Laura Laurenzi sulla “Repubblica”. Grazie per l’alternativa, che però nel titolo era del tutto assente: Uomini, chi si sposa è perduto. “Le nozze bloccano il genio”. Nell’articolone – una pagina intera, con foto e tabelle – si spiega come sul “Journal of research in personality” lo psicologo Satoshi Kanazawa avesse studiato le biografie  di 280 scienziati, tra cui molti Nobel, 719 musicisti, 739 pittori, 229 scrittori e un numero imprecisato di criminali. «In tutte le categorie si ripetono le stesse dinamiche. Sposarsi significa dire addio, più che alla carriera, all’illuminazione del genio, affinato e tenuto in esercizio per conquistare una compagna e assicurarsi la migliore progenie possibile. Dopo, il nulla, o quasi».
Intendiamoci, lo studio è attendibile. Lo stesso Claudio Risé, interpellato in proposito, lo prende sul serio: «Sicuramente il matrimonio, portando un maggiore equilibrio nella vita dell’uomo. sposta una considerevole quantità di libido, intesa come energia psichica complessiva, su oggetti d’amore stabili come la moglie e i figli». Tra l’altro, sia Kanazawa che Risé sono sposati; eppure ricercano, scrivono e non sembrano del tutto privi d’intuizioni brillanti… Ma quel che rimane è il titolone: Chi si sposa è perduto. Quindi, va da sé, meglio non sposarsi. Gran bello spot.
Mai come quest’altro, apparso sempre sulla ”Repubblica” qualche tempo prima, il 15 marzo 2003: “Niente sesso, siamo sposati. Il matrimonio è sempre più casto. Magari qualcuno si sposa anche per poter amare con pienezza e libertà il coniuge. Magari c’è qualche cattolico ligio alla dottrina cattolica che dice: prima, niente. Dopo, sì. Invece il matrimonio sarebbe la tomba dell’amore, inteso nella sua dimensione e nelle sue – chiamiamole così – dinamiche sessuali. «Oltre 40 milioni di americani, ha dato l’allarme “Usa Today”, vivrebbero all’interno di coppie dove si pratica poco (una o due volte al mese) o niente sesso» scrive Riccardo Staglianò. Negli Usa, d’accordo. E in Italia? Come se la passano i focosi italiani? Lo psichiatra e sessuologo Fausto Manara smorza le nostre eventuali illusioni: «Da noi l’allarme non è ancora così pronunciato, ma la sostanza non è troppo diversa. In un rapporto Censis del 2001 la tendenza emerge chiaramente: nel primo anno di matrimonio le coppie italiane hanno una media di circa 200 rapporti che poi scendono a 64 nel quarto per precipitare a 10 nel settimo e sprofondare da 0 a 4 nel sedicesimo. Per non dire del 5 per cento del campione che dichiara di non praticare affatto sesso». Ancora una volta è un problema di libido: «Il patrimonio libidico di ciascuno è una quantità fissa e l’erotismo può essere messo nel suo vaso fisiologico tradizionale (il sesso) o dirottato in altre direzioni, come la carriera. In una società così competitiva, con i suoi obblighi di realizzarsi attraverso il fare, dove la pubblicità ci dice che se comperiamo o spendiamo facciamo bene all’umanità, le vie alternative prosperano, a scapito di quella intima».
Il matrimonio blocca il genio e smorza il desiderio sessuale. Ma allora perché dovremmo sposarci? E metter su famiglia? Vengono in mente altri esempi. La stessa parola “famiglia” nel commercio non funziona, perché richiama un’immagine perdente, poco desiderabile. I prodotti “per famiglia” costano poco ma sono anche di qualità inferiore a quelli “normali”. Un tempo c’erano delle automobili lunghe e grosse, con un grande portellone posteriore che consentiva l’accesso a una grande bagagliaio. Si chiamavano familiari e non le voleva nessuno, men che meno le famiglie. In effetti non c’era una grande ricerca nella carrozzeria: erano le solite berline, però allungate, spesso in modo sgraziato. Poi hanno cominciato a disegnarle meglio. Ma non bastava. Hanno dovuto ribattezzarle station wagon per riuscire a venderle, e in gran numero. Via l’aggettivo “familiare”, la connotazione negativa è stata dimenticata. Ma l’esempio più gustoso appartiene a un passato remoto. L’autore è Ennio Flaiano e la fonte è il suo Diario notturno: «La famiglia, quest’ente che gli italiani desiderano proteggere e potenziare, per cui vivono e soffrono, presidio della morale e dell’amore, fulgente simbolo religioso, nel commercio ha significato peggiorativo, le merci “per famiglia” sono quelle di seconda qualità. Da un pescivendolo, un pesce immondo con questo cartello piantato sulla schiena: “Tipo famiglia”».
Spendono poco… Non è affatto vero che le famiglie spendono meno. A volte spendono quanto e più d’una coppia Dink (double income no kids, due stipendi niente figli), il loro reddito è simile, in entrambi i casi uomo e donna lavorano e portano a casa uno stipendio. E allora dove sta la differenza? La differenza è che spendono in maniera diversa. La famiglia con figli tende “pericolosamente” a pensare anche al futuro. Ha generato dei figli proprio perché sa e vuole pensare al futuro; ed avendo dei figli, non può non pensarci. Ha inoltre un’ancor più pericolosa propensione al risparmio, figlia del “pensiero al futuro”: non spende tutto quello che guadagna, e prima di spendere pone a se stessa questa domanda fondamentale: ne ho veramente bisogno? La coppia Dink, concentrata sul presente, è invece molto più docile alle lusinghe dell’advertising. È il consumatore perfetto, ossia quello che più assomiglia al bambino, troppo preso dal presente per pensare al futuro, e troppo preso dalle pressanti richieste del proprio palato per pensare alle conseguenze di ciò che ingurgita. Il consumatore perfetto è colui che tra la sollecitazione dell’advertising – lo spot televisivo, la pubblicità sulla carta stampata… – e l’acquisto non frappone alcun pensiero critico, ossia evita quella domanda che frena la coppia con figli: ne ho bisogno? Certo che ne ho bisogno! Allo stimolo corrisponde dunque una reazione immediata. Il consumatore perfetto trasforma in necessità i capricci. Cambia cellulare due o tre volte all’anno, l’automobile quasi, va in vacanza seguendo e perfino anticipando le mode (una magia dell’advertising è convincerti che con un certo acquisto non segui la moda come tutti i pecoroni, ma la anticipi, ossia fai parte d’una illuminata élite).
La famiglia con figli – specialmente se stabile, durevole, per sempre – è assai meno funzionale al mercato, rispetto alla flessibile, friabile ma docile coppia Dink. Per questo va scoraggiata. Invece i Dink vanno vezzeggiati: loro sì che fanno vorticare il denaro e crescere il Pil.
 
 
Per sempre
 
Ma torniamo alla crisi della famiglia. Tra i motivi profondi potremmo dunque ritrovare lei, la fedeltà? Nel 1996 Marco Columbro fu protagonista di una fiction Mediaset dal titolo Papà cerca moglie. Il quotidiano “Avvenire”, esercitando un ovvio diritto di critica, tramite la penna del suo critico tv di allora, don Claudio Sorgi, avanzò i suoi dubbi sul tono leggero con cui venivano affrontati alcuni temi particolarmente drammatici della coppia, dell’amore, della separazione, dei figli. Columbro rispose con una lettera, pubblicata, in cui tra l’altro scriveva: «Io non sono affatto contrario alla famiglia ma gradirei, visto che Dio ha fornito l’uomo del libero arbitrio, di poterlo esercitare liberamente insieme alla mia compagna sui modi in cui formare la nostra famiglia. Io ho detto che il matrimonio è una buffonata semplicemente perché non tiene conto del più elementare dei diritti umani: la libertà. (…) Non è umanamente onesto, a mio modo di vedere, dire a una donna: ti amerò tutta la vita fin che morte non ci separi. Può accadere, e purtroppo accade ogni giorno, che ad un certo punto del cammino l’amore finisca, per una infinità di motivi».
Sorgi replicò così: «Quando lei parla di “libertà”, ne esprime un ben strano concetto. Secondo l’idea classica – non solo cristiana, badi bene – di libertà, non si intende l’arbitrio di scegliere senza tener conto delle responsabilità che derivano dalle proprie scelte. L’impegno “fin che morte non vi separi” è normalmente preso liberamente, e dunque anche le conseguenze devono essere accettate… Il fatto è che quella prassi che lei e molte storie cinematografiche o televisive volete far passare per comportamento generale, continua a essere un’eccezione alla norma, sia pure preoccupante e diffusa. La differenza tra quello che penso io e quello che pensa lei sta proprio qui: nel considerare, io, dolorosa eccezione il disfarsi di una famiglia o di un amore; e nel voler invece rappresentare, lei, la crisi della famiglia come un’allegra commedia».
Gli argomenti di Columbro meritano un ultimo breve commento. Chi si sposa sarebbe dunque “umanamente disonesto”. E il problema non è il matrimonio religioso in sé. Il problema sta nella fedeltà. In quel “per sempre” che gli sposi si dicono l’un l’altro. Si promettono vicendevolmente. Il matrimonio religioso non è un’assicurazione contro la separazione. Non dà alcuna garanzia automatica di durata. Ma i due sposi – questo sì è importante – s’impegnano davanti a Dio, davanti alla Chiesa, davanti alla comunità a lottare con tutte le proprie forze a restare insieme per sempre; e poiché le loro forze non basterebbero, chiedono aiuto a Gesù Cristo e alla sua forza. La famiglia dei cristiani ha un progetto; poi magari non ce la fa, nonostante tutto; ma nasce attorno a un progetto e con il proposito forte di durare. La famiglia dei cristiani si muove all’interno di un chiaro orizzonte culturale fondato sulla stabilità, sulla durata, sulla fedeltà. Ed è questo a dare fastidio.
E non da oggi. Oggi sta assumendo proporzioni di massa un orientamento culturale, o meglio un atteggiamento di vita, un modello di pensiero e di comportamento che nei secoli scorsi apparteneva a ristrette élite, diciamo pure a individui che potevano permetterselo e magari costruivano la propria fama e fortuna sul proprio atteggiamento (allora) trasgressivo. Se un povero incolto trasgredisce, viene esecrato, beffeggiato, eliminato. Se a trasgredire è un intellettuale o un ricco, va in televisione. Leggiamo questa frase e proviamo a indovinare chi l’ha scritta: «Non v’è menzogna sillabica più confusa e più diffusa di questa: la fedeltà. Ha il suono scenico delle false catene… Non v’è coppia fedele per amore. Io sono infedele per amore, anzi per arte d’amore quando amo a morte». Non è difficile: è il giovane Gabriele D’Annunzio, il futuro vate, letto e idolatrato da legioni di italiani… che poi si comportavano in modo opposto, esaurendo il loro desiderio di trasgressione nel contemplare le trasgressioni altrui, di D’Annunzio, che se le poteva permettere. Oggi possiamo permettercele tutti, e la differenza non è da poco.
 
 
Antitossine
 
E torniamo alla crisi. All’accerchiamento della famiglia. Se la vita fosse un film western, potremmo dipingerla come un pugno di pionieri con i carri messi in circolo, i pellerossa famelici e impazienti tutt’attorno, e un solo colpo rimasto per ogni fucile.
Sorte segnata? Nient’affatto. Se anche non ci pensano i cristiani, perché scoraggiati, ammutoliti, rassegnati all’insignificanza o all’inutilità d’ogni parola o gesto o testimonianza, la società produce da sé le sue antitossine. Basta saperle individuare. Le famiglie esistenti e resistenti sono una prima antitossina, con la loro ostinazione a costruire corpi solidi nonostante tutto. Bisogna però vincere la tentazione di percepirsi in via d’estinzione, minoranza in un mondo che sembra procedere in tutt’altra direzione e non sa che farsene delle famiglie. Vincere il mutismo della parola e del pensiero. Se sapranno aprire gli occhi, troveranno alleati, o almeno compagni d’un tratto di strada, dove meno se li aspettano.
Ad esempio, nell’aprile del 2002 esce Casomai, il film di Alessandro D’Alatri. Parla della difficoltà di essere “famiglia normale”. Di due trentenni drammaticamente soli al momento delle scelte decisive, quando la liquidità attacca violentemente il loro corpo solido, la loro famiglia. In un’intervista a Maria Novella De Luca, sulla “Repubblica” (28 aprile 2002), D’Alatri afferma: «Per scrivere la sceneggiatura con Anna Pavignano abbiamo studiato le cause di separazione e di divorzio, abbiamo analizzato i comportamenti di fidanzati, conviventi, amanti in crisi. È venuto fuori che oggi due persone che si amano sono attaccate da mille condizionamenti esterni». Domanda: in che senso? «Iniziamo dalla coppia. Ognuno può disegnarsi la vita come vuole, ma perché il non tradirsi e la fedeltà devono sembrare concetti sorpassati? Perché la “normalità” deve essere vista come mediocrità al confronto di una trasgressione che diventa regola di vita? Si parla tanto di crisi della coppia e della famiglia, ma poi due che decidono di fare un figlio vengono emarginati». Da tutti. Specialmente la donna che “rinuncia alla carriera”: disapprovata! Conclude D’Alatri: «Per fortuna in tema di abitudini sessuali si può scegliere tutto: divorziare, vivere un amore gay, restare single. Ma la famiglia resta l’impresa più dura. Non piace più nemmeno al mercato: la separazione moltiplica i consumi, l’unità li abbatte».
Divorzi, amori gay e single appartengono alla liquidità. Quanto ai consumi, sentiamo che cosa dice la protagonista femminile del film, Stefania Rocca, intervistata stavolta sul “Corriere della sera” da Claudio Sabelli Fioretti: «Ogni tanto penso che l’infelicità è quella che produce reddito e sviluppo. Due che si separano danno lavoro ad avvocati, giudici, raddoppiano case, macchine, moltiplicano i consumi. Io quando sono infelice vado a comprarmi un vestito rosso. La persona felice consuma meno». (Granellini: «L’insoddisfazione è la vera anima del commercio, la gente felice non consuma»). Domanda: c’è differenza tra coppia di fatto e coppia sposata? «Fino all’altro ieri pensavo di no. Ma non è così. Se uno decide di sposarsi, si prende una bella responsabilità che deve portare avanti. Io non so se mi sposerò. Ma se uno si sposa deve crederci». Domanda: che cos’è veramente un matrimonio? «Un rapporto di complicità e di amore. Di fedeltà».
 
Qui la morale cattolica non c’entra. Non c’entrano nemmeno i nostri accurati percorsi formativi. Certe antitossine si attivano perché c’è una verità iscritta da Dio nel più profondo del cuore umano, giù nella nostra anima. Quel “per sempre”, quella fedeltà non è un’invenzione cristiana, non è una scritta posticcia. C’è già, e i cristiani non fanno altro che mostrarla, sollevando il velo che la cela.
 
Umberto Folena
 
 
L’articolo è una anticipazione (per gentile concessione dell'autore) del testo 'Forever. Famiglia, veleni e antitossine', Editrice Monti, seconda edizione (in corso di pubblicazione).
 
Umberto Folena (Firenze, 1956) scrive sul quotidiano “Avvenire”. Vive a Trento con la moglie e due figli. Consulente della Cei, collabora con settimanali e mensili. Tra i suoi libri più recenti: Cristiani no limits (Franco Angeli, 2000), Benedetta famiglia (Edizioni dell’Immacolata, 2001), Con mani di padre (biografia di Lodovico Pavoni, Àncora, 2002), Survival in famiglia (Piemme, 2003) e Il vescovo e Margherita (Àncora, 2004).
 
Umberto Folena
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